Anche gli oggetti possono avere una storia e a volte sono storie più affascinanti ed avventurose delle nostre. Oggetti che passano di mano in mano, che viaggiano, magari a bordo di qualche piroscafo o altro mezzo di trasporto dall’aura antica e fascinosa. Questa è la storia di una credenza, la credenza della nonna Cecilia.
La nonna Cecilia è una delle mie trisavole, la moglie di quell’Angelo di cui ho parlato nel post Radici. Non so molto di lei, nemmeno il suo cognome. Leggendo la data di nascita di suo figlio, il mio bisnonno, posso supporre che sia nata poco dopo il 1870. Quello che so per certo è che sul finire dell’Ottocento andò sposa e per il suo matrimonio venne costruita la credenza che oggi è ospitata in casa mia.
Una volta, per completare l’arredamento, non si andava nei mobilifici come oggi, alle grandi esposizioni di camere da letto e cucine. Si andava alla bottega del falegname e si commissionava quanto serviva. Poche cose, perché i soldi erano quelli e non c’era il rischio di immaginare nulla di più. Se quella credenza di legno d’abete è diventata un pezzo d’antiquariato ed è arrivata qui da me, lo devo ad una tradizione che ha voluto che quel mobile attraversasse la famiglia lungo la linea femminile. Della casa, un tempo, si occupavano le donne e così del recupero o della conservazione di qualche bene di modesto valore. Secondo le usanze, la nonna Cecilia avrebbe lasciato la credenza a sua figlia quando questa si sarebbe sposata; poi, se anche quella figlia avesse partorito una bambina, le avrebbe passato il prezioso oggetto al momento di vederla lasciare la casa materna, e così via ad un’altra figlia ancora, per arrivare, lentamente, fino a me. In realtà il giro non è stato esattamente questo…
La nonna Cecilia, dopo il matrimonio, ebbe una bambina, che chiamò Luigia. Siamo più o meno nel 1895 e la Storia sta per passare da queste parti, proprio dietro casa: nel 1898, in piena “crisi di fine secolo”, a Milano il generale Bava Beccaris darà ordine al Regio Esercito di sparare sulla folla in rivolta. In anni difficili, in cui la fame è tornata a mietere vittime, Luigia cresce e diventa una bella ragazza. La osservo seria e compita nella posa per la fotografia: i capelli raccolti, l’abito accollato, due piccoli orecchini ed una medaglietta al collo, di sicuro raffigurante la Madonna. Questa bella ragazza, rimasta sola dopo la morte dei genitori e con il fratello lontano, al fronte, scelse di “andare a suora”, come si diceva una volta. Erano anni in cui ad una donna si chiedeva ancora e soltanto di essere sposa: sponsa viri o, in mancanza, sponsa Christi.La bella Luigia, ormai suor Olimpia, seguendo la seconda strada, perse il diritto di acquisire la credenza e di portarla in una casa che di fatto non aveva, nel suo peregrinare per l’Italia da una città all’altra. Non essendoci altre figlie, la credenza passò alla nuora, la mia bisnonna Natalina, che non se la lasciò scappare…
La nonna Natalina era nata nel 1900, nella cascina in cui l’avevano preceduta ben sei fratelli ed una sorella. Poco prima, ed ancora una volta, la Storia era passata dietro l’angolo. Proprio in quell’anno a Monza l’anarchico Gaetano Bresci aveva ucciso il re, Umberto I di Savoia, con tre colpi di rivoltella. Finito quel periodo di crisi politica ed economica, i miei bisnonni sarebbero cresciuti durante l’età giolittiana, avrebbero visto la Grande Guerra e poi finalmente si sarebbero incontrati e sposati.
Dopo il matrimonio la credenza venne caricata su qualche carretto e trasportata nella casa degli sposi, tre locali in una vecchia corte, per essere sistemata nel soggiorno ed utilizzata per ospitare il cosiddetto “servizio buono”, piatti e tazzine di finissima porcellana decorata a mano. Uno dei cassetti porta ancora il segno di una serratura, quella del secretaire, dove i miei bisnonni custodivano qualche soldo e i documenti importanti.
Anche la mia bisnonna ebbe una figlia e, seguendo quella che appariva già come una tradizione, avrebbe dovuto passare a lei la credenza, ma le cose, ancora una volta, non andarono così…
Mia nonna nacque nel 1925, in pieno periodo fascista. Tutta la sua vita da ragazza si è svolta prima sullo sfondo del regime e della sua opprimente propaganda e poi dentro la tragedia del secondo conflitto mondiale. La sua vita da sposata iniziò nell’immediato dopoguerra, un periodo in cui la voglia di dimenticare le sofferenze patite aveva instillato una sorta di culto della modernità. Bisognava ricostruire il paese e non pensare a tutto ciò che era passato, un passato che riportava alla mente solo dolore e miseria. Così mia nonna, nella nuova casa, non portò con sé la credenza, che rimase dov’era fino a quando la mia bisnonna, morto il marito, si trasferì dalla figlia. Mai la nonna Natalina avrebbe lasciato che la credenza andasse persa o, come si usava un tempo, disfata per riutilizzarne il materiale. In casa della nonna non c’era lo spazio per sistemarla e allora il nonno la portò nella sua vecchia abitazione, affinché venisse custodita. Quando i miei nonni traslocarono, la credenza venne ripresa ma subito messa via, in cantina, e lì abbandonata per molti anni.
La mamma oggi mi racconta che vi erano stati riposti gli oggetti del passato, le vecchie pentole d’alluminio e persino quel bel servizio di porcellana. Un giorno da bambina aprì le ante di quel mobile impolverato e di fronte ai suoi occhi affascinati comparvero quei piatti e quei bicchieri preziosi. Una volta acquistare i giocattoli era un lusso e così si giocava con quello che c’era e la mamma con quei servizi da tè e da caffè fingeva di preparare le pappe, come tutte da bambine abbiamo fatto.
Di quel mobile prezioso semidimenticato ho ricordi vaghi, legati alle mie esplorazioni nella cantina della nonna, dove ogni tanto scendevo a curiosare. C’erano vari oggetti antichi, lampade e bottiglie dalle forme strane, e chissà quali fantasticherie occupavano la mia mente, assorta in contemplazione…
Quando i miei genitori, in attesa del mio arrivo, lasciarono l’appartamento in cui avevano trascorso i primi anni di matrimonio e si trasferirono nella casa dove la mamma era cresciuta, la credenza venne finalmente recuperata e riportata ai “fasti” di un tempo. Mio padre, prima di darle il posto d’onore che meritava, la portò dal falegname per farla ripulire e sistemare.
In realtà io la credenza in cantina non l’ho mai vista, perché è sempre stata nel salotto della casa dov’ero da poco arrivata ed utilizzata, ancora una volta, per ospitare il servizio buono, i piatti e le stoviglie che i miei genitori avevano ricevuto come regalo di nozze. Le sue ante venivano aperte solo a Pasqua e a Natale, o in qualche occasione speciale, ed ero io, divenuta grandicella, ad avere il compito di apparecchiare la tavola con quei piatti bianchissimi e quei bicchieri dalla forma importante.
A distanza di anni, in accordo con la tradizione, la credenza è stata di nuovo prelevata e trasportata, questa volta su un grande camion per traslochi. Ed un mattino è arrivata qui.
Oggi la credenza è ospite nel mio salotto e fa bella mostra di sé, unico esemplare del passato in un ambiente moderno. Conoscendo tutta la storia e non avendo il servizio buono da custodire tra le sue ante, ho fatto della credenza della nonna Cecilia la mia credenza dei ricordi. Dentro ho riposto oggetti e scritti per me preziosi, che ricostruiscono il mio passato. Vi trovano posto la corrispondenza scambiata con le amiche negli anni dell’infanzia, le fotografie più vecchie, le cartoline ricevute e quelle acquistate per la mia collezione. Le scatole dei ricordi di luoghi e periodi significativi. Le minute dei miei temi scolastici, dalla prima media alla maturità. I miei diari e i numerosi fogli sparsi su cui ho riversato in pochi anni tante parole. Quando la apro cercando qualcosa, è sempre un momento un po’ magico; e se mi fermo ad osservarla, ripensando tutto quello che ho raccontato, mi commuove sapere che lì dentro c’è anche un’altra storia, la storia delle donne della mia famiglia.
La credenza dei ricordi.
Questa non è solo la storia della credenza che dalla mia trisavola è arrivata fino a me. È anche la storia quotidiana e culturale delle donne lombarde. Una storia lunga più di un secolo, incominciata quando regnava ancora la monarchia e i confini dell’Italia non erano quelli attuali. È una storia di tradizioni e quotidianità, di cose da conservare o da dimenticare. È quella grossa parte della Storia troppo a lungo dimenticata, che non trova posto sui manuali scolastici ed è possibile recuperare solo tra la polvere degli archivi, delle cantine e dei ricordi di famiglia.