Afghanistan

Afghanistan. Quand’ero piccola, questo nome mi faceva sognare. 
Sfogliavo l’atlante, seduta sul tappeto, e mi perdevo dentro suoni lontani. Guardavo anche le immagini e le cartine, ma più di tutto in un luogo era il nome ad attirarmi. Afghanistan mi piaceva. Suonava una melodia lievemente malinconica, come tutte le parole sdrucciole; e portava la promessa di un fascino esotico e lontano. Era luminosa, come lo sono le parole con tante A.
La mamma mi diceva che non era un bel posto, l’Afghanistan, ma io non ci credevo. Certo, non aveva il mare, ma – a parte questo – continuava ad affascinarmi.
I bambini tuttavia si stancano in fretta e anch’io voltai lo sguardo altrove. Poi un giorno quel nome me lo ritrovai di nuovo sotto gli occhi, in un libro: Il mosaico del mondo.
Era tra i testi dell’esame di geografia all’università. Uno di quei libri che per gli altri studenti erano inutili: all’esame chi l’avrebbe chiesto un testo simile? Io mi ci perdevo. Era il resoconto dei mille viaggi del professor Corna Pellegrini, che di ogni paese – praticamente tutti – tracciava un piccolo affresco. All’Afghanistan aveva dedicato una paginetta, non di più; e oggi custodisco il ricordo preciso di quando la leggevo. Non è tanto il ricordo di cosa dicesse, quanto il ricordo di quel momento. Seduta sul letto, in camera mia.
Erano i primi anni 2000 e c’era già stato l’11 settembre. Il libro risaliva a pochi anni prima. L’Afghanistan era stato, in un passato che sembrava mitico nelle parole del professore, una terra bellissima, piena di laghi trasparenti. Poi cos’era successo? Era arrivata la guerra – le guerre – e ne avevano fatto un deserto.
Rileggo oggi, dopo tanti anni, quella pagina e mi stupisco di come i laghi che ricordavo trasparenti erano invece azzurrissimi. Poco cambia in fondo, perché tanto oramai in quegli specchi nessuno guarda più…

Foto di Steve Mc Curry

Sguardi dall’infanzia 24: la crosta di formaggio.

Tra le immagini di mio fratello bambino una di quelle che ricordo con più tenerezza è sicuramente il suo faccione con gli occhialoni che sostiene una mensola della camera. Accadde durante un pomeriggio in cui avevo invitato un’amica a giocare e lui non aveva potuto fare a meno di fare il pagliaccio tutto il tempo, fino a quando, con un movimento brusco e goffo, prese una testata contro una mensola. Anziché lamentarsi, si mise a ridere e ripeté la scena una, due, tre volte… finché la mensola si staccò dal gancio e lui rimase lì, a sostenerla per non farla cadere insieme a tutto ciò che vi stava sopra, perfettamente immobile fino all’arrivo del papà.
Un’altra immagine indimenticabile appartiene ad una delle tante vacanze in montagna e va osservata in campo lungo, che l’effetto migliore per godersi un bambino appeso a una cancellata per i pantaloncini è di sicuro da lontano!
La sua impresa più originale fu però un’altra…

Sarà stato un pomeriggio di fine estate. Io e mio fratello frequentavamo allora le scuole medie. Al ritorno dal supermercato la mamma, forse annusandolo, gli intimò di andare a fare la doccia. Lui, affamato come al solito, non poteva resistere alla tentazione di sgraffignare qualcosa dalla borsa della spesa, che giaceva inerte e invitante sulla panca della cucina. Doveva però sbrigarsi, che se la mamma lo beccava a mangiare prima di entrare in doccia, avrebbe dovuto aspettare tre ore o sarebbe morto! Senza pensarci troppo il genio si avventò su un bel tocco di formaggio e se lo infilò in bocca tutto intero. A un certo punto tuttavia, meglio di un animale selvatico, fiutò il pericolo e capì che doveva fare in fretta: trangugiò il formaggio senza neanche masticare e, per evitare di lasciare tracce, lanciò la crosta dalla finestra.
Non appena la forza di gravità ebbe finito di svolgere il proprio lavoro, si sentì un urlo: «Ahi!». Mio fratello fece in tempo a captare il lamento, ma – pavido – scappò (in doccia).
Come tutte le volte che combinava qualcosa, venne poi a importunare me, confessando il (doppio)reato. Io che ero più grande, e di conseguenza più bastarda, a cena iniziai a fare domande strane alla mamma, tipo: “Ma se durante una lite il papà ti lanciasse una frittata in faccia?”, oppure: “E se con la stessa frittata ti colpisse mentre dormi?”. Mio fratello mi guardava preoccupato, ma la mamma non poteva capire e rideva insieme a me.
Il misfatto non poteva rimanere insabbiato a lungo e fece giusto in tempo a passare la notte che già il mattino successivo la vicina di casa, aspettato e avvistato mio padre in strada, lo chiamò e gli raccontò che il pomeriggio precedente, mentre dormiva beata sull’amaca in giardino, era stata colpita da qualcosa. Destatasi di colpo, si era trovata tra le mani una crosta di formaggio, letteralmente piovuta dal cielo come la manna (o con maggiore probabilità dal nostro balcone…) I miei genitori, che a senso dell’umorismo han sempre lasciato un po’ a desiderare, obbligarono mio fratello ad andare a chiedere scusa, con il capo cosparso di cenere e autoflagellandosi.
Chiusa la faccenda, ritrovarono tutti il buon umore e la storia della crosta di formaggio poté entrare di diritto tra gli annali di famiglia e anzi: divenne uno dei nostri cavalli di battaglia per intrattenere ospiti e amici.

Sguardi dall’infanzia 23: odiavo le mie simili.

Quando ero piccola, odiavo le mie simili.

Avevano un fare da smorfiose, i capelli lunghi e nelle docce della piscina se li lavavano in modo strano. Parlavano del balsamo, che io non capivo come potesse essere argomento di conversazione. Ma soprattutto sapevano nuotare.

Sulle loro borse c’erano gli adesivi di tutti i pesci del mondo. L’adesivo col pesce era la testimonianza del traguardo raggiunto, del livello del corso, l’appartenenza alla casta di chi sapeva nuotare: uno status symbol, insomma. C’erano lo squalo, il pesce persico, il luccio. E loro ce li avevano. La trota, la carpa, la sogliola, il branzino. E loro ce li avevano. Le aringhe, le acciughe, il nasello, il sarago pizzuto, il sarago fasciato e loro ce li avevano. L’orata in umido con le patate e loro ce l’avevano e pure il delfino che non è un pesce ma un mammifero.

Io avevo il girino.

Lo avevo attaccato tutta orgogliosa sulla borsa al termine del primo durissimo corso, di due mesi, che modestamente avevo superato. Entravo in piscina esibendo la borsa e l’adesivo in un’unica mossa e non ci pensavo neanche a vergognarmi. Sognavo il giorno in cui avrei ricevuto il secondo adesivo e cercavo di capire dalle borse delle altre quale sarebbe stato ed ero convintissima si trattasse del pesce persico, che ogni tanto avevo sentito nominare a scuola, ma del quale non capivo proprio l’utilità nella catena alimentare. Sarebbe un giorno diventato utile appiccicato alla mia borsa, ma quel giorno non arrivò mai, perché prima che il corso finisse partii per la montagna! Non ne feci un dramma. Oramai, che sapessi nuotare o no, dei pesci non me ne poteva importare più niente e neanche delle mie simili e del balsamo. Tra cime leggendarie e alberi e prati colorati io correvo, saltavo, mi arrampicavo, cadevo, mi rialzavo… sempre restando ancorata alla terra, mio elemento primordiale, dove aprivo varchi, gallerie, scoprivo e ricoprivo, poi scavavo, mi tuffavo, fluivo, guizzavo con tutta la fantasia che avevo dentro.

C’era Leningrado

Quando ero piccola facevo spesso il giro del mondo. Al pomeriggio, o in serata, ogni tanto mi veniva voglia di partire e cercavo qualcuno che venisse con me, ché fare il giro del mondo in solitaria da piccoli non è divertente.

L’agenzia si chiamava Ravensburger, all’avanguardia per i tempi erano gli anni Ottanta e con proposte sempre avventurose, poiché lasciava scegliere le mete al caso (forse era per questo che il giro era gratis…). Era però un caso controllato, organizzato: le tappe dovevano essere equamente distribuite tra le grandi aree del pianeta: l’area arancione, l’area verde e l’area blu. Io avevo già allora le mie preferenze, tutte tra la vecchia Europa e l’Estremo Oriente. Quando ricevevo le mie nove carte con le informazioni sulle città da visitare, ero sempre emozionata e mi auguravo di trovare anche la foto della località, per iniziare a sognare prima di partire. Ma alcune località non le avrei mai viste e sarebbero rimaste nomi: ma i nomi per me erano più affascinanti di mille immagini colorate…

GiroDelMondoCarte

Quei nomi erano scritti in più lingue, in caratteri latini ma con il tentativo di mantenere la pronuncia originale, il suono, la musica di quei posti lontani… e c’era Lulea, dal suono morbido, caldo, che teneva calde le persone che ci abitavano… c’era Chungking, che ci faceva ridere con il suo suono buffo… e poi quella con il nome doppio, che nessuno mai ricordava perché era già tanto riuscire a pronunciarlo leggendolo, figuriamoci ricordarlo! Petropavlovsk – Kamchatskiy…

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C’era un mondo sul quale mi spostavo rapidamente, a colpi di dado: un punto per i collegamenti via terra, due per quelli aerei. Un mondo che aveva il fascino di ciò che si può soltanto sognare e la sicurezza di ciò che sta scritto sulla carta. Un mondo solido.

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C’era un mondo che – io non lo sapevo – era in lento e inevitabile disfacimento. Viaggiavo tra le città dell’URSS senza poter immaginare che un simile colosso di lì a poco sarebbe crollato: se me l’avessero detto, non ci avrei creduto. Leningrado era una certezza per me, un nome scritto sulla carta geografica, sul tabellone del gioco, come avrebbe potuto cambiare? E invece sarebbero cambiati anche tanti altri nomi di tanti altri paesi: in Africa, in Asia… ma di quelli non credo mi sarei stupita: erano così lontani che non potevo controllarli.

Ma l’URSS no, non poteva smettere di esistere da un giorno all’altro. Come le due Germanie, la Jugoslavia con quel nome che mi ammaliava… e la Cecoslovacchia… come avrebbero potuto dividerla? Spaccarla in due? La Cecoslovacchia della mia Praga adorata…

C’era un mondo che – qualunque fosse – per me era rassicurante che ci fosse. C’era Leningrado, c’era l’Olanda. C’era Leningrado!

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Eppure avrei assistito anch’io alla fine di quel mondo, al crollo del muro: nella quotidianità e nella sicurezza della cucina di casa, al caldo, una sera, davanti alla televisione con la mamma che diceva: «È incredibile: è crollato il muro di Berlino. Il mondo sta cambiando…». Beh, io non lo capivo che il mondo stava cambiando e avrei continuato a giocare al Giro del mondo senza badarci, sicura che quello che stava scritto sulla cartina era lì, sotto la pedina che muovevo, in quel punto preciso del mondo. E magari un giorno l’avrei visto anche con gli occhi…

GiroDelMondoScatola

Sguardi dall’infanzia 22: la fotografia.

Si cresce d’estate. Nel tempo delle scoperte, degli incontri, dei ritorni anche. Si cresce quando si vivono mille avventure, quando si fanno giochi diversi, pericolosi. Quando accadono fatti che poi a scuola si racconteranno, con fierezza e nostalgia. Si cresce nel tempo vissuto all’aperto, quando la casa è un ricordo lontano, che torna improvviso al richiamo di una voce: è ora di mangiare. Si cresce nel tempo in cui il sole si ritira più tardi e noi insieme a lui. Si cresce rimanendo piccoli, in silenzio, la mamma che piange.

Ricordo che ero immobile. In piedi, a pochi passi dai gradini che salivano al portone della palazzina a tre piani dove andavamo in villeggiatura. Davanti al portone la mamma, scesa perché aveva sentito qualcosa, perché aveva capito. Vicino a lei mio fratello; poco più in là i gemelli. Forse ci eravamo disposti così perché io rimanessi fuori, leggermente a parte della scena. Per offrirmi la stessa visuale trent’anni dopo.

Il bambino taceva, la mamma parlava. Il bambino era impaurito, la mamma invece non aveva paura di niente. Non alzava la voce e non si scomponeva, ma parlava decisa, risoluta, con l’orgoglio e la forza di chi difende i più deboli. La dovevano smettere di prendersela con il suo bambino, lui così piccolo e loro che già avevano finito le medie. Avrebbero potuto essere i suoi alunni: la stessa età, la stessa faccia forse. Ma gli alunni della mamma non erano così. La mamma ci parlava di loro, ci raccontava dei bei lavori che facevano insieme, dei posti incredibili dove li accompagnava nelle gite. Erano simpatici gli alunni della mamma, io lo sapevo. I gemelli invece erano arroganti e cattivi. E mi facevano paura. Non se la prendevano anche con me – forse – perché io ero una femmina, ma mi mettevano paura ugualmente. Erano così cattivi che io pensavo fossero dei drogati, il pericolo estremo per me, bambina degli anni Ottanta. Una volta uno dei due mi sputò sulla gonna, una gonna blu con i tulipani comprata al mercato. Naturalmente non dissi nulla, per paura e di più per vergogna. Forse è la prima volta che lo racconto. Andai a casa e cercai di lavare via lo sputo, di nascosto. Altre volte mi prendevano in giro, ma io non sempre potevo capirlo.

Uno dei due, il più basso e cattivo, disse alla mamma che suo figlio era un falso. La mamma si arrabbiò molto e ripeté anche lei quella parola – “falso” – che io non avevo mai sentito usare così, ma capivo benissimo cosa significava. Poi salimmo in casa e la mamma iniziò a piangere. La ricordo seduta su una sedia, con le mani sul volto. La fotografia di una madre inerme, che non sa come difendere il suo bambino.

La nonna le diceva di smetterla e minacciava di scendere lei da quei due, ma la mamma le disse di no. Arrivò la signora Maria, la padrona di casa. Non so se richiamata dall’accaduto o per altri motivi. Trovò la mamma che piangeva e da questo momento ricordo solo la furia, come scese le scale, come urlava contro i gemelli dicendo che c’era su “la signora che piangeva” e loro la dovevano finire di darci fastidio, a noi e a tutti.

Poi un giorno il mese di luglio finì e così la vacanza. Sulla 127 bianca tornammo a casa, per l’ultima volta.

Avevo trascorso in quel paesino del bergamasco cinque delle mie estati di bambina, cinque di quei mesi in montagna che sembravano non finire mai. Mi dispiacque non tornare più. Non rivedere le amiche; non ritrovare la piazzetta i sentierini e i muretti dove si giocava, dove scendevo contenta con le bambole, i Puffi e le Barbie. Non ricordo se avevo capito perché non andammo più in vacanza a Bagnella, però quel momento, quella situazione e la fotografia non li dimenticai. Li misi da parte, certo, ché per fortuna abbiamo angoli nascosti e spaziosi in cui accumulare le brutte esperienze, i brutti ricordi. Sono i ripostigli che ci salvano. Insieme al tempo e alla polvere. E a ciò che non sappiamo.

La bambina non sapeva che presto sarebbe tornata l’estate. Sarebbero iniziati altri mesi di luglio destinati a non finire mai. Non sapeva che avrebbe trovato altre montagne, più alte e più belle. Non immaginava gli incontri e le scoperte che in segreto la attendevano; per condurla – magari per mano – fuori dall’infanzia…

L’albero e il bambino

L’insegnante scrive un racconto. Parla di alberi e di infanzia.

L’alunno lo legge e si ricorda di quando era bambino, di un libro che amava; e ne parla all’insegnante. L’insegnante cerca il libro, lo trova e scopre che è una storia famosa, conosciuta e tradotta in tutto il mondo. Il libro è L’albero. Allora lo compra, lo legge e lo regala a un bambino. Il bambino a sua volta legge il libro, tutto d’un fiato.

È sera, è tardi e nel buio della stanza entra la mamma. Si avvicina piano, in punta di piedi, ma il bambino non c’è. La mamma si volta, lo cerca. Ma non lo trova. Poi alza lo sguardo: e incredula vede il bambino che piange, abbracciato all’albero.

Dedicato a mio nipote Simone (il bambino) e a Gabriele (l’alunno), che mi ha fatto conoscere L’albero, di Shel Silverstein.

Sguardi dall’infanzia 21: il presepio.

Correvano gli anni Ottanta e al freddo per le strade correva anche la gente, per gli ultimi regali e i preparativi natalizi. Io invece me ne stavo al caldo, sotto la luce giallognola del salotto, in attesa che il pomeriggio a lungo desiderato avesse finalmente inizio.

Il presepe a casa mia si chiamava presepio, variante che evidentemente non usava nessun altro, tanto che ogni anno erano intense le mie litigate con i compagni di classe per stabilire chi avesse ragione e poco importava che la maestra dicesse che era la stessa cosa. Allestirlo con pazienza nello spazio di fianco al camino era il mio rito preferito, che arrivava ogni anno più tardi per seguire i ritmi di lavoro di mamma e papà.

Il presepio per la mia infanzia è stato forse il solo collante che una volta all’anno teneva insieme la famiglia.

La Natività aveva luogo sullo sfondo di una vera scenografia e la realizzavamo noi, con le vecchie statuine superstiti che la mamma e il papà avevano salvato dal tempo e dai vari traslochi. Nelle case dei miei compagni di scuola, invece, trovavo spesso dei presepi minimi e già fatti, relegati in qualche cantuccio all’ombra del grande albero sfarzoso, debordante di decorazioni, e mi domandavo come fosse possibile comprare quel coso “in blocco” anziché costruire lentamente un paesaggio meraviglioso, fatto di tanti pezzi che avevano ognuno la sua identità e magari aggiungendo, ogni tanto e con parsimonia, un pezzo nuovo.

Qualche anno capitava che con il papà si andasse in cartoleria a comprare una o due statuine, raramente una casetta, e in fondo a me piaceva così, perché le vecchie casette e statuine avevano ognuna la sua storia… le storie immaginate nei lenti pomeriggi di vacanza, sullo sfondo delle musiche di Natale. La mamma faceva girare un disco portato a casa dal papà quando lavorava a Milano per una casa discografica. C’era una canzone con la chitarra che le piaceva molto e di conseguenza anche a me, che in quegli anni sapevo vederla ancora come un mito. Dentro quelle storie ogni statuina aveva il suo nome, un nome che io le avevo dato leggendoglielo in faccia: c’erano la Pia, la Teresa, la Nadia… tutte con il loro bell’articolo lombardo! La Pia al bambinello portava un cestino di frutti di bosco, la Teresa un grembiule pieno di uova, la Nadia faceva il burro in disparte. Le statuine dei vecchi mestieri piacevano molto a mio padre, che poteva vantare il venditore di caldarroste, l’arrotino e il vecchio con la barba che girava la polenta, con un forellino per inserire la luce dove brillava il fuoco.

Nella lenta costruzione del presepio ognuno aveva un ruolo: il papà preparava l’impianto delle luci e il basamento, con il pannello del cielo stellato, la legna, i rami e il muschio prelevati la sera tardi nei boschi della Brianza, con la paura di essere scoperti… La mamma collocava le case, lo specchio per il laghetto, la carta stagnola per immissario ed emissario del lago (che non potevano mancare nel presepio di una prof. di geografia!) e infine tracciava le strade con la farina e con il colino faceva scendere la neve sui tetti delle case… L’ultimo compito era il mio ed era il più importante: le statuine. Le statuine erano le vere protagoniste e nella mia fantasia ognuna aveva il suo posto stabilito, vicino alla “sua” casa, sul ponticello, di fianco alla capanna o in cima alle montagne a scrutare il cielo per seguire la cometa… Anche la cometa era artigianale: disegnata dalla mamma su una sagoma di compensato, era stata intagliata dal papà con il traforo e poi, tornata tra le mani della mamma, dipinta di giallo e riempita di brillantini dorati; ed oggi è la stella che risplende un po’ sbiadita e impolverata sulla vecchia capanna, dove i soliti Giuseppe e Maria con l’asino e il bue, tutti in gesso come una volta, attendono un Gesù Bambino di plastica.

Il presepio della mia infanzia, insieme a quei ricordi lontani e un po’ sfumati, è venuto con me, nella casa nuova. Sapendo quanto mi piacesse, mio padre ha costruito un nuovo scenario, più contenuto ma ugualmente bello, fatto di legna, rocce, rami di pino… ed adornato con sassolini, bacche di pungitopo e pezzetti di compensato ricoperti di segatura, tutto realizzato con pazienza e precisione dalle sue mani sapienti. Così ogni anno il presepio della mia infanzia riprende vita, anche se prepararlo da sola non è la stessa cosa…

