Occhi al cielo: per il moon day

Caro Calvino,
        non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché.
        Anch’io, come altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cosa c’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi ad un interiore equilibrio.
        […] Ora, questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O un nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, l’autonomia, la speranza.

Anna Maria Ortese

Cara Anna Maria Ortese,
        guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di “strumentalizzarlo” malamente, questo cielo?
        Io non voglio però esortarla all’entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.
        Quel che mi interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano. La luna, fin dall’antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose.
        Gli exploits spaziali sono diretti da persone a cui certo questo aspetto non importa, ma esse sono obbligate a valersi del lavoro di altre persone che invece si interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna. Questo qualcosa che l’uomo acquista riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva.
        Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…

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I. Calvino, Occhi al cielo, “Corriere della Sera”, 24 dicembre 1967 (ora in Una pietra sopra, Einaudi, 1980 col titolo Il rapporto con la luna).

Luna calante

Non so quando abbia cominciato a calare, ma a un certo punto dev’essere successo.

L’inizio dell’università fu difficile. Ero completamente disorientata. Lettere era diversa dagli altri corsi di laurea, scelti dalle mie amiche. Non c’erano le materie del primo, del secondo anno. Potevi fare quello che volevi, darli quando volevi gli esami, che per altro sceglievi quasi sempre e nonostante fondamentali, di indirizzo e per poter insegnare quelli veramente obbligatori erano solo tre. Tutta questa libertà non era gestibile, mi agitava. Per fortuna trovai nuove lune sul mio percorso e le seguii come i naviganti con le stelle.
Storia della musica e drammaturgia musicale mi precipitarono nuovamente nel Romanticismo, tra la musica di Schubert da una parte e la follia d’amore nell’opera dell’Ottocento dall’altra. Non mi sembrava neanche di studiare: semplicemente leggevo dei libri e dei saggi meravigliosi. La luna di Schubert mi aveva riportato un Lied che avevo studiato per il corso di canto corale alla scuola di musica e che, siccome mi piaceva molto, avevo anche imparato al pianoforte: Der Leiermann (l’uomo con l’organetto). Parla di un uomo che suona la ghironda per strada nel freddo dell’inverno e non viene ascoltato da nessuno, ma lui continua ineluttabilmente a suonare.

Schubert portò anche molto altro, come le poesie su cui aveva musicato alcuni Lieder e soprattutto la “Fantasia in fa min. per pianoforte a quattro mani”, scritta per la contessina Karoline Estherázy. La luna continuava a rimanere piena…

https://www.youtube.com/watch?v=v6VK-Fl2YC4
(Dura venti minuti, ma se avete tempo, ascoltatela davvero: è unica)

La luna è tuttavia mutevole per natura e così tutto mutò, improvvisamente. Fu un libro, inaspettato, a cambiare per sempre il mio modo di vedere: L’estetica musicale, di Enrico Fubini. Avevo scoperto un modo diverso, inedito, di leggere la musica e l’arte e decisi di cambiare anch’io: e dall’indirizzo di musicologia passai a quello di estetica.

Riordino appunti e fotocopie di saggi e testi vari e vedo come il mutamento sia poi progredito con rapidità. Preparai altri esami, incontrai nuovi professori e nuovi libri e la luna iniziò ad assumere un aspetto diverso, che al liceo non volevo vedere.
Fu prima Leopardi (inaspettatamente) che mi insegnò a vedere la luna come oggetto fisico. La Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ci dicono che è dalla conoscenza scientifica, salda e approfondita, che nasce l’oggetto poetico. Poi venne Calvino e con Calvino la luna non era più la stessa…

Fino a qui tuttavia la luna non ha smesso di essere presente nella mia vita, con le sue vesti sempre diverse. Quando ha cominciato a calare? Non lo so. Ma a un certo punto è successo, perché per molti anni non c’è stata. Me ne sono accorta una settimana fa, guardando la sua eclissi, e ho desiderato finalmente che tornasse…

Luna piena

…e la luna infatti, senza accorgermene, la portai con me.

Iniziava allora l’ultimo anno di liceo e diverse materie si aprirono con un argomento che mi chiamò da subito, il Romanticismo. Il sentimento come nuova chiave di lettura dell’arte e del mondo, la cultura notturna, l’anelito all’infinito mi catturarono senza darmi possibilità di difesa. Sembrava che tutto ruotasse intorno a un unico perno, che congiungeva me a un’epoca lontana nella quale solo per errore o per caso non ero nata.
All’inizio fu Jacopo Ortis a dirmi qualcosa: «Chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo?». Poi le stesse parole cominciarono a riecheggiare ovunque: nel canto della Solitary Reaper, nel fiore azzurro di Enrico di Ofterdingen, nelle poesie e tra le note dei miei interlocutori quotidiani: Leopardi e Chopin. Il poeta dell’infinito e il compositore dei notturni all’improvviso divennero degli amici in carne ed ossa, ai quali guardare continuamente, coi quali ragionare quando delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo… e tutto ciò che ero ed ero stata iniziava a convergere e ad assumere una forma: la forma della luna.

La portavo al collo, letteralmente.
Fin da ragazzina ho amato i ciondoli come l’unico gioiello che abbia un significato, in grado di dire qualcosa. Di ciondoli ne ho avuti tanti, a forma di cuore, di stella, di cerchio… Da quando avevo tredici anni non sono mai uscita di casa senza un ciondolo al collo. La mattina prima di partire, dopo essere stata a cercare invano la luna sugli scogli, me ne andai in centro. In un negozietto minuscolo tra i caruggi una luna blu di lapis se ne stava solitaria, in attesa. L’avevo già notata qualche sera prima e sapevo che non sarei tornata a casa senza averla portata via.
Appesa a una catenina d’argento, la indossavo ogni giorno. Era il simbolo di tutto ciò che in quel momento mi rappresentava.
Vivevo di notte, ascoltando Chopin e leggendo le sue lettere; di giorno pensavo ai poeti, trascrivevo versi, li imprimevo nella memoria dalla quale non sono mai dileguati. Era luna piena e io una sua ancella fedele.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia…

Tra i sentimenti prediletti dai romantici – inquietudine, disperazione, malinconia – io abitavo perennemente la malinconia, sollievo e tristezza insieme. È forse male sentirsi malinconici? Eppure, è quasi piacevole…
La malinconia romantica, come tutto il Romanticismo, non poteva essere descritta che attraverso la musica, regina delle arti, la sola che non ha bisogno di intermediari per arrivare al cuore, l’organo del sentimento. La malinconia romantica è tutta qui, in pochissime note di pianoforte:

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Dal minuto 1:05 dell’esecuzione di Pollini (qui)

Mi accorgo ora che dei romantici qualcosa mi mancava, la disperazione. La luna rimaneva piena per me e pieno fu quell’anno.
Alla maturità portai una tesina che metteva insieme e riordinava le poesie amate, le notti a scrutare il cielo… e tutte le note di Chopin. Anche nel tema riuscii a far confluire qualcosa, perché la traccia parlava di Leopardi.
A settembre finalmente mi iscrissi all’università, ignara che nel nuovo cielo smisurato che si apriva sopra di me avrei presto intravisto altre lune…

Luna crescente

Fine agosto, fine delle vacanze. I miei diciotto anni mi avevano riportata un’altra volta al mare con la mamma e la nonna. All’albergo ero rimasta l’unica di quell’età e lentamente era arrivato il primo sabato, il primo cambio tra quelli che vanno e quelli che arrivano.

Uscivo dalla porticina sul retro, rapida, diretta alla spiaggia; ma qualcosa di inaspettato mi arrestò, imponendomi di tornare indietro. Non poteva essere, mi ero sbagliata: per forza! Rientrai e nell’atrio vidi subito che invece era vero, era lui. Erano cinque anni che non lo vedevo, che non era più tornato: e invece si trovava lì, con i genitori e il fratello più piccolo e la sorellina. Aveva quasi vent’anni, che ci faceva lì? Ora non ricordo come ci salutammo, ricordo solo come ci eravamo salutati cinque anni prima, sul cancello del cortile, quando lui era partito con un paio di giorni d’anticipo perché aveva un esame a settembre e io lo prendevo in giro. Ero una bambina e lui solo qualcosa di più. Forse pensavo a questo in attesa che mi vedesse e magari ci aggiungevo le immagini di una indimenticabile storia estiva. L’immagine che ci avrebbe accompagnati tutte le sere sul lungomare e tra gli scogli non potevo ancora vederla, invece.
Nel tempo dilatato delle giornate di mare quell’immagine sarebbe comparsa gradualmente, in un crescendo di intensità e di argento.
Di giorno si andava alla spiaggia, si stava in veranda in albergo, il mare e il cielo erano due cose distinte. La sera tutto era blu e su quel blu brillava regina la luna. Non so come accadde, ma iniziammo a parlare di lei, a cercarla nel cielo e riflessa nel mare, ad avvicinarci sempre di più.
La mattina della partenza ero tornata a cercarla da sola per portarla con me, almeno lei. Il cielo era rosa e la luna un vago ricordo.
Mi prese le nostalgia, come già altre volte, e passavo le serate ascoltando Beethoven.

Era luna crescente, il preludio che stavo vivendo…

Luna nuova

Per la Prima Comunione il regalo era l’orologio d’oro. Il regalo era l’orologio d’oro per tutti i bambini cattolici di questa terra, così riteneva mia nonna e così naturalmente doveva essere per me.

Avevo nove anni compiuti e l’idea di avere un orologio d’oro non mi dispiaceva, tutt’altro! Ricordo il giorno in cui lo comprammo.
Come al solito eravamo andati dal rivenditore di fiducia, che altri non ne potevano esistere. Dico “rivenditore” perché non si trattava di un negozio, ma di una casa, dove c’era una stanza più o meno come le altre, credo – e piuttosto in disordine. Stava al piano terra o in una specie di seminterrato; noi eravamo sedute a un tavolino e dall’altra parte c’erano dei signori anziani che ci mostravano la merce. Gli orologi prescelti erano quattro e stavano disposti davanti ai miei occhi in ordine di prezzo. I primi tre non li ricordo, ma dovevano essere tutti uguali, perché l’unico che ricordo bene aveva una caratteristica che gli altri non possedevano e che ai miei occhi lo rendeva irresistibile: il lunario. L’ultimo orologio, il più costoso, aveva il lunario e quella parola insieme a quel marchingegno quasi arcano mi attiravano nella sua orbita in un modo invincibile. Avevo timore a dire che mi piaceva quello, perché costava più degli altri, ma non riuscivo a dire che me ne piacesse uno diverso. Non so come accadde, non ricordo bene: forse la nonna intuì e mi disse: «Ti piace questo?» e io forse annuii… comunque all’improvviso il mio orologio fu quello.

Aveva il cinturino bianco, adatto a una bambina, e lo indossai la prima volta il giorno della Comunione. Mi piaceva guardare il cielo con la luna e i puntini delle stelle che gravitavano sul quadrante del mio piccolo orologio.
Era, allora, solo luna nuova, l’inizio di un’attrazione che
sarebbe durata a lungo…

Altre lune

La luna in letteratura non è solo la romantica amica dei poeti, ma anche una luna che all’uomo ha sempre suscitato curiosità, ha suggerito aneddoti e fantasie, e gli scrittori non ne sono certo rimasti immuni. E allora leggiamoci qualcosa…

“Verso mezzogiorno, quando l’isola non era più in vista, sorse improvvisa una tempesta che sollevò la nave in un vortice a quasi tremila stadi senza più deporla in mare; anzi, la portava, sospesa com’era nell’aria, un vento che con forza soffiava nelle vele fino a gonfiarle. Sette giorni e sette notti andammo per il cielo: all’ottavo vediamo, sospesa, una grande terra, come un’isola, splendente, a forma di sfera, e rischiarata da una forte luce. Ci portiamo vicino e, dopo aver gettata l’ancora, scendiamo; fatta un’ispezione, troviamo che il luogo è abitato e coltivato. Di giorno non si vedeva nulla, ma, al giungere della notte, si potevano scorgere, non lontano, molte altre isole, alcune più grandi, altre più piccole, di color di fuoco, e un’altra terra giù in basso, con città fiumi mari monti boschi: vi ravvisammo questa abitata da noi” (Luciano di Samosata, Storia vera, II sec. d.C., trad. di U. Montanari).

Così ha inizio il viaggio del primo uomo letterario sulla luna e dei suoi compagni di inaudite avventure, e così inizia anche una tradizione letteraria che non sembra stancarsi di accompagnare i lettori sul nostro satellite.

Dopo avere annunciato che l’unica cosa vera nella sua Storia vera sia il fatto che non c’è nulla di vero, anche l’ironico e stralunato Luciano di Samosata comincia con una breve descrizione del mondo lunare, che ai naufraghi nello spazio appare sospesa, «come un’isola, splendente, a forma di sfera, e rischiarata da una forte luce». Subito dopo iniziano a presentarsi le stranezze, di cui l’autore non fa mistero, anzi… alla fine del viaggio – in cui il “nostro” viene coinvolto persino in un’improbabile guerra contro gli abitanti del Sole – nulla resta celato, soprattutto sugli abitanti lunari, che «non nascono da donne ma da uomini: si sposano tra uomini e di donne non conoscono neppure il nome. Ciascuno fino all’età di venticinque anni viene preso in moglie, poi è lui a far da marito. Portano il bambino non nel loro ventre, ma in quello della gamba […] Si servono del ventre come di un sacco per riporvi tutto il necessario, poiché lo possono aprire e chiudere a piacere e pare che non vi siano contenuti intestini o altro; il ventre è poi molto peloso all’interno, così che quando fuori fa freddo vi entrano i bambini». Questo è solo un minuscolo assaggio, il resto, a qualche animo troppo sensibile, potrebbe apparire addirittura sconveniente…

All’ironia lucianesca viene sapientemente mescolata anche una buona dose di lirismo: «Quando l’uomo giunge a vecchiaia, non muore, ma si dissolve in fumo e diventa aria»; e la leggerezza dell’aria compare anche nel momento del ristoro: «Mentre si fa l’arrosto, seduti tutt’intorno come ad una tavola, annusano il fumo che esala e con questo banchettano: è il loro cibo. La bevanda è l’aria, che spremono in un calice, ricavandone un liquido come di rugiada». Ma la più grande meraviglia Luciano la trova nella reggia: «un grande specchio sopra un pozzo non molto profondo. Se uno scende nel pozzo ode ogni cosa che si dice sulla terra, qui da noi; se invece guarda nello specchio può vedere tutte le città e tutti i popoli come se vi fosse sopra».

Inutile dire come Luciano fu modello per tanti scrittori che seguirono: chi ha letto Il Barone di Müncahusen avrà forse riconosciuto qualcosa… Noi proseguiamo con un altro che a Luciano si è ispirato, ma che poi, a sua volta, è stato modello per gli altri che seguiranno…

“Tutta la sfera varcano del fuoco,
et indi vanno al regno de la luna.
[…]
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
 
Non stette il duca a ricercare il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.
 
Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
 
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desidèri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai”.

(L. Ariosto, Orlando furioso, 1532)

Il viaggio di Astolfo sulla luna è una delle pagine più note ed anche amate della nostra bella letteratura. Persino i giovani studenti liceali sembrano apprezzarla più di tante altre. L’ironia dell’Ariosto si manifesta qui in modo evidente ma leggero: la musica dei versi accompagna in modo cadenzato tutte le maraviglie e le stranezze tra cui Astolfo dovrà muoversi per ritrovare il senno del povero Orlando, impazzito – come molti – per amore. La luna è quasi una terra alla rovescia: c’è quello che qui manca e manca tutto ciò che qui rimane.

La poesia alterna elementi nobili quali «Le lacrime e i sospiri degli amanti» ad altri dal sapore più popolare, come gli «infiniti prieghi e voti» di noi peccatori. Il tutto nasce da un intento parodistico e di critica alla società del tempo, che ogni buon intellettuale deve saper mettere in discussione: la prima cosa che Astolfo intravede sulla luna è la fama, che non dipende dalla Fortuna ma dall’uomo, il quale si lascia troppo spesso ingannare da vani desideri di potere e gloria eterna.

L’idea popolare ed ariostesca della luna quale ricettacolo di tutto ciò che si perde sulla terra verrà ripresa anche in una operetta morale di Leopardi, una di quelle che purtroppo sui manuali scolastici non compaiono mai…

Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere una persona; secondo che ho inteso molte volte da’ poeti: oltre che i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro; e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell’età ragionevolmente debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso dire che vanno co’ loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi; quando non abbia a essere con tua molestia.

Luna. Non dubitare di cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t’ascolterò e ti risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A dirti il vero, io non sento nulla” (G. Leopardi, Operette morali, 1824).

Inizia così un intenso dialogo tra monna Terra e monna Luna, lungo il quale il nostro pianetucolo si trova continuamente smentito. Leopardi, altro grande maestro di ironia, guarda alla luna anche in modo divertito, ma mescolando sempre scienza e lirismo… già in questo incipit si fa riferimento ad una teoria che ha poi avuto seguito e fortuna, quella della vicinanza e del successivo allontanamento di Terra e Luna: «io (la Terra) ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi ricordo il numero». La parte poetica non viene meno e si sente già nel dolce saluto iniziale: «Cara Luna»; poi nel riferimento virgiliano alla «amica del silenzio» e nell’uso di termini musicali come il verbo “favellare” e i superlativi assoluti. Tutto questo è inserito in un contesto leggero sia nel tono del discorso tra i due corpi celesti, sia negli elementi di sapore popolare: «i nostri fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro».

Sul finale, dolcemente amaro, Terra e Luna troveranno qualcosa che le avvicina anche oggi…

Una volta, secondo Sir George H. Darwin, la Luna era molto vicina alla Terra. Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano: le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia.

Lo so bene! – esclamò il vecchio Qfwfq, – voi non ve ne potete ricordare ma io sì. L’avevamo sempre addosso, la Luna, smisurata: quand’era plenilunio – notti chiare come di giorno, ma d’una luce color burro –, pareva che ci schiacciasse; quand’era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e a luna crescente veniva avanti a corna così basse che pareva lì lì per infilzare la cresta d’un promontorio e restarci ancorata. Ma tutto il meccanismo delle fasi andava diversamente che oggigiorno: per via che le distanze dal Sole erano diverse, e le orbite, e l’inclinazione non ricordo di che cosa; eclissi poi, con Terra e Luna così appiccicate, ce n’erano tutti i momenti: figuriamoci se quelle due bestione non trovavano modo di farsi continuamente ombra a vicenda.

L’orbita? Ellittica, si capisce, ellittica: un po’ ci s’appiattiva addosso e un po’ prendeva il volo. Le maree, quando la Luna si faceva più sotto, salivano che non le teneva più nessuno. C’erano delle notti di plenilunio basso basso e d’alta marea alta alta che se la Luna  non si bagnava in mare ci mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci? E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montar su.

[…] Ora voi mi chiederete cosa diavolo andavamo a fare sulla Luna, e io ve lo spiego. Andavamo a raccogliere il latte, con un grosso cucchiaio ed un mastello. Il latte lunare era molto denso, come una specie di ricotta. Si formava negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza terrestre, volati su dalle praterie e foreste e lagune che il satellite sorvolava. Era composto essenzialmente di: succhi vegetali, girini di rana, bitume, lenticchie, miele d’api, cristalli d’amido, uova di storione, muffe, pollini, sostanze gelatinose, vermi, resine, pepe, sali minerali, materiali di combustione…” (I. Calvino, Cosmicomiche, 1965).

Per concludere un’altra pagina da fiaba di Italo Calvino. La distanza della luna è la sua primissima cosmicomica e nasce proprio da quella teoria scientifica cui accennava già il Leopardi. Calvino, con la sua inesauribile ed acrobatica fantasia, la trasforma in un racconto delicato, divertente e fiabesco, nel quale la luna diventa persino oggetto d’amore.

