Nomi di una volta: il caso della signora Mariuccia

Il nome di un bimbo in arrivo… c’è chi ci pensa per nove mesi e chi inizia anche prima, tanto è importante per noi dare subito un’identità ai nostri figli. Ma cos’è poi un nome? Non è una mano, né un piede, diceva qualcuno… E lo sapevano bene i nostri antenati, che, preoccupati per cose più urgenti ed importanti, non si creavano inutili problemi: prendevano il nome di un nonno o una nonna e via, quello era. E così diventava tutto più facile, o quasi…

Sono passati più di cento anni da quel giorno, il giorno in cui il signor Ernesto, appena diventato padre, doveva recarsi alla Casa Comunale a dichiarare la nascita della sua bambina. Oggi quest’usanza non è più necessaria e a me un po’ dispiace, perché la storia di un giovane padre che corre in comune per dire che “dalla di lui moglie seco lui convivente è nato un bambino di sesso femminile a cui dà i nomi di…” è una bella storia, secondo me. Il signor Ernesto stava per fare proprio questo, quando la moglie, signora Lisa, lo fermò per assicurarsi, come tutte le donne, che il marito non facesse qualche sciocchezza e mettesse alla bimba il nome prescelto: quello della nonna Giò.

Il signor Ernesto esce di casa e cammina felice in direzione del municipio. A metà strada, però, tra mille pensieri, si insinua il dubbio. Il signor Ernesto si ferma e si domanda: «Ma che nomm a lè Giò? A ghò da ciamala Giò? Mi la ciami no inscì!»; e riprende a marciare con decisione verso il comune. Arrivato davanti all’ufficiale dello Stato Civile, si ritrova però senza il nome per la sua bambina e – non si sa come, né soprattutto da dove – salta fuori il nome Irma. Il signor Ernesto, forse soddisfatto, forse di fretta o chissà cos’altro, accetta il nome, che viene trascritto sull’atto di nascita.

Tornato a casa, la moglie lo prende da parte e gli chiede: «Te ghe metù ul nomm dalla nonna Giò?» e il marito risponde di no, che Giò l’è minga un bel nomm e lù la sua tusetta la ciamada Irma. Apriti cielo! La signora Lisa e tutto il parentado accorso per festeggiare l’evento insorgono: «Ma la nonna Giò la sa ciama minga Giò!»; e il signor Ernesto, incredulo: «Ma la sa ciama?»; «La sa ciama Maria. Torna indietro in comune». E il povero Ernesto riparte verso la Casa Comunale.

Arrivato, tutto sudato e con il fiatone, fa presente il problema, ma ormai l’atto è stato compilato ufficialmente davanti a testimoni e non si può cambiare. Al limite si può aggiungere Maria come secondo nome, ma dopo Maria si traccerà anche una bella riga orizzontale, per evitare altre aggiunte e ripensamenti.

E fu così che la signora Mariuccia si ritrovò appiccicata addosso la sua etichetta anagrafica, che porta ancora oggi, dopo centouno anni, sebbene tutti la conoscano da sempre come Mariuccia.

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E buon centunesimo compleanno alla cara Mariuccia…

(Cog)nomi di una volta: la scomparsa di una “t”.

Capitano nella vita dei momenti in cui le nostre certezze sembrano svanire, momenti in cui tutto ciò che ritenevamo saldo, granitico, incrollabile all’improvviso non lo è più e noi crediamo di avere perso qualcosa, ci sentiamo diversi, non ci riconosciamo più.

Circa una settimana fa ho ricevuto l’atto di nascita di un mio bisnonno, anzi: del mio bisnonno, il padre del padre di mio padre, quello del mio filo genealogico diretto, quello che mi ha dato il cognome, o almeno così credevo…

Ogni atto di nascita “racconta” la storia di un padre che il giorno dopo la nascita del figlio compare davanti all’Uffiziale dello Stato Civile, accompagnato da due testimoni, per presentare il bambino alla comunità. In questo caso il protagonista è il mio trisavolo Battista, contadino illetterato, che, forse per un secondo matrimonio o forse per semplice legge di natura, proprio sulla soglia dei cinquant’anni si è ritrovato con un figlio, il piccolo Angelo Giuseppe.

Leggendo queste poche righe, una stranezza, una anomalia mi ha subito colpita al cuore: sull’atto di nascita del bisnonno il mio cognome è scritto con due “t”. Lo so che andando indietro nel tempo si incontrano tutte le inevitabili ed interessanti variazioni subite dal proprio cognome, ma già un cambiamento alla generazione del bisnonno mi è sembrato un po’ prematuro e soprattutto sospetto, considerando che sulla sua tomba (che ho visto con questi occhi) il cognome è scritto con una “t” sola, come da sempre ce lo portiamo appiccicato addosso io, mio fratello, mio padre, mio nonno… e tutti gli altri che ho incontrato – vivi – sul mio cammino. Trattandosi di un atto del Comune, nel quale sia il bisnonno sia il trisavolo hanno quella fastidiosa ed irritante doppia “t”, suppongo che il cognome sia quello, poco da fare. La domanda – perché una domanda ci dev’essere – è la seguente: quando si è persa la seconda “t”? Ad un certo punto si dev’essere persa per forza, essendo il bisnonno nato con due “t” e morto che ne aveva una sola! Lo so che nella vita ci sono cose peggiori, tipo nascere con due gambe e morire con una (idem per le braccia, le orecchie e molto altro), o, al contrario, andare dal dentista con un dente cariato e ritrovarsene due. Io però sono sempre stata contenta e persino fiera del mio cognome con una “t” sola, che trovavo più raffinato di quello con due “t”, più diffuso e di conseguenza più volgare (non me ne vogliano quelli con due “t”, che magari me li ritrovo pure parenti). Oggi invece mi scopro a cercarla quella maledetta seconda “t”, a domandarmi dove sia finita, chi me l’abbia portata via.

La prima ipotesi che mi salta in mente è che non sia stata trascritta sull’atto di nascita di mio nonno, che si è trovato il cognome con una “t” sola e così se l’è tenuto. Se così fosse, il fratello minore la doppia “t” avrebbe dovuto recuperarla: mi sembra difficile che il signor Segretario Comunale abbia sbagliato due volte e per giunta con lo stesso pover uomo che andò a denunciare la nascita del secondogenito! A meno che, per evitare due fratelli con cognomi diversi, si sia stabilito di toglierla anche al secondo, ma mi sembra un po’ troppo arbitrario e il tutto molto arzigogolato.

La seconda ipotesi che mi è balenata per la mente è che l’altra “t” sia stata deliberatamente o incautamente eliminata dal bisnonno, in qualcuna delle sue stramberie etiliche. Dovete sapere – e qui inizia la storia… – che anche il bisnonno Angelo era un buon bevitore, come il bisnonno Natale, la zia Teresina, lo zio Giuseppe (meglio noto come lo zio “Voglio morire”) e di sicuro altri che incontrerò lungo le mie peregrinazioni nel passato oscuro della famiglia… Fatto sta che il nonno Angelo beveva e non sempre era lucido. Quando arrivava una cert’ora e non lo si vedeva rientrare, la bisnonna Carolina mandava la nipote (mia zia Elena) a stanarlo all’osteria e la poveretta non sapeva più cosa inventarsi per riportarlo a casa. Le andava meglio quando doveva recuperarlo al cinema. Il nonno Angelo, per arrotondare, faceva la maschera al vecchio cinema di Piazza Castello e guardava e riguardava il film in compagnia del suo solito goccetto. Quando arrivava la nipotina, il nonno, che conosceva bene il mandante (anzi: la mandante), le diceva: «Se non dici alla nonna che ho bevuto, ti compro la gazzosa. Ma solo se non le dici che ho bevuto». Inutile dire che la bambina si lasciava corrompere senza troppi sensi di colpa e così, al rientro a casa, quando la nonna le chiedeva: «Il nonno ha bevuto?», lei rispondeva di no, mettendo da parte un’altra dissetante gazzosa per la volta successiva.

Suppongo che la nonna lo sapesse che il marito aveva bevuto, ma che ci poteva fare? Erano anni in cui gli svaghi non erano molti e il nonno in fondo non faceva del male a nessuno.

Ora mi piacerebbe capire come quel bisnonno che non ho conosciuto e di cui non so altro un giorno si sia perso una “t”. Non escludo che l’abbia dimenticata in qualche atto o documento, o che non l’abbia più voluta, che gli sembrasse di troppo, vai a sapere cosa gli passava per la testa quand’era “bevuto”…

Al di là delle risposte certe e delle ipotesi fantasiose, l’unica eventualità davvero plausibile è che un tempo, tra italiano e dialetto, ci fosse un po’ di confusione. La lingua allora era un fenomeno più scivoloso, malleabile, vivo rispetto ad oggi: per noi i nomi sono verità fissate una volta per tutte e incontrovertibili, ma non sempre è stato così. Inoltre, le consonanti doppie in Lombardia non ci sono mai piaciute: quante parole italiane sono o diventano scempie nei dialetti lombardi? Padella e padela, macchina e machina, cattivo e cativ… Così è successo anche a molti cognomi, che oscillavano quotidianamente tra la versione forte e gagliarda con la consonante doppia e quella morbida e piana dalla consonante scempia. Allora posso immaginare che la mia seconda “t” se ne sia andata di sua iniziativa, stanca di sentirsi inutile o di troppo, di esserci o non esserci.

Un bel giorno – il sole non era ancora sorto – la seconda “t”, senza dire niente a nessuno, ha fatto su il suo fagotto, se l’è messo sulle spalle ed è partita, un po’ alla ventura. Felice di vedere il mondo, finalmente libera dalle scartoffie dei documenti e della burocrazia, l’altra “t” quella volta decise di andarsene per i fatti suoi e di non farsi vedere più…

Nomi di una volta: Fiorine, Isoline e anche una Scolastica

L’uso di mettere ai nuovi nati i nomi di qualche vecchio ascendente è pratica antica e mai sopita.  Ogni famiglia ha i propri nomi che ritornano, ogni albero genealogico i suoi fiori caratteristici. Se tra i fiori femminili le Terese, le Marie e le Luigie si sprecano, ce ne sono altri meno diffusi che in certe famiglie sono quasi d’obbligo.

I nomi sono generazionali e seguono o avviano alcune mode. Oggi pare che per le bambine i nomi più adatti inizino tutti con la lettera “G”: Giulia, Giorgia, Giada, Gaia, Greta… in ogni classe ce n’è una, insieme ad una Marta e una Martina.

I nomi di una volta a noi suonano strani, sanno di antico, di vecchio. Alcuni di quei nomi sono tornati di moda in questi anni, come Emma o Vittoria. Altri il marchio d’antiquariato se lo portano ancora addosso, in evidenza, e noi mai penseremmo di apporre per sempre una simile etichetta sulle nostre bambine. Eppure, a osservarli e ad ascoltarli bene, i nomi di una volta si riscoprono davvero belli e ricchi di significato…

Nel mio albero genealogico i nomi che più mi hanno colpita sono tre, tutti legati a vecchie zie che, nel bene o nel male, hanno fatto parlare di sé.

I nomi dei fiori, spesso di origine latina, sono in uso dal medioevo ed ogni famiglia ha i suoi: la mia zia preferita era una Rosa, mia suocera una Dalia. Il nome Fiore è invece meno frequente ed è sia maschile sia femminile, come il suo diminutivo Fiorino; mentre Fiora, Fiorina e Fioretta sono solo femminili. Sono nomi “trasparenti”, come insegna la linguistica, perché lasciano vedere senza possibilità di dubbio il proprio significato.

Anche Scolastica non ammette errori e prima di iniziare questa ricerca mi stupivo di come potesse essere un nome di persona. In realtà basta sfogliare il calendario e la risposta arriva da sola ed anche in fretta, già al 10 di febbraio: S. Scolastica da Norcia, sorella di S. Benedetto, tradizionalmente ritenuta la fondatrice dell’ordine delle monache benedettine. Di donne così ce ne sono state poche e anche in famiglia ne ho trovata una sola, cugina di mia madre, della quale non conosco nulla a parte questo nome insolito, che mi fa pensare che da qualche parte se ne nasconda almeno un’altra, responsabile, a suo modo, della scelta… Delle Fiorine invece ho sentito parlare spesso, e poco tempo fa, tra le vecchie fotografie della zia Elena, ho trovato persino un Fiorino, fratello del bisnonno Pietro.

La zia Fiorina era la sorella giovane della mia bisnonna, la sorella buona; mentre la zia Teresa, la sorella maggiore, era la sorella cattiva. Nomina sunt consequentia rerum… neanche a farlo apposta la zia dal nome dolce era creatura delicata e sensibile, quella con il nome più “ruvido” era un personaggio un po’ particolare, piuttosto “discutibile”. La zia Fiorina aveva studiato, frequentando addirittura la quarta elementare, e per questo faceva l’impiegata. Prendeva il nome a sua volta da una zia, la sorella maggiore della mia trisavola, la cosiddetta “mam” Gina, la “grande mamma” che, unica sposata dei quattro fratelli della cascina Valera, aveva dato al marito ben nove figli. Donna pratica come con nove figli non si può fare a meno di essere, la “mam” Gina non fece fatica a distribuire i nomi alle tre femmine: la prima Teresa come la nonna materna, la seconda Natalina perché nata a tre giorni dal Natale e l’ultima Fiorina come la zia. Le tre figlie, una volta sposate, lasciarono tutte la vecchia cascina e si stabilirono in tre comuni vicini ma diversi. Per raggiungersi era necessario viaggiare, in tram o con la corriera, e la mia bisnonna al pomeriggio prendeva con sé la nipote (mia madre) ed andava a trovare entrambe le sorelle, quella buona e quella cattiva, sebbene una volta l’avesse sorpresa col suo fidanzato! Neanche a dirlo la nonna Natalina lasciò quel fedifrago all’istante; ma la sorella era pur sempre la sorella, nonostante il “fattaccio” e tutto il resto, e allora si andava a trovarla (per poi tornare a casa a commentare quella sua strampalata condotta di vita). Mia madre dalla “vispa” zia Teresa si divertiva, perché era sempre allegra, in compagnia del secondo marito e di un fiasco di buon vino; mentre dalla zia Fiorina si trovava bene, perché quel piccolo fiore era d’animo sensibile.

La nonna Natalina (seduta) e la zia Fiorina nel 1923

La nonna Natalina (seduta) e la zia Fiorina nel 1923

Come le Fiorine anche le Isoline sono originarie della cascina Valera. Una fu la prima moglie dello zio Mario, la moglie dolce e buona che purtroppo morì presto, lasciandolo con tre figli. Le subentrò, come succedeva una volta, la sorella Genoveffa, zoppa e cattiva, una specie di sorellastra di Cenerentola che per le nipoti fu una vera matrigna. Anche questa volta la teoria della sorella buona dal nome dolce e della sorella cattiva dal nome goffo è stata rispettata. Della seconda Isolina invece non si sa più nulla. Dopo essersi sposata, ha lasciato lentamente perdere le sue tracce…

Nome tenero e musicale nel suono, a richiamare qualcosa di piccolo e poco importante, Isolina è “opaco” nel significato, che nulla ha a che vedere con scenari esotici e remoti di isole lontane… Lontana è solo l’origine, dall’antico celtico Essylt, che nonostante il suono dolce e malinconico custodisce un significato forte e battagliero: Isolina è colei che “protegge con il ferro”, analogo al più noto e letterario Isotta, la  bionda principessa d’Irlanda amante del giovane Tristano. Ma non si pensi che la piccola Isolina non abbia diritto al proprio posto in qualche opera letteraria. Eccola, infatti, tra i bambini di Marcovaldo, l’ingenuo manovale nato dalla penna di Italo Calvino. Protagonista di tanti guai combinati con i fratelli, verso la fine della storia Isolina è cresciuta e la troviamo sognatrice malinconica in uno dei racconti più poetici del libro, Luna e Gnac: «Affacciata alla mansarda in cui abitava, la famiglia di Marcovaldo era attraversata da opposte correnti di pensieri. C’era la notte e Isolina, che ormai era una ragazza grande, si sentiva trasportata per il chiar di luna, il cuore le si struggeva, e fino il più smorzato gracchiar di radio dai piani inferiori dello stabile le arrivava come i rintocchi d’una serenata; c’era il GNAC e quella radio pareva pigliare un altro ritmo, un ritmo jazz, e Isolina pensava ai dancing tutti luci e lei poverina lassù sola».

Marcovaldo e la piccola Isolina nello sceneggiato Rai di Nanni Loy (1971)

Marcovaldo e la piccola Isolina nello sceneggiato Rai di Nanni Loy (1971)

Questi nomi di una volta, che una volta mi suonavano strani e vecchi, li sento oggi molto belli; e non ci vedrei nulla di strano a trovarmi in classe un “piccolo fiore” o una timida Isolina, che sembrano evocare qualcosa di minuto e dolcissimo, come una bambina.

L’è par sempar: ricordi dalla Grande Guerra

L’avevamo trovata quassù la piccola Irma Maria, su questo balcone, insieme alla sua mamma che le indicava le montagne dov’era a combattere il papà.

A cent’anni esatti dall’omicidio dell’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando, e dall’inizio della prima guerra mondiale, passata alla storia come la Grande Guerra, non è facile trovare ancora in vita qualche testimone. La signora Mariuccia non poteva essere sul fronte, ma quel conflitto ha fatto parte anche della sua vita, allora appena incominciata…

La piccola Maria aveva circa due anni quando l’Italia è entrata in guerra e il suo papà è dovuto partire. La vita quotidiana di questa piccola famiglia lombarda, come quella di quasi tutte le famiglie italiane, cambiò drasticamente quel lontano 24 maggio 1915. Mamma Lisa lavorava già, poiché da queste parti, nel Nord appena industrializzato, le donne avevano iniziato ad uscire di casa da tempo. Tante altre giovani spose, invece, iniziarono a lavorare proprio durante la guerra, perché gli uomini erano tutti al fronte e in qualche modo bisognava sopravvivere. L’unico “merito” della Grande Guerra è stato di avere contribuito all’emancipazione delle donne italiane, che, fuori di casa e nelle fabbriche, hanno iniziato ad assumere consapevolezza dei diritti loro negati.

La signora Lisa lavorava in tessitura e lavorava dodici ore al giorno. Ai bambini badava il nonno, il pà Peder, come veniva chiamato un tempo il capostipite della famiglia. Il pà Peder era soprannominato ül Radetzky, perché – così si racconta – somigliava moltissimo al noto generale austriaco. Per questo motivo in paese era rispettato e tenuto in considerazione. Come tutti i bambini dell’epoca la piccola Maria e il fratellino Bruno dovevano aiutare la famiglia, facendo i “mestieri”, ma come tutti i bambini di sempre pensavano a giocare e ne facevano “una pelle”, come si dice da queste parti. Ricorda la signora Mariuccia che, quando la mamma tornava dal lavoro, il povero Radetzky, sfinito, le restituiva i suoi bambini e non ne voleva sapere più niente.

In quel periodo la vita si era fatta più difficile di quanto non lo fosse già e i sacrifici che si dovevano affrontare erano parecchi. Per mangiare era necessario avere la tessera, a causa del razionamento dei generi alimentari. L’economia doveva marciare a pieno ritmo seguendo le priorità dettate dalla guerra, tra le quali il sostentamento della popolazione era contemplato solo in virtù del funzionamento dell’industria bellica. Nel 1917 la situazione era peggiorata al punto che fu vietata la vendita di pane fresco, i macellai vennero chiusi di giovedì e venerdì e i pasticceri il sabato la domenica e il lunedì, giorni in cui era proibita anche la vendita dello zucchero. Inoltre il possesso di alcuni generi – granturco, fagioli, riso e patate – doveva essere notificato in Municipio.

In questo clima di restrizioni la domenica la signora Lisa si concedeva una merenda speciale con i suoi bambini. Prendeva dalla credenza il servizio di bicchierini piccolissimi che custodiva gelosamente e versava per tutti un goccino di vino, accompagnato da un pezzettino di formaggio gorgonzola. A raccontarmi questo particolare è la signora Pinuccia, proprio lei che in quegli anni non c’era ma conosce tutte le storie che, quando era piccola, le raccontava mamma Lisa, per la quale quel momento con i suoi bambini doveva essere davvero prezioso.

I ricordi più vivi della signora Mariuccia sono legati ai ritorni e alle partenze di papà Ernesto. Quelle rare volte che il papà riusciva ad ottenere una licenza di pochi giorni, prima di presentarsi a casa, passava a prendere i bambini all’asilo. All’improvviso sulla porta dell’aula compariva la suora ad annunciare che era arrivato il soldato e la piccola Maria sapeva che si trattava del suo papà. Felicissimi i bambini tornavano a casa con lui, che avrebbe finalmente riabbracciato anche la moglie. Questa felicità effimera mutava però in tristezza quando il signor Ernesto doveva ripartire e i suoi bambini lo salutavano con la mano. La signora Mariuccia ricorda ancora che in quei momenti dentro di sé pensava se mai l’avrebbe rivisto il suo papà…

I ritorni in licenza erano accompagnati dai racconti della guerra e dei luoghi che i soldati imparavano a conoscere. Il signor Ernesto diceva che nella zona di Trento le case erano bellissime, molto diverse dalla sua e da quelle dei suoi compagni, e che quelle persone prima del conflitto conducevano una vita tranquilla e dignitosa e non avevano alcuna intenzione di diventare italiani. L’irredentismo che studiamo sui libri di scuola nella realtà quotidiana era roba per pochi, per Cesare Battisti e altri borghesi che si potevano permettere di avere delle idee. I contadini pensavano solo a come sopravvivere e sotto il dominio austriaco non andava poi troppo male.

Più spesso i racconti del signor Ernesto erano altri e terribili. Tutte le guerre sono feroci e la seconda guerra mondiale non fu da meno della prima. La Grande Guerra però è stata soprattutto una guerra di trincea, combattuta in prima linea da tanti giovani impreparati che non potevano accettare di trovarsi lì, in quelle fosse sporche e strette che avevano dovuto scavarsi da soli, tanto vicini al nemico e alla morte. Quelle fosse, dal fondo delle quali Giuseppe Ungaretti scriveva le poesie che tutti abbiamo letto, erano lo spazio vitale occupato dai soldati, giorno e notte. Il signor Ernesto, quando tornava in licenza e persino quando tornò definitivamente a casa, dormiva per terra, perché non era più abituato a dormire in un letto.

L’unica consolazione dei soldati costretti là dentro era custodita nelle fotografie che ritraevano madri, mogli, figli e fidanzate che li attendevano a casa e sognavano di vederli tornare. Anche papà Ernesto ne aveva una, che la signora Mariuccia conserva ancora e mi ha dato perché io la inserisca nel mio racconto. In posa come in un ritratto dell’Ottocento ci sono mamma Lisa e i suoi bambini, il piccolo Bruno – che avrà avuto due o tre anni al massimo – e la bella Maria, che oggi è qui seduta accanto a me con solo cento anni di più. In quei momenti difficili di lontananza il signor Ernesto teneva con sé anche un’immagine del Sacro Cuore di Gesù, che lo proteggeva soprattutto quando usciva dalla trincea. Quel piccolo portafortuna, insieme ai suoi documenti, ha voluto lasciarlo alla figlia minore, la signora Pinuccia, che l’ha sempre custodito tenendolo dentro la sua patente di guida. Non è credente la signora Pinuccia, ma quell’immagine sacra era del suo papà e per lei è un oggetto di valore indescrivibile.

Quando la guerra stava ormai per finire un’altra calamità arrivò inaspettata a decimare la popolazione mondiale: l’influenza spagnola. Nel giro di due anni la cosiddetta “spagnola” uccise decine di milioni di persone, tra cui la madre del signor Ernesto, la nonna Giò. Questa tragedia ebbe almeno il merito di accelerare il ritorno a casa di molti soldati.

Un giorno infatti, passati oramai più di tre anni dall’inizio della guerra, papà Ernesto arrivò all’asilo a prendere i bambini. Anche quella volta si aprì la porta dell’aula e anche quella volta la suora annunciò che era arrivato il soldato. Quella volta però c’era qualcosa di diverso, qualcosa in più; qualcosa che bisogna aver vissuto per poterlo capire: quel giorno il papà era tornato per sempre. La piccola Maria era riuscita a trattenersi per tutta la strada del ritorno, ma una volta arrivata vicino a casa non resistette più: lasciò la mano del signor Ernesto e corse dalla mamma per dirle che il papà era tornato, ed era tornato per sempre. La signora Lisa in quel momento si trovava in giardino, sulla pianta a cogliere le ciliegie, ignara della felicità che la sua bambina le stava portando. Non so immaginare cosa avrà pensato e cosa avrà provato. Mi sembra però di riuscire a vederle, la mamma e la bambina, insieme sotto l’albero, felici, mentre il papà è ancora per strada con il fratellino e la piccola Maria non smette di ripetere queste poche, bellissime parole: «L’è par sempar, l’è par sempar!». Le stesse parole che nello stesso giardino quella bambina di cento anni ripete ancora oggi per raccontarle a me.

Avere cent’anni

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Tutte le famiglie hanno delle storie, a volerle cercare. Storie che possono apparire banali se paragonate a quelle dei personaggi illustri. Eppure, quando le abbiamo tra le mani e le leggiamo da vicino, sono storie piene di fascino, di commozione, di avvenimenti anche. Questa è una storia che va avanti da oltre cento anni…

1915, sul balcone di una delle tante case di ringhiera della zona c’è una mamma con i suoi bambini. La giovane Lisa si è trasferita qui nel 1911, fresca di matrimonio. Come tutte le ragazze sognava una vita serena, con i bambini per casa e qualche soldo guadagnato onestamente. Purtroppo questa volta ci si è messa di mezzo la Storia, che insieme a tanti giovani italiani si è presa anche il suo Ernesto e l’ha portato lontano per più di tre anni. La mamma indica ai suoi bambini le montagne, dove – dice – si trova il papà. Sono le montagne lombarde, ma il papà è più lontano, sul Monte Grappa, a combattere per una patria che non vede, che forse non gli ha mai dato niente e di cui non sogna affatto di ampliare i confini. Papà Ernesto è in trincea, a combattere la Grande Guerra.

La piccola Irma Maria, oggi signora Mariuccia, ha solo due anni, ma qualcosa di quei momenti le è rimasto impresso e me lo racconta con partecipazione. Nata in questa casa nel 1913, è sempre vissuta qui, dove sono nati anche il fratello e le due sorelle che seguirono. Da questa casa ha visto passare la Storia, da questa casa dove continua a vivere con la sorella giovane, la signora Pinuccia, intraprendente ottuagenaria che guida ancora e una volta è persino venuta a prendermi all’aeroporto di ritorno dalle vacanze. Delle tre sorelle manca solo la signora Piera, la nonna del mio compagno, la prima ad andarsene qualche anno fa.

La signora Mariuccia ha compiuto cento anni a settembre, ma è sempre in gamba e racconta le storie di un tempo ricordando anche i particolari. Dopo la Grande Guerra e l’atteso ritorno del padre, arrivò la prima sorella, ma l’anno seguente ci fu la marcia su Roma e così arrivò anche Mussolini. La vita quotidiana iniziò ad essere scandita dalla propaganda e dai riti del regime, dall’obbligo della tessera di partito per poter fare qualunque cosa e dalle azioni intimidatorie nei confronti dei dissidenti. In questo clima di repressione la piccola Maria crebbe, andò a scuola e all’età di undici anni e mezzo iniziò a lavorare in un ricamificio, lavoro che le piacque sempre moltissimo. Quando nel ‘32 arrivò la seconda sorella, Mariuccia era ormai una signorina in età da fidanzato. Conobbe un ragazzo di origini venete, di nome Elio, che riuscì a frequentare poco, perché subito dopo il fidanzamento lui dovette partire per diciotto mesi di servizio militare e al ritorno dalla leva il duce lo spedì in Africa per la conquista dell’Etiopia, dove rimase tre anni. Quando tornò a casa, trovò impiego come operaio all’Agusta, la storica ditta di elicotteri di Cascina Costa, sposò la sua Mariuccia e nel ‘40 nacque la prima figlia: Giacomina, detta Linuccia. Nello stesso anno il duce, convinto di avere la vittoria in tasca, decise di intervenire a fianco della Germania nel secondo conflitto mondiale, e così la Storia passò di nuovo a reclamare uomini. Questa volta però il signor Elio, non si sa bene in che modo, riuscì a scamparla e rimase qui al fianco della moglie e con la sua piccolina appena nata.

Tra gli uomini di famiglia c’era anche il fidanzato della sorella Piera, Emore. Essendo motorista, lavorava all’aeroporto di Malpensa ed anche durante la guerra era vicino a casa. Racconta la signora Pinuccia che allora era una bambina e quando arrivava il fidanzato della sorella correva a vedere se aveva qualcosa sotto il cappotto. In tempi di fame e miseria quel ragazzo non portava mica i fiori alla morosa: le portava un filone di pane. La sera i due giovani se ne stavano in cortile e la piccola Pinuccia avrebbe voluto rimanere fuori con loro, ma la mamma la cacciava a letto, ché la sorella aveva anche diritto a starsene un po’ col fidanzato! Ma la sorellina piccola non voleva disturbare, voleva restare fuori perché sapeva che quei due avrebbero arrostito le patate! E quando al mattino trovava le bucce per terra si arrabbiava con la mamma che l’aveva mandata a dormire.

Dopo l’8 settembre la situazione si fece molto incerta e con i bombardamenti degli inglesi non si dormiva più. Il giovane Emore si nascose qui con due forieri, prima di scappare in Emilia, sua terra d’origine. La signora Mariuccia prese i bambini e si spostò a Busche, vicino a Feltre, dove c’erano i parenti del marito e la vita era più tranquilla. Quella mattina preparò in fretta quattro cose e salì sul camion che era passato a prenderli sottocasa per andare alla stazione. Dopo cinque notti di bombardamenti serrati su Milano molte persone erano in fuga e nessuno sa come abbia fatto la piccola famiglia, stremata, alle otto di sera, a trovare posto sul carro merci.

Di quel viaggio la signora Mariuccia ricorda la bella tutina a quadrettini celesti che indossava il suo Flavio e la sosta alla stazione di Padova, dove approfittarono dei giardini pubblici per lavarsi almeno un po’. Arrivata in Veneto con i bambini, trovò la pace tanto sognata. Ma solo un paio di settimane più tardi il fronte si era spostato ed il pericolo era ancora più vicino: dietro casa c’era il ponte che passava sul Piave e venne fatto saltare in aria. La vecchia abitazione di Busche mostra ancora la profonda crepa nel muro provocata dalla detonazione.

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Quando il povero Elio tornò indietro a recuperare moglie e figli, anche il Veneto era nel caos. Dopo lo sbandamento dell’esercito molti soldati cercavano di scappare e il treno era pieno di giovani che avevano rimediato vestiti borghesi per non farsi riconoscere: chi aveva le maniche troppo lunghe, chi i pantaloni troppo corti… Il viaggio era movimentato, con i tedeschi che percorrevano i vagoni alla ricerca dei disertori; un ragazzo che non era riuscito a trovare abiti civili fu riconosciuto e portato via. La paura era tanta e non se ne andò fino a quando la signora Mariuccia e la sua famiglia furono di nuovo qui, nella loro casa, e lei poté dire: «Adess a sun a cà e a voo in gir pù». E così fece.

Dopo quel 25 aprile rovinato dalla morte di due partigiani che avevano sparato a un tedesco, la Storia concesse finalmente un po’ di tregua, ma la ricostruzione del paese fu lunga e non priva di sacrifici. Nel ’46 la sorella Piera si sposò con il suo Emore e nel ’49 nacque l’ultima figlia della nostra Mariuccia, Elda, che oggi è qui seduta con la sua mamma centenaria a ricostruire le storie di famiglia.

La bisnonna con la bella stagione esce volentieri in giardino, dove è spesso circondata da una nidiata di pronipotini. In questa via siamo quasi tutti parenti: di fianco alla casa storica della signora Mariuccia c’è l’abitazione dei figli Elda e Flavio, che tanti anni fa costruirono qui le loro famiglie. In fondo alla strada c’è invece la casa della sorella Piera, fatta alzare di un piano quando la figlia si sposò e dove oggi vivo anch’io con il mio compagno. Da qui la signora Mariuccia ha assistito al cambiamento di un’epoca: è passata dalla monarchia alla dittatura alla sospirata repubblica; ha visto entrare in casa propria le prime strane diavolerie, come la radio e la televisione, e oggi persino il telefono cellulare della sorella ottantenne.

Alla festa per il centesimo compleanno non manca nessuno. Se non ho contato male, tra figli, nipoti, pronipoti, pronipotini, mariti e compagni delle nipoti… dovremmo essere più di quaranta. Poi ci sono gli amici e i conoscenti ed è anche arrivata, puntuale, la telefonata dai parenti del Canada. Il piccolo giardino è stato addobbato con festoni colorati e un grosso pallone pieno di palloncini più piccoli. Per l’occasione il mio compagno, consigliere comunale, ha invitato l’Assessore ai Servizi Sociali e il Vicesindaco, che sono venuti a portare gli auguri e un mazzo di fiori a questa cittadina illustre.

La signora Mariuccia tra il Vicesindaco e l'Assessore ai Servizi Sociali (30/09/2013).

La signora Mariuccia tra il Vicesindaco e l’Assessore ai Servizi Sociali (30/09/2013).

Quando arriva il momento della torta, i bambini sono tutti intorno alla bisnonna e qualcuno aiuta a sistemare le candeline, che sembrano non finire più.

La nonna Mariuccia pronta per spegnere le candeline.

La nonna Mariuccia pronta per spegnere le candeline.

La nonna Mariuccia, con un po’ di pazienza e il sostegno dei pronipoti, le spegne tutte e dopo l’applauso ci spostiamo con lei al grosso pallone colorato. I bambini sono di nuovo in prima fila ed attendono trepidanti che la nonna, con l’ago, faccia scoppiare il pallone, qualcuno forse con un po’ di paura… Ed eccoli i palloncini colorati che volano in cielo, come bolle di sapone, a inaugurare il nuovo secolo della signora Mariuccia…

In latteria

Sono le cinque del mattino e il sole non è ancora sorto, ma bisogna essere già in piedi. Tra poco arriva il camion del latte dalla Centrale di Monza e occorre sbrigarsi: senza latte qui non si fa niente. Tutti devono dare una mano, anche i bambini, che a piedi o in bicicletta faranno le consegne prima di filare dritti a scuola. La piccola Elena, poverina, deve portare ben venti litri al collegio delle suore ed arriva sempre con le mani tutte rosse e rovinate. Per fortuna c’è quella vecchissima sorella che, mossa a compassione, la ripaga con una brioche calda fatta in casa. Lei allora è ben contenta di fare la consegna, perché tutte le mattine si guadagna una colazione buonissima.

Siamo alla fine degli anni Cinquanta e questa è la latteria dei miei nonni. Dopo anni faticosi da operai allo stabilimento Targetti, con i soldi messi da parte hanno acquistato un piccolo locale in centro al paese, dove si sono trasferiti con i bambini. La latteria si trova proprio davanti al portone della casa del Papa. In questa piccola città, infatti, nel lontano 1857 nacque un bambino che un giorno sarebbe salito al soglio pontificio. Ancora una volta la storia dei grandi personaggi e degli avvenimenti epocali e quella delle persone umili sono una di fronte all’altra.

Sulla sinistra il portone della casa del Papa, di fronte l'entrata della latteria (foto del mio papà).

Sulla sinistra il portone della casa del Papa, di fronte l’entrata della latteria (foto del mio papà).

La latteria non è molto grande e, insieme al bancone, c’è posto solo per due tavoli, ai quali le persone si siedono insieme. Nei locali al piano superiore ci sono le stanze da letto e quella dei bambini funge anche da magazzino. Il latte è davvero il sovrano indiscusso del luogo, con cui si prepara e si vende di tutto: dalla panna montata alla cioccolata, dalla torta di latte per la festa del paese al frappé e persino al gelato. Gli spazi nella gelatiera sono però solo quattro e così i gusti vengono alternati: panna e cioccolato non possono mancare, mentre gli altri (pistacchio, fragola, limone e nocciola) girano. Il sabato e la domenica ci sono i pasticcini e quando arriva la stagione calda si prepara la granite. I nonni hanno anche la licenza per il caffè, che – pare – è molto apprezzato. Inoltre, sottobanco, vendono gli alcolici, che contribuiscono non poco a riempire il piccolo locale a tutte le ore del giorno. Per procurarsi un buon vino per i suoi clienti il nonno prende la sua fidata 600 e se ne va fino in Piemonte.

La torta paesana, detta anche "di latte", fatta dal mio papà seguendo l'antica ricetta della nonna.

La torta paesana, detta anche “di latte”, fatta dal mio papà seguendo l’antica ricetta della nonna.

In latteria si vendono biscotti, caramelle, mentine, meringhe, tutte nel loro bel vaso di cristallo; e ci sono delle strane bustine con la farinetta di castagne che – mi raccontano – è più buona mangiata con un bastoncino di liquirizia. E a proposito di liquirizia, ci sono anche gli asabesi, qualcuno se li ricorda? Quelle caramelle nerissime a forma di animaletto. Anch’io li ho mangiati qualche volta, ma non sapevo si chiamassero così. C’è una storia dietro a queste caramelle, una storia che ci porta ancora più lontano nel tempo e nello spazio…

È il 1884 e ci troviamo a Torino, tra i viali del Parco del Valentino, dove è stata allestita l’Esposizione Generale Italiana. Tra le attrazioni di maggiore successo figura un gruppo di autentici africani della baia di Assab, in Eritrea. In pieno periodo coloniale in Europa spopolavano le esposizioni etniche e l’Italia, che aveva coraggiosamente conquistato il suo fazzoletto di terra, non voleva certo sentirsi da meno delle altre potenze. E così, in occasione dell’Expo, viene allestito un piccolo villaggio in “stile Africa” per la curiosità delle dame torinesi, che guardano con stupore misto a tremore questi esemplari di pelle scura: si dice persino che siano antropofagi… In loro “onore” i biscotti al cacao presentati all’Expo vengono chiamati Assabesi, asabesi in dialetto. Poi verranno le liquirizie, a forma di faccette africane e di animaletti.

F.lli Lovazzano "Ritratto di gruppo degli Assabesi" (Collezione Giglioli, Museo Pigorini, Roma).

F.lli Lovazzano “Ritratto di gruppo degli Assabesi” (Collezione Giglioli, Museo Pigorini, Roma).

La latteria è un luogo di ritrovo conosciuto ed apprezzato in paese e la posizione dietro la gesa granda, come si chiamava una volta la basilica, è un bel vantaggio: qui intorno si allestisce il mercato settimanale e le bancarelle sono sistemate anche davanti al negozio. Gli ambulanti approfittano del retro del locale per sedersi a colazione e a pranzo: dopo aver preso il pane e l’affettato al banco del salumiere, comprano il vino dal nonno, che fa un prezzo di favore a questi lavoratori che se ne stanno tutto il giorno fuori casa.

La latteria è un luogo vivo, dove le persone vanno e vengono. Ecco un bambino che si avvicina agli ambulanti: ha la faccia da monello ma sembra simpatico; e infatti riesce in qualche modo a guadagnarsi un fettino di salame ed ora corre a scuola tutto contento. Se lo merita, in fondo. Si è alzato presto anche lui ed è già stato a portare il latte alla villa di una facoltosa famiglia tedesca. Corri, papà, che altrimenti fai tardi e il maestro non ti chiede mica la giustificazione!

Il tempo passa e gli affari vanno avanti. I bambini, ormai cresciuti, sono oggi dei bei ragazzi. La zia Elena aiuta la mamma in negozio, dove, tra gli avventori, c’è sempre quel giovanotto che le fa la corte e la invita a ballare. Lei però non ne vuole sapere, perché le piace l’altro, il suo amico, e con lui sì che andrà a ballare un giorno… e infatti tra pochi anni arriverà anche la prima nipotina, che erediterà la stanzetta al piano superiore, passando le giornate a rubare le caramelle dagli scatoloni. Mio papà non è più quel bambino un po’ discolo che giocava in cortile, è un bel ragazzo, magro e con i capelli lunghi, come richiede la nuova moda. Le ragazze sedute al tavolo lo guardano ed oggi ce n’è una nuova tra loro, una che di solito non si vede da queste parti. Lo adocchia anche lei il bel figlio dei proprietari, lo trova carino; ma la curiosità non va oltre un apprezzamento e qualche risata con le amiche. Cara mamma, ci vorrà ancora qualche anno perché quel bel ragazzo ti accolga emozionato sull’altare…

D’altra parte la storia è una ruota che gira e prima o poi gli incontri si ripetono, tra gli umili come tra i potenti… Così un giorno un altro Papa passa davanti alla latteria dei nonni. Siamo arrivati al 1983 e Giovanni Paolo II è in visita alla casa natale di quel suo lontano predecessore. La strada è blindata, le case sequestrate: nessuno si può avvicinare. Anche i nonni sono chiusi dentro, in casa loro, senza potersi nemmeno affacciare alla finestra. C’è tensione: sono passati solo due anni dall’attentato in Piazza San Pietro. La polizia è dappertutto. Intanto, nella casa del vecchio Papa, il nuovo pontefice avverte un po’ di sete – è maggio e inizia a fare caldo –, ma non c’è niente da offrirgli, santo cielo! C’è però la latteria qui davanti… e appena si presenta alla porta la delegazione incaricata, il nonno non si fa certo pregare, ma sfodera il servizio buono, di cristallo, per questa occasione imperdibile. Ed eccolo che attraversa la strada, nella sua giacchetta di raso azzurro, scortato dai poliziotti, per portare da bere al Santo Padre.

Con o senza grandi avvenimenti il tempo va avanti inesorabile e da un po’ sono arrivata anch’io. La latteria è sempre lì, in centro al paese e il papà dice di avermici portata, ma io non mi ricordo: ero troppo piccola. Ricordo solo che, un po’ più grande, quando mi capitava di passare in quella via dietro la chiesa, sapevo che lì c’era, o c’era stata, la latteria dei miei nonni. Nel 1986 infatti, dopo trent’anni esatti di lavoro, i nonni andarono in pensione e il negozio fu venduto, le stanze soprastanti sgomberate. Il locale restò una latteria per molto tempo, anche quando venne trasferita vicino al vecchio cinema “Corallo”, dove si trova ancora oggi. L’ultimo aneddoto legato a questo luogo pieno di vita è la storia del letto di mia cugina. Quando lo staccarono dal muro per portarlo via, con grande stupore di tutti, dalla testata caddero a terra dodici anni di carte e cartigli di ottime caramelle gustate di nascosto!

Sulla destra dopo il portone la serranda chiusa della vecchia latteria (foto del mio papà).

Sulla destra dopo il portone la serranda chiusa della vecchia latteria (foto del mio papà).

La credenza della nonna Cecilia

Anche gli oggetti possono avere una storia e a volte sono storie più affascinanti ed avventurose delle nostre. Oggetti che passano di mano in mano, che viaggiano, magari a bordo di qualche piroscafo o altro mezzo di trasporto dall’aura antica e fascinosa. Questa è la storia di una credenza, la credenza della nonna Cecilia.

La nonna Cecilia è una delle mie trisavole, la moglie di quell’Angelo di cui ho parlato nel post Radici. Non so molto di lei, nemmeno il suo cognome. Leggendo la data di nascita di suo figlio, il mio bisnonno, posso supporre che sia nata poco dopo il 1870. Quello che so per certo è che sul finire dell’Ottocento andò sposa e per il suo matrimonio venne costruita la credenza che oggi è ospitata in casa mia.

Una volta, per completare l’arredamento, non si andava nei mobilifici come oggi, alle grandi esposizioni di camere da letto e cucine. Si andava alla bottega del falegname e si commissionava quanto serviva. Poche cose, perché i soldi erano quelli e non c’era il rischio di immaginare nulla di più. Se quella credenza di legno d’abete è diventata un pezzo d’antiquariato ed è arrivata qui da me, lo devo ad una tradizione che ha voluto che quel mobile attraversasse la famiglia lungo la linea femminile. Della casa, un tempo, si occupavano le donne e così del recupero o della conservazione di qualche bene di modesto valore. Secondo le usanze, la nonna Cecilia avrebbe lasciato la credenza a sua figlia quando questa si sarebbe sposata; poi, se anche quella figlia avesse partorito una bambina, le avrebbe passato il prezioso oggetto al momento di vederla lasciare la casa materna, e così via ad un’altra figlia ancora, per arrivare, lentamente, fino a me. In realtà il giro non è stato esattamente questo…

La nonna Cecilia, dopo il matrimonio, ebbe una bambina, che chiamò Luigia. Siamo più o meno nel 1895 e la Storia sta per passare da queste parti, proprio dietro casa: nel 1898, in piena “crisi di fine secolo”, a Milano il generale Bava Beccaris darà ordine al Regio Esercito di sparare sulla folla in rivolta. In anni difficili, in cui la fame è tornata a mietere vittime, Luigia cresce e diventa una bella ragazza. La osservo seria e compita nella posa per la fotografia: i capelli raccolti, l’abito accollato, due piccoli orecchini ed una medaglietta al collo, di sicuro raffigurante la Madonna. Questa bella ragazza, rimasta sola dopo la morte dei genitori e con il fratello lontano, al fronte, scelse di “andare a suora”, come si diceva una volta. Erano anni in cui ad una donna si chiedeva ancora e soltanto di essere sposa: sponsa viri o, in mancanza, sponsa Christi.La bella Luigia, ormai suor Olimpia, seguendo la seconda strada, perse il diritto di acquisire la credenza e di portarla in una casa che di fatto non aveva, nel suo peregrinare per l’Italia da una città all’altra. Non essendoci altre figlie, la credenza passò alla nuora, la mia bisnonna Natalina, che non se la lasciò scappare…

La nonna Natalina era nata nel 1900, nella cascina in cui l’avevano preceduta ben sei fratelli ed una sorella. Poco prima, ed ancora una volta, la Storia era passata dietro l’angolo. Proprio in quell’anno a Monza l’anarchico Gaetano Bresci aveva ucciso il re, Umberto I di Savoia, con tre colpi di rivoltella. Finito quel periodo di crisi politica ed economica, i miei bisnonni sarebbero cresciuti durante l’età giolittiana, avrebbero visto la Grande Guerra e poi finalmente si sarebbero incontrati e sposati.  

Dopo il matrimonio la credenza venne caricata su qualche carretto e trasportata nella casa degli sposi, tre locali in una vecchia corte, per essere sistemata nel soggiorno ed utilizzata per ospitare il cosiddetto “servizio buono”, piatti e tazzine di finissima porcellana decorata a mano. Uno dei cassetti porta ancora il segno di una serratura, quella del secretaire, dove i miei bisnonni custodivano qualche soldo e i documenti importanti.

Anche la mia bisnonna ebbe una figlia e, seguendo quella che appariva già come una tradizione, avrebbe dovuto passare a lei la credenza, ma le cose, ancora una volta, non andarono così…

Mia nonna nacque nel 1925, in pieno periodo fascista. Tutta la sua vita da ragazza si è svolta prima sullo sfondo del regime e della sua opprimente propaganda e poi dentro la tragedia del secondo conflitto mondiale. La sua vita da sposata iniziò nell’immediato dopoguerra, un periodo in cui la voglia di dimenticare le sofferenze patite aveva instillato una sorta di culto della modernità. Bisognava ricostruire il paese e non pensare a tutto ciò che era passato, un passato che riportava alla mente solo dolore e miseria. Così mia nonna, nella nuova casa, non portò con sé la credenza, che rimase dov’era fino a quando la mia bisnonna, morto il marito, si trasferì dalla figlia. Mai la nonna Natalina avrebbe lasciato che la credenza andasse persa o, come si usava un tempo, disfata per riutilizzarne il materiale. In casa della nonna non c’era lo spazio per sistemarla e allora il nonno la portò nella sua vecchia abitazione, affinché venisse custodita. Quando i miei nonni traslocarono, la credenza venne ripresa ma subito messa via, in cantina, e lì abbandonata per molti anni.

La mamma oggi mi racconta che vi erano stati riposti gli oggetti del passato, le vecchie pentole d’alluminio e persino quel bel servizio di porcellana. Un giorno da bambina aprì le ante di quel mobile impolverato e di fronte ai suoi occhi affascinati comparvero quei piatti e quei bicchieri preziosi. Una volta acquistare i giocattoli era un lusso e così si giocava con quello che c’era e la mamma con quei servizi da tè e da caffè fingeva di preparare le pappe, come tutte da bambine abbiamo fatto.

Di quel mobile prezioso semidimenticato ho ricordi vaghi, legati alle mie esplorazioni nella cantina della nonna, dove ogni tanto scendevo a curiosare. C’erano vari oggetti antichi, lampade e bottiglie dalle forme strane, e chissà quali fantasticherie occupavano la mia mente, assorta in contemplazione…

Quando i miei genitori, in attesa del mio arrivo, lasciarono l’appartamento in cui avevano trascorso i primi anni di matrimonio e si trasferirono nella casa dove la mamma era cresciuta, la credenza venne finalmente recuperata e riportata ai “fasti” di un tempo. Mio padre, prima di darle il posto d’onore che meritava, la portò dal falegname per farla ripulire e sistemare.

In realtà io la credenza in cantina non l’ho mai vista, perché è sempre stata nel salotto della casa dov’ero da poco arrivata ed utilizzata, ancora una volta, per ospitare il servizio buono, i piatti e le stoviglie che i miei genitori avevano ricevuto come regalo di nozze. Le sue ante venivano aperte solo a Pasqua e a Natale, o in qualche occasione speciale, ed ero io, divenuta grandicella, ad avere il compito di apparecchiare la tavola con quei piatti bianchissimi e quei bicchieri dalla forma importante.

A distanza di anni, in accordo con la tradizione, la credenza è stata di nuovo prelevata e trasportata, questa volta su un grande camion per traslochi. Ed un mattino è arrivata qui.

Oggi la credenza è ospite nel mio salotto e fa bella mostra di sé, unico esemplare del passato in un ambiente moderno. Conoscendo tutta la storia e non avendo il servizio buono da custodire tra le sue ante, ho fatto della credenza della nonna Cecilia la mia credenza dei ricordi. Dentro ho riposto oggetti e scritti per me preziosi, che ricostruiscono il mio passato. Vi trovano posto la corrispondenza scambiata con le amiche negli anni dell’infanzia, le fotografie più vecchie, le cartoline ricevute e quelle acquistate per la mia collezione. Le scatole dei ricordi di luoghi e periodi significativi. Le minute dei miei temi scolastici, dalla prima media alla maturità. I miei diari e i numerosi fogli sparsi su cui ho riversato in pochi anni tante parole. Quando la apro cercando qualcosa, è sempre un momento un po’ magico; e se mi fermo ad osservarla, ripensando tutto quello che ho raccontato, mi commuove sapere che lì dentro c’è anche un’altra storia, la storia delle donne della mia famiglia.

La credenza dei ricordi.

La credenza dei ricordi.

Questa non è solo la storia della credenza che dalla mia trisavola è arrivata fino a me. È anche la storia quotidiana e culturale delle donne lombarde. Una storia lunga più di un secolo, incominciata quando regnava ancora la monarchia e i confini dell’Italia non erano quelli attuali. È una storia di tradizioni e quotidianità, di cose da conservare o da dimenticare. È quella grossa parte della Storia troppo a lungo dimenticata, che non trova posto sui manuali scolastici ed è possibile recuperare solo tra la polvere degli archivi, delle cantine e dei ricordi di famiglia.

Lo zio “Voglio morire”

Questa è una storia un po’ triste; una storia simile a tante altre di un’Italia ormai lontana, appena uscita dalla miseria e dalla guerra. Era un’Italia diversa, in cui, nonostante le difficoltà quotidiane, si viveva meglio, grazie a quel senso della comunità che noi – da quando il boom economico ci ha messo quattro soldi in tasca – abbiamo perso.

Questa storia inizia molto tempo prima, quando i protagonisti ancora non si conoscevano o non c’erano proprio. Siamo in Lombardia, a casa di una delle mie bisnonne, anzi: di una delle mie bisnonne Natalina, perché una volta anche la fantasia doveva essere un lusso e allora bastava nascere intorno al giorno di Natale per sentirselo ricordare per tutta la vita. È una casa nuova, di proprietà del conte Longoni, aristocratico e proprietario terriero. Tra i suoi fittavoli c’è il mio bisnonno, Natale pure lui, al quale con il terreno è stata data “a fitto” anche questa casa. La mia bisnonna si trasferì qui da non so dove appena sposata, e all’età di ventidue anni iniziò a sfornare bambini. Ne ebbe cinque, due femmine e tre maschi, da uno dei quali un bel giorno arrivò mia madre. Questa è la storia del terzogenito, lo zio Giuseppe.

Dello zio Giuseppe non posso raccontare molto, di lui sappiamo poco e forse anche ai tempi nessuno poteva dire di conoscerlo bene. Mia madre sostiene che lavorasse a Milano, ma mia nonna dice di no, che era in giro tutto il giorno a far niente. L’unica certezza è che lo zio Giuseppe, come molti all’epoca, beveva. Non si sa se ci fosse una ragione precisa, forse erano anni difficili, o forse lo zio aveva qualcosa dentro, qualcosa di non detto…

Vorrei avere una sua fotografia, vorrei provare a cercare nella sua immagine, nel suo volto. Era sicuramente un bel volto, e qualcuno della famiglia lo ricorda come lo zio bello; ma quel bel ragazzo di donne non ne aveva, e non si sposò.

Lo zio Giuseppe, quand’era ubriaco, lasciava l’osteria e se ne andava a spasso per il paese continuando a ripetere a gran voce: «Voglio morire! Voglio morire!». E così in breve tempo, con quell’umorismo un po’ cinico, un po’ fatalista di una volta, iniziarono a chiamarlo il “Voglio morire”.

Lo zio “Voglio morire”, nei suoi vagabondaggi alcolici, finiva sempre a casa di mia madre e lei, che era ancora piccolina, lo accoglieva contenta e restava a tenergli compagnia. L’altra nonna, quella materna, le diceva di cacciarlo via, che era un ubriacone, uno che non faceva niente; ma la mamma si divertiva a starlo ad ascoltare e in fondo era anche abituata, visto che proprio quella nonna che le diceva di mandar via lo zio Giuseppe, la portava a trovare sua sorella, che se ne stava sempre all’osteria! Quando arrivava la bella stagione, prendevano il tram e andavano a far visita ai parenti. Tra questi c’era la zia Teresa, che, rimasta vedova, si era trovata un secondo marito, col quale andava proprio d’accordo e condivideva i piaceri dell’alcool. Lo chiamavano “ül cichet”; e nessuno oggi si ricorda quale fosse il suo vero nome. All’osteria erano tutti allegri e la mamma si divertiva un mondo.

Un bel giorno, quando forse non se l’aspettava, lo zio “Voglio morire” finalmente morì. Di ritorno da Milano camminava lungo i binari del tram, probabilmente barcollando, sicuramente ubriaco. Non si è mai saputo come fossero andate esattamente le cose, di chi fosse la responsabilità dell’accaduto. Di sicuro, sebbene fosse estate, doveva essere già buio e l’illuminazione elettrica usata con più parsimonia che adesso. Fatto sta che un’automobile lo investì. Era il 1959, e per fortuna la mia bisnonna era morta l’anno prima, e non vide la fine di quel figlio sfortunato.

Ci fu il processo e l’assicurazione dell’automobilista dovette pagare ben 300000 lire ai parenti della vittima. La notifica del vaglia arrivò a casa di mio nonno e gli altri due fratelli non ne sapevano niente. Quando entrano in gioco i soldi – si sa – anche quel bel senso di comunità di una volta viene meno, soprattutto tra parenti… Così qualcuno aveva suggerito al nonno di non dargli niente a quelli là, che ai meritan no i danee, che lui non l’avevano mai guardato! Per ritirare i soldi, però, ci volevano le firme di tutti e così, volenti o nolenti, quella sera si riunirono nel salottino dei miei nonni. Se ne dissero di tutti i colori, si ricoprirono d’insulti dalla testa ai piedi; e mentre la mamma origliava dall’altra stanza, lo zio “Voglio morire” origliava dall’aldilà, e bevendosi il solito goccetto, si godeva divertito tutta la scena.

U. Boccioni, "Il bevitore", 1914. Olio su tela, cm 87 x 87 (Milano, Museo del Novecento).

U. Boccioni, “Il bevitore”, 1914. Olio su tela, cm 87 x 87 (Milano, Museo del Novecento).

La tradotta

LaTradotta

Io non lo sapevo cosa fosse la tradotta. Sapevo solo imparare la canzoncina col flauto, brano per altro molto facile, soprattutto per me che suonavo il pianoforte. La prof. di musica l’aveva scelta per un evidente legame con il programma di storia, eppure neanche le parole erano riuscite a pormi le giuste domande.

Dopo l’8 settembre del ’43 sulla tradotta c’era mio nonno Felice, il nonno che non ho mai conosciuto. Viaggiava su una nave, di ritorno dalla campagna di Grecia; non so se a conoscenza o meno degli ultimi avvenimenti: dell’armistizio sicuramente sì, dello sbandamento dell’esercito in cui era stato arruolato e della nascente RSI forse no. Le notizie non viaggiavano come oggi, si muovevano più lentamente. Partivano; non sempre arrivavano… Dopo quei giorni lieti di navigazione, perché si stava tornando a casa, attraccò coi suoi compagni al porto di Genova. Nessuno sapeva dove andare, cosa fare, cosa stava succedendo… se c’erano ancora ordini da rispettare o se si stava veramente ritornando a casa. Ma c’erano i tedeschi che li attendevano, i tedeschi alleati fino a poco tempo prima. Li presero tutti e li fecero salire sulle tradotte dirette a nord, forse a Milano. Probabilmente quei soldati italiani, quei giovani ragazzi, pensavano che i tedeschi fossero ancora alleati, o magari sapevano che qualcosa era cambiato, che era in corso un mutamento, ma erano disorientati. E li seguirono. Quel treno naturalmente non si fermò a Milano. Non si fermò nemmeno oltre, più a nord. Si fermò soltanto in Germania.

Come è ovvio, mio nonno tornò dal campo di lavoro. Oggi non sappiamo in quale si trovasse, non essendo mai riuscito a decifrare quel nome dal suono impronunciabile. Il fatto di non essere ebreo né comunista, ma un semplice prigioniero di guerra, gli salvò la vita, poiché mio nonno coltivava patate, tutto il giorno. A volte dava anche una mano in cucina, e mangiava. Al campo lavoravano tutti, uomini e donne insieme, ed una volta aiutarono una giovane incinta a partorire tra le piante di patate.

L’8 settembre del ’43 mia nonna aveva diciotto anni. Non conosceva mio nonno e non lo aspettava. La notizia arrivò subito, dalla radio di qualcuno, e lei l’aveva sentita in piazza o, come più spesso succedeva, in fabbrica. Ricorda poco, solo che in paese erano contenti. Tutti. Il duce era stato preso e la guerra era finita. Non potevano immaginare quello che ancora li attendeva… dopo anni di ingiustizie e soprusi del regime fascista, l’occupazione dei tedeschi.

Non ricordo se mia nonna mi abbia mai raccontato questa storia. Ricordo che mi ha parlato del 25 aprile, la Liberazione, un giorno indimenticabile. Della prima volta che ha votato, di come vivevano sotto il regime e durante la guerra, delle bombe, dell’omicidio Matteotti che io, piccolina, avevo capito che quel signore era stato ucciso nel mio paese in via Matteotti! Tante cose le ho poi ritrovate sui libri di storia, nei film, tra le parole dei filosofi e degli scrittori che amavo. Nelle canzoni. All’inizio le ho messe da parte, incuriosita da altro. Poi all’improvviso ne ho sentito il richiamo e finalmente l’ho ascoltato.

Sicuramente i libri sono stati determinanti nella crescita delle mie idee. Ma oggi non lo so se senza i racconti di mia nonna quella bambina che suonava La tradotta senza sapere avrebbe un giorno deciso di iscriversi all’ANPI.

Radici

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Qui, da qualche parte, tra questi uomini dall’aria fiera e soddisfatta, si nasconde il mio trisavolo Angelo. E tra i bambini il mio bisnonno Alfredo, classe 1897. Forse il bisnonno potrei riconoscerlo, perché ho delle altre fotografie che lo ritraggono, sebbene da giovane o da adulto. Del mio trisavolo invece non ho nulla, soltanto il nome.

Un tempo fare una fotografia era un lusso, o comunque qualcosa di molto meno immediato che per noi. Nessuno possedeva una macchina fotografica e per fissare la propria immagine bisognava recarsi allo studio di un fotografo. Spesso era necessario persino spostarsi, in una piccola cittadina non troppo distante, perché nei paesi di una volta il fotografo non c’era. E anche spostarsi era sempre un’avventura, perché i nostri nonni non avevano certo l’automobile e dovevano muoversi coi mezzi: treni, tram, corriere varie.

I miei lontani parenti andavano a Monza o a Seregno. Si preparavano al mattino, lavandosi, pettinandosi e lustrandosi per indossare il vestito buono, e con tutta la famiglia partivano. Fare la fotografia non nasceva solo dalla necessità di rinnovare un documento o di immortalare la propria immagine in tempo per varcare la soglia di questo mondo; era anche una sorta di status symbol. Ne ho alcune incredibili in cui mia nonna, il suo fratellino e i suoi genitori sembrano un quadro. In altri casi a spostarsi era invece il fotografo, che come un girovago portava in giro i suoi misteriosi arnesi in una grande valigia.

L’immagine in alto è tratta dalla pagina di un libro, la pagina 181. Non so che libro sia, credo un testo sullo stile degli annali delle associazioni, in questo caso le associazioni di mutuo soccorso nate alla fine dell’Ottocento. Sulla grande insegna che campeggia tra gli operai si legge un po’ a fatica: “… e Resistenza con Cassa Mutua Lavoranti Muratori di Milano. Sezione di Nova”. Alla pagina seguente una breve storia della sezione:

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Una rapida ricerca in internet mi ha consentito di trovare il testo esatto del manifesto: “Società di miglioramento e resistenza con cassa mutua fra i lavoranti muratori di Milano”, e forse anche il titolo del libro da cui proviene la pagina che ho fotografato. Doveva essere una delle organizzazioni mutualistiche e sindacali dei lavoratori dell’Alto Milanese.

Dai racconti della mamma e della nonna so che il bisnonno Alfredo (che in verità si chiamava Giovanni e da dove sia saltato fuori Alfredo non è noto…) era poi stato tra i soci fondatori della sezione desiana del Partito Socialista Italiano. Da qualche parte c’è un ritaglio di giornale che testimonia il fatto.

Guardo le poche fotografie che mia mamma ha sapientemente conservato e mi accorgo che, dopo avere passato tutta la giovinezza a cercare di liberarmi dalla catena troppo stretta dei legami di sangue, mi ritrovo inaspettatamente a cercare le mie radici. Forse da quando mia nonna mi ha chiamata Carla, oppure non lo so; ma da un po’ avverto la necessità di cercare dietro di me, nel passato che mi ha portata qui: in questa porzione di universo, in questo spazio di tempo. Viste le idee a cui sono lentamente approdata, sapere che, in quegli anni difficili ma densi di voglia di progredire e migliorare, i miei antenati fossero stati tra i protagonisti mi restituisce un senso, il senso di un legame, di una catena che, anello dopo anello, costruisce una storia. La storia di cui anch’io faccio parte.