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A Natale

A Natale quando ero piccola ero sempre felice. La felicità iniziava con l’attesa, che iniziava il primo giorno di dicembre, affacciata alle finestrelle del calendario dell’avvento. La mamma lo comprava in edicola, fiduciosa che i bambini sapessero apprezzare la bellezza fatta di cartone. Siccome eravamo in due ci si alternava ed io aprivo le finestrelle nei giorni pari, mentre mio fratello nei dispari. C’erano poi gli altri riti che accompagnavano l’attesa: il presepe, la letterina a Babbo Natale, l’albero dei cioccolatini. L’albero dei cioccolatini era l’alberello della nonna, un piccolo abete finto e forse centenario che veniva adornato con i cioccolatini che la nonna acquistava al mercato, raffiguranti i tipici elementi del Natale, come pigne, angioletti, piccoli Babbo Natale… alla fine la nonna aggiungeva quattro sgangherate palline ‒ che erano sempre le stesse e oggi potrebbero entrare di diritto tra le storie di famiglia ‒ e un filo dorato tutto spelacchiato proveniente dalla stessa vecchia scatola della cantina. La bellezza dell’attesa sembrava non si esaurisse mai e ricominciava il giorno di Natale, il primo in cui avremmo potuto mangiare uno ‒ ed uno solo ‒ dei cioccolatini, e di lì in avanti tutti gli altri, senza mai provare il bisogno di chiederne uno in più.

A Natale da ragazzina l’attesa cominciava in ritardo, complice il lavoro nel negozio del papà e la pigrizia dell’adolescenza. I protagonisti erano i regali per le amiche e i biglietti d’auguri, tantissimi, per tutte le persone alle quali volevo scrivere un pensiero. Alcuni li spedivo anche, alle amiche del mare, e arrivavano sempre tardi, dopo le feste. La cura che mettevo nei biglietti era maggiore di quella dei regali, ché in fondo già lo sapevo che le parole valgono molto e molto di più delle cose. I biglietti li facevo io, con cartoncini, ritagli di carta da regalo, penne e pennarellini di ogni colore e tutta la fantasia e la grazia che riuscivo a trovare. Ognuno aveva il suo, con la frase giusta per lui e i disegni e i colori scelti per lei…

Il Natale a vent’anni attendevo solo che passasse, veloce come le persone in corsa dietro ai regali: fatti per convenienza, fatti per non far figura, scelti senza cura e senza pensare a chi li avrebbe ricevuti. Come odiavo i regali che mi mettevano in mano senza alcun biglietto! Camminavo per Milano dopo le lezioni e scendevo in metropolitana per cambiare aria, per evitare di pensare e di vedere la realtà: che il Natale per me era diventato una festa triste, la festa in cui le persone sole si sentono ancora più sole.

Grandi alberi in una giornata di luce

Avevo un albero, quando ero piccola. Un albero grande, immenso. Un gigante di anni di fronte a me bambina. Era un albicocco e mi attirava. Mi piacevano il suo nome dolce, le dolci albicocche e mi piaceva ogni tanto arrampicarmi per osservare il mondo con distacco. Per fortuna era facile, ché io somigliavo poco al Barone Rampante ed ero al contrario un po’ imbranata e fifona. Il tronco solido, largo, e una biforcazione a un metro e mezzo da terra, perfetta per incoraggiare un paio di slanci ed essere già in alto, seduta tra due rami fatti su misura per il mio corpo minutino.

Con me portavo i compiti, la merenda, a volte un libro. Ma soprattutto portavo me stessa. Mi piaceva sedermi sull’albero a pensare, a guardarmi da fuori, a vedermi vivere. Ho una vecchia fotografia scattata dal papà nel giorno della prima comunione di mio fratello, in cui, liberata dal vestito tanto buono quanto scomodo delle ricorrenze, sono in posa per i posteri.

Di fronte all’albero c’era la casa di un vicino, il signor Giulio, che rilegava libri ed ha rilegato la tesi di mia madre e i vecchi dizionari di greco e latino. Con lui abitava un’anziana signora (non so se la madre o la suocera), la chiamavano “la Zigada”, storpiando in dialetto il suo cognome; ed io pensavo si chiamasse davvero così. Con il bel tempo la Zigada usciva alla finestra e le piaceva rimanere a chiacchierare con me o con mio fratello, che ad arrampicarsi lassù era più bravo. Non ricordo di cosa parlassimo, ricordo solo le raccomandazioni, di stare attenti, ché salire così in alto era pericoloso!

Passato il tempo non sono più salita sul mio albero, con gli adulti sempre intorno a ricordarmi la fine dell’infanzia. L’albero però non li ascoltava, restava al suo posto ed io sapevo che c’era: era l’albero del giardino, come se fosse l’unico. Quando poco dopo iniziai il liceo, divenne il protagonista del mio primo tema: “Grandi alberi in una giornata di luce”, una traccia che da sola fa sognare, fa capire quanto possa essere prezioso un insegnante, e che prima o poi mi deciderò a proporre anch’io a qualche classe.

L’albero oggi non c’è più ed io mi domando per la prima volta da quanto tempo fosse nel giardino, chi l’avesse piantato… forse mio padre. Non ricordo nemmeno perché sia stato sradicato. Ricordo che ne soffrii, come soffrii quando venne abbattuto l’abete con cui facevamo l’albero di Natale. Già quando ero piccola, era cresciuto così tanto che le palline luminose non bastavano più e il papà rimediava mettendole solo davanti, sul lato che dava sulla strada. È stato tolto quando anche le radici erano cresciute troppo e ci mancava poco che arrivassero fino al mio letto, che nella nuova stanza al piano terra stava solo a un passo.

Così del mio albero mi restano pochi ricordi, attaccati al cuore come le foglie d’autunno, luminose, cangianti e pronte, un giorno, a scivolare via…

IoSulMioAlbero

Ringrazio la mia amica Miss Fletcher che, con il suo post di oggi, mi ha ricordato la Giornata Nazionale dell’Albero.

Sguardi dall’infanzia 20: il folle volo.

Questo ricordo non è mio. E, naturalmente, non sono autorizzata a raccontarlo, ché il proprietario è persona permalosa e in perenne attrito col mondo, con i suoi abitanti e in ispecie con me. Tuttavia il contenuto ha un non-so-che di istruttivo e, a suo modo, di mitologico; pertanto mi sembra giusto e doveroso da parte mia che ne sono venuta a conoscenza (nella maniera più italiana che ci sia, una domenica a tavola) rendere noto l’accaduto.

È opinione diffusa che i videogiochi facciano male, che inducano i bambini a comportamenti violenti almeno quanto quelli dei personaggi che manovrano col mouse e la tastiera. Quand’ero piccola io, era la televisione la cattiva maestra e i bambini i pessimi alunni che si lanciavano dalla finestra emulando Batman, che poi io un bambino così fesso non l’ho mai incontrato… Ma se andiamo indietro di un’altra generazione apprendiamo che anche in assenza di tv, computer ed altre moderne diavolerie le audaci imprese fanno da sempre parte della natura umana, o, in questo caso, bambina.

Nelle vecchie cascine e case a corte di un tempo si viveva all’aperto, a contatto con gli animali domestici, che non erano rappresentati da cane e gatto come per noi bisognosi di pet-therapy, ma da mucche, maiali, pollame vario… tenuti come riserva (neanche tanto eventuale) di cibo. La famiglia di mio suocero allevava i suoi bei tacchini, che girellavano e gloglottavano felici per l’aia. Un pomeriggio come tanti, un candido bambino dai capelli biondi e gli occhi azzurri (alias mio suocero) viene colto all’improvviso da una insana idea che gli frulla per il cervello (come a volte gli succede anche adesso) e non intende proprio lasciarlo in pace. Così il fanciullino inizia ad aggirarsi furtivo per il cortile, squadrando i pennuti ed elaborando il suo piano perverso. Una volta pronto e sicuro, si avvicina con fare circospetto al prescelto, agguanta la povera bestia per il collo e la trascina su per le scale. Il tacchino annaspa, strepita, si divincola, ma il tenero bambino non lo molla e continua senza pietà! Raggiunto il punto a suo avviso più indicato, con un balzo gli salta in groppa e spronando coraggiosamente l’alato destriero si lancia nel vuoto…

Superfluo dire che il folle volo finì in picchiata, col tacchino morto spiaccicato sulla ghiaia e sotto il sedere di mio suocero.

Nel frattempo il pranzo si è fermato, i commensali si arrestano con le forchette a mezz’aria e guardano perplessi il sopravvissuto, che, incredulo, ancora si domanda cosa non avesse funzionato, perché quel maledetto tacchino non volle librarsi nei cieli sconfinati insieme a lui e portarlo in giro come suo umile e fedele Pegaso dei polli…