Tutto qui è poesia, a partire dall’aggettivo «smisurata» per definire quella luna immensa agli occhi di Qfwfq e degli altri personaggi. Poi la descrizione delle fasi, con quella bellissima similitudine per la luna nuova, che «rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento». Ma all’improvviso si torna all’ironia con «quelle due bestione» che continuano a farsi ombra a vicenda. Poi di nuovo riappare la bellezza: dalle «notti di plenilunio basso basso e d’alta marea alta alta» fino all’immagine della scala a pioli appoggiata da una barca, che non ha eguali.

Dopo la lettura, siccome la bellezza non fa che generare altra bellezza, chiudo le mie pagine lunari con alcune immagini nate proprio da questo racconto calviniano…

Lune

Full moon in night sky over tree tops England UK United Kingdom GB Great Britain British Isles

Luna piena (fonte: http://www.guardian.co.uk, photograph: Alamy)

Gli astri d’intorno alla bella luna
nascondono l’immagine lucente,
quando piena più risplende,
argentea sopra la terra.

(Saffo, fr. 34 Voigt, VII sec. a.C., trad. mia)

Così la poetessa greca Saffo inaugurava una stagione poetica millenaria, nella quale l’immagine del nostro satellite l’ha fatta da padrone ed ancora non smette di evocare sensazioni e suggestioni alle anime poetiche.

Gli aggettivi sono il mezzo con cui la poetessa dipinge la sua luna, che è innanzitutto “bella”: kàlan in greco. Questa scelta potrebbe sembrare banale, ma non lo è: sia per la sincerità del componimento, sia se si pensa che l’immagine poetica della luna non era ancora nata ed era Saffo che stava creando qualcosa. Il termine stesso “poesia” deriva dal verbo greco poiéo, che significa “fare” e si tratta di un fare molto concreto, un fare che avviene per produrre qualcosa. La poetessa raffina poi il lessico scegliendo altri termini, tutti giocati sulla luce: “lucente” (pháennon), “piena” (pléthoisa), “argentea” (argyría) tra gli aggettivi; “risplende” (lámpe) come unico verbo ad indicare l’azione della luna. Mi piace osservare, infine, che diversi editori hanno scelto di riportare il testo dei frammenti saffici usando il sigma lunato, una variante meno nota ma comunque in uso del carattere sigma dell’alfabeto greco.

Eclissi di luna in Florida, dicembre 2011 (foto di D. Murray).

Eclissi di luna in Florida, dicembre 2011 (foto di D. Murray).

“Se infatti tal luce fosse o propria o fornita dalle Stelle, la Luna la manterrebbe e la mostrerebbe soprattutto nelle eclissi quando si perde nel cielo oscurissimo; il che tuttavia è contraddetto dall’esperienza: poiché il fulgore che appare nella Luna durante le eclissi è assai minore, rossiccio e quasi color bronzo, questo invece è più chiaro e più candido. Inoltre quello è mutevole e mobile di luogo, poiché vaga per la faccia della Luna, così che la parte più vicina alla circonferenza dell’ombra terrestre sempre si vede più chiara, la rimanente più scura: quindi senza alcun dubbio comprendiamo che ciò avviene per la vicinanza dei raggi solari tangenti una qualche regione di più grande densità che avvolge circolarmente la Luna; da questo contatto una specie di aurora si diffonde nelle parti vicine della Luna…” (G. Galilei, Sidereus nuncius, 1610, trad. di M. Timpanaro Cardini).

Anche il grande Galileo, scienziato e filosofo prima che letterato, si lascia catturare dalla luce lunare e già nel Sidereus nuncius – opera ancora in latino, la lingua ufficiale della scienza – parla del satellite in termini poetici… l’immagine della luna che durante le eclissi “si perde nel cielo oscurissimo” è la bellezza della scienza che si fa bellezza poetica. Così avviene anche grazie ai colori che Galileo sceglie per descrivere la diversa luce della luna: “rossiccio” (subrufus) e “color bronzo” (aeneus) in un caso, “più chiaro e più candido” (clarior et candidior) nell’altro. Infine non si può che rimanere incantati dalla luce “mutevole e mobile di luogo, poiché vaga per la faccia della Luna”. Da notare che la traduttrice si è mantenuta molto aderente al testo e le espressioni che ho evidenziato sono pertanto le stesse in latino.

Luna piena in Mongolia (fonte: http://lada2siberia.wordpress.com)

Luna piena in Mongolia (fonte: http://lada2siberia.wordpress.com)

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia;
che sia questo morir, questo supremo
scolorar del sembiante,
e perir dalla terra, e venir meno
ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
il perché delle cose, e vedi il frutto
del mattin, della sera,
del tacito infinito andar del tempo.

(G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, 1830)

E non poteva mancare tra le mie lune il più lunare di tutti i poeti lunari… con alcuni versi proprio dal Canto notturno, in cui la luna viene scelta come silenziosa interlocutrice dell’ “io” lirico. Qui l’astro lunare è tratteggiato da una serie di espressioni che intendono sottolineare non il suo aspetto, ma il suo carattere: “solinga” (più musicale di solitaria), “eterna peregrina” e “pensosa”, come pensose sono le anime vaghe che la contemplano la notte. E i pensieri della luna al pastore sembrano tanto profondi da riuscire a penetrare le eterne verità celate all’uomo: il senso del “viver terreno”, il “patir nostro” e persino la morte e il “tacito, infinito andar del tempo”. Mi piace sottolineare che la poeticissima luna del Leopardi nasce dalle conoscenze scientifiche del giovane autore, che a soli quindici anni (dopo lunghi ed intensi studi di fisica) ha scritto una Storia dell’astronomia di grande erudizione.

Luna di giorno (foto di enxo su www.fujiclubitalia.com)

Luna di giorno (foto di enxo su http://www.fujiclubitalia.com)

“La luna di pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse. È un’ombra biancastra che affiora dall’azzurro intenso del cielo, carico di luce solare; chi ci assicura che ce la farà anche stavolta a prendere forma e lucentezza? È così fragile e pallida e sottile; solo da una parte comincia ad acquistare un contorno netto come un arco di falce, e il resto è ancora tutto imbevuto di celeste. È come un’ostia trasparente, o una pastiglia mezzo dissolta; solo che qui il cerchio bianco non si sta disfacendo ma condensando, aggregandosi a spese delle macchie e ombre grigiazzurre che non si capisce se appartengano alla geografia lunare o siano sbavature del cielo che ancora intridono il satellite poroso come una spugna.

In questa fase il cielo è ancora qualcosa di molto compatto e concreto e non si può essere sicuri se è dalla sua superficie tesa e ininterrotta che si sta staccando quella forma rotonda e biancheggiante, d’una consistenza appena più solida delle nuvole, o se al contrario si tratta d’una corrosione del tessuto del fondo, una smagliatura della cupola, una breccia che s’apre sul nulla retrostante” (I. Calvino, Palomar, 1983).

C’è qualcuno che ha raccolto l’eredità di Leopardi nel saper fare poesia con la scienza ed è Italo Calvino. Lo scrittore ligure aveva infatti seguito studi scientifici prima di dedicarsi alla letteratura. Il passo che ho scelto si configura subito come una lezione di esattezza. Lo rivelano gli aggettivi, a partire dai colori: la luna è “biancastra”, il cielo “azzurro intenso”, le macchie lunari “grigiazzurre”; e le voci verbali semanticamente definite: “affiora”, “comincia ad acquistare”. La precisione del linguaggio per Calvino deve saper restituire anche le sfumature del pensiero e dell’immaginazione ed ecco che si sconfina nel campo della visibilità. La visibilità della luna s’impone agli occhi del lettore grazie ad alcune similitudini molto efficaci: la luna è raffigurata “come un’ostia trasparente”, o “come una pastiglia mezzo dissolta”, definita “satellite poroso come una spugna”. Si tratta di immagini visuali suggestive e allo stesso tempo utili a dare un’idea concreta dell’oggetto luna. Questa è inoltre definita in rapporto al cielo che, contenendola, diventa parte anch’esso della descrizione e sul quale la luna appare come “corrosione”, “smagliatura”, “breccia” di un tessuto, di una cupola, del nulla… L’immagine, sebbene indichi un vuoto, s’impone con un’evidenza visiva molto densa e concreta.