Il paese del pane bianco

«Avevo sette anni e di quel lontano 1944 ricordo l’urlo delle sirene nelle incursioni aeree, i morsi della fame e il buio delle notti di coprifuoco. Noi bambini eravamo amici dei partigiani, i giovani eroi coi fazzoletti rossi al collo che cantavano le canzoni patriottiche per le vie cittadine. Era il periodo della resistenza in Ossola e della nostra sofferta “Repubblica”» (Irene Pagani).

Ottobre 1944: la Repubblica partigiana dell’Ossola resiste da quasi 40 giorni, ma ormai è chiaro che la fine si avvicina. La popolazione non è più al sicuro e si teme una rappresaglia durissima da parte dei nazifascisti. Basterebbe poco per salvarsi, basterebbe raggiungere il confine e valicarlo; e il confine non è lontano. La Croce Rossa lo sa e lo sa Gisella Floreanini, membro del governo della Repubblica con delega all’assistenza. Saranno loro insieme alla Croce Rossa Svizzera a mettere in salvo migliaia di bambini, e anche molte donne e uomini.
La storia di quei bambini è stata raccontata dalle loro voci cinquant’anni dopo. Uno di questi, Claudio Barone, lanciò un appello tramite un quotidiano per ritrovare gli altri. Così venne costruito Il paese del pane bianco. Testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della “Repubblica dell’Ossola” (Grossi editore). Il libro che porto a casa dalle vacanze, che mi ha tenuto compagnia nelle mie sere in Valgrande.
45 sono le storie riportate. Ben più di 45 i bambini coinvolti e le famiglie svizzere che li hanno ospitati, accolti come figli e fratelli e sorelle. Storie tutte diverse: alcune brevi, ma la maggior parte è un racconto accurato e dettagliato, rimasto a lungo nella memoria che i bambini hanno cresciuto dentro di sé.
Il paese del pane bianco offre inoltre un altro punto di vista sulla guerra e sui rapporti internazionali. I bambini dell’Ossola sono i bambini della Repubblica partigiana: sanno cos’è, come e perché sia nata, grazie a chi. Sanno riconoscere in mezzo al male dove sta il bene. Nei partigiani loro eroi, ma anche nella gente comune che, senza problemi grazie alla neutralità del proprio paese, non rimane indifferente ma decide di offrire una mano a chi è in difficoltà.

Siamo abituati a pensare alla Svizzera come al paese neutrale per eccellenza, che non si schiera, non partecipa perché non conviene. In questo caso la Svizzera e la sua gente hanno dimostrato di saper scegliere una parte, quella giusta.

«…fui avvolta in una coperta e presa in spalla da mio padre che a turno con altri partigiani mi portarono fin lassù. Dissero anche che ero la più piccola bambina partigiana del suo gruppo».
(Osvalda Vignadocchio)

«Albeggiava appena, quando – garantiti dal silenzio calato sulla zona –qualcuno degli abitanti e noi ragazzi più grandicelli ci spingemmo fin su la strada deserta.
E qui – voglio ricordarlo quasi con la stessa emozione che provai allora – vidi per la prima volta, in carne e ossa, un partigiano. Era un giovane con la barba, giubba e calzoni corti, scarponi ai piedi. Imbracciava un’arma – uno “sten” apprenderò più tardi – ed era diretto a villa Tibaldi
per una prima ricognizione».
(Ezio Rondolini)

«Si è messo con noi un partigiano che andava in Svizzera, era ferito e perdeva sangue dalla testa, aveva attraversato il fiume per salvarsi. I partigiani stavano facendo saltare il ponte napoleonico e quello della ferrovia. Questo partigiano ferito ha preso in spalla il piccolo Virgilio e l’ha portato così fino a Varzo.
Non abbiamo mai saputo chi era…».
(Primo Falcaro)

Lai Mei

Complice il clima di odio intolleranza razzismo sospetto paura facilmente manovrata, ho deciso di raccontare qualche storia dei miei alunni migranti. Nessun profugo tra di loro, per fortuna. Solo persone con il desiderio – più spesso la necessità – di cambiare vita. Saranno loro a raccontare in alcuni casi; in altri saranno invece le mie parole a restituirne la voce.
Dopo la storia di Majed (raccontata qui), ecco quella di Lai Mei (i nomi sono di fantasia).

All’età di 8 anni sono immigrata dalla Cina all’Italia per restare con la famiglia e per le migliori condizioni di vita.
In Cina vivevo con i miei nonni e la mia mamma. Da piccola vivevo in montagna, ma a 3 anni mi sono trasferita a Pechino con i miei zii e i miei cugini; abitavamo in 2 palazzi con 3 piani e un grande giardino. Io e la mamma vivevamo in un palazzo. Accanto a noi c’era quello dei miei zii. Dopo un mese siamo ritornati in montagna per convincere i nonni a vivere con noi; ma sapevo che i nonni non volevano andare via da lì, perché la nonna soffre d’auto e perché non voleva separarsi con la natura e un animale che aveva curato. Ma alla fine con un grande pianto ho fatto concludere questa faccenda e i nonni sono stati obbligati a venire con me. Con il tempo i nonni si sono trovati bene, perché lì c’erano i loro nipoti e figli e poi pure i loro animali che anche loro si erano trasferiti.
Dopo 3 o 4 anni mio papà mi ha chiesto di andare da lui, ma quando l’avevo sentito non volevo più andare. Ma poi mi hanno convinto dicendo che poi sarebbero venuti pure i miei nonni e poi abbiamo cominciato a preparare per il viaggio. Il tempo passò in fretta. Questo è l’ultimo giorno che ho passato in Cina. Questo giorno non lo dimenticherò mai.
Di mattina e di pomeriggio ci siamo preparati per la festa di addio che è stata svolta di sera alle 18:00, nel giardino della mia casa. Mi sono divertita. Abbiamo mangiato, riso, cantato. L’ultima cosa che mi è piaciuta è stato che mi hanno offerto le patatine e poi le merendine e i dolci tipici della Cina.
Finita la festa, quel giorno sono andata a dormire con i nonni e mi sono svegliata alle 5:00 della mattina e non ho visto il nonno e poi mi hanno detto che il nonno era andato a comprare qualcosa da farmi mangiare durante il viaggio; d’un tratto non volevo andarmene più di lì. Dopo i nonni mi hanno costretta. Per fortuna c’era mio zio, perché ha deciso di accompagnarmi fino in Italia.
Per arrivare in Italia abbiamo preso la macchina per arrivare in aeroporto, per prendere l’aereo delle 9:00 e poi il 2° cambiamento di aereo. Una volta arrivata in Italia, mi sono separata dallo zio, perché lui doveva ritornare in Cina. E per la prima volta ho visto il mio papà, che non lo conoscevo più e non mi ricordavo neanche com’era.
L’ambiente era molto bello, ma visto che ero abituata a vivere in Cina mi sentivo strana. Dopo qualche mese di scuola non capivo ancora niente di tutto quello che dicevano e dopo la scuola chiamavo subito i nonni e gli dicevo tutto ma poi che cominciavo ad abituarmi all’ambiente c’era un nuovo problema: non ero abituata al cibo della scuola e ogni volta che bisognava andare a mensa non mangiavo niente. Le maestre erano disperate, ma piano piano cominciavo a mangiare qualcosa.
Ma adesso che sono grande mi piace l’Italia perché è così bella, anche se nel mio ricordo la Cina è più bella, ma soprattutto voglio ritornare in Cina per vedere i miei nonni e i miei zii e cugini. 

Mi chiamo Lai Mei e ho 15 anni. Sono emigrata dalla Cina all’Italia. La Cina è un ricordo bellissimo della mia infanzia e mi rimarrà sempre nel cuore. Adesso sono grande e dopo tutto l’Italia mi piace anche se vorrei ritornare in Cina per rivedere i miei parenti che mi mancano molto. In Italia ho incontrato mio papà e per questo voglio restare qua per non perderlo più.

Natale

Natale

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
                  fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.

Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
                per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.

Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
               tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.

(E. De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, 2002)

Buon Natale a tutti

Ricordo del mattino di Natale

Avevo una bisnonna che si chiamava Carolina. Di lei ho recuperato una manciata di cose, informazioni, ricordi… e di recente ho scoperto che le statuine più vecchie del presepio, quelle in gesso ‒ come la Madonna, San Giuseppe, l’asino e il bue, erano sue. Mio padre racconta che la nonna le regalò a lui, perché lui era il bambino a cui piacevano queste cose. In verità era già un ragazzo quando le ricevette, ma amava ancora le statuine del presepio come il bambino che era stato.

Oggi le vecchie statuine le ho io, con la capanna e un Gesù Bambino di plastica, che forse già allora ne sostituiva uno in gesso, andato perduto.

La bisnonna Carolina ho fatto in tempo a conoscerla di sfuggita, ed era il giorno di Natale. Avrò avuto uno o due anni, e mi ricordo ancora. Potrebbe essere il ricordo più lontano che ho. Di sicuro il primo ricordo del mattino di Natale.

Con la mamma e il papà ero andata al ricovero a trovarla, ma fino all’anno scorso ho sempre pensato che quella fosse la bisnonna Emma e che con lei ci fosse il bisnonno Pietro, il nonno calzolaio che un giorno mio padre trovò esposto in un museo, insieme ad altri soldati semplici ed umili che avevano partecipato alla Grande Guerra. La bisnonna Carolina al ricovero era invece da sola, con altri anziani come lei. Era seduta a letto, in una stanza abbastanza grande e piena di luce. Una luce che ancora oggi, se ci ripenso, riempie lo sfondo; poi nel ricordo si confonde e lentamente sfuma in lontananza… solo la sensazione rimane nitida: la sensazione che la bisnonna fosse felice di vedermi. E chissà… magari avrà pensato che Gesù Bambino le aveva portato in dono il bambino che amava le statuine e con lui una nipotina da conoscere, un’altra bambina che ancora non sapeva che un giorno lontanissimo avrebbe raccolto le statuine di una vecchia bisnonna per conservare la memoria e il suo ricordo.

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Buon Natale a tutti…
…e un pensiero speciale ad Aura di Luna che con i suoi auguri ha involontariamente suggerito i miei…

 

La ruota dei nascosti (7)

(Continua da qui)

Gli eventi a Santa Caterina si succedono serrati. In giornata il battesimo; poi la notifica dei nuovi nati al Comune ed infine, entro pochi giorni, il passaggio agli Esposti.
    Verso sera serventi e  “comarine” si avviano alla stanza dei neonati, per far da madrine. Sono tutte giovani esposte, figlie della Pia Casa, come si legge sul registro dei battesimi accanto al nome. Compiuti i quindici anni sono state riportate al brefotrofio dagli “allevatori”, che non avevano più il dovere, o talvolta la possibilità, di tenerle. Entrare alla “Regia Scuola di Ostetricia” per queste ragazze rappresenta un’occasione, una delle poche che una giovane orfana possa incontrare a Milano a fine Ottocento. Tra queste c’è anche Maria.
    I bambini nati nel comparto il giorno 12 sono tre: tre situazioni e tre sorti del tutto diverse. Come sempre sono i documenti, custoditi gelosamente per oltre un secolo dall’Archivio Storico Diocesano, a consentirmi di ricostruirle.
    ‒ Ce n’è di legittimi? ‒ chiede don Carlo alla levatrice.
    ‒ Una.
La prima a ricevere il battesimo è Maria Rosa, figlia legittima di una coppia sposata, che ha chiesto il ricovero a S. Caterina non potendo pagare né balia, né levatrice. La madre resterà a fare da nutrice per qualche tempo, in cambio dell’assistenza ricevuta, e poi finalmente potrà tornare a casa, nel quartiere di San Vittore, con il marito e la bambina.
    Don Carlo procede spedito, sembra abbia fretta: al comparto il rito del battesimo si riduce alla formula e ad una rapidissima unzione con l’aspersorio. Dopo il segno della croce è già il turno del secondo neonato. La madre, illegittima numero 269, chiede che gli venga messo il nome di Angelo. Forse vuole lasciare un segno, un indizio della paternità. Chissà se immagina, o sogna, che un giorno il padre lo riconoscerà come suo. Sul registro, alla voce “cognome e nome del padre”, don Carlo trascrive Ignoto; ma le annotazioni aggiunte a margine mi daranno ragione, restituendo un’identità ad entrambi i genitori.
    Quando è il momento Maria si avvicina all’ultima creatura, la bambina nata dalla ricoverata illegittima numero 292. Sorride, Maria; Maria che non si abitua mai a questo momento. Prende la piccola tra le braccia e la stringe a sé, con un gesto di delicatezza e pietà che forse un’altra giovane donna ha avuto verso di lei il giorno che è nata. Vorrei sapere come è fatta, conoscere che pensieri nasconde, quale animo custodisca la ragazza che per pochi istanti ha tenuto tra le braccia la mia bisnonna. Ma da qui, da dove osservo di nascosto una scena che, studiando questa storia, ho tante volte immaginato, non riesco a vedere nemmeno la madre, non so se sia presente oppure no. So solo che la bambina non ha ancora un nome e forse senza nome viene battezzata. Come prescrive la legge, sarà l’ufficiale dello Stato Civile a sceglierlo.

Dopo il 1825 la consuetudine di dare a tutti i figli dell’Ospedale Maggiore il cognome Colombo, a richiamare la colomba simbolo dell’ospedale, è caduta in disuso e le nuove norme richiedono un cognome inventato, che abbia la stessa iniziale del nome. Non è difficile immaginare che in un’epoca in cui essere “trovatelli” non era affatto raro, nome e cognome inizianti con la stessa lettera dell’alfabeto fossero un segno di riconoscimento e talvolta un marchio incancellabile. In alcuni comuni, di piccole dimensioni, veniva usata la stessa lettera per tutto l’anno, o per tutto il mese. Ma nelle grandi città come Milano, l’elevata quantità dei nati illegittimi richiedeva di cambiare continuamente, ogni giorno, oltre che un grande esercizio di fantasia. Talvolta l’ufficiale delegato apriva il calendario e prendeva il nome del santo del giorno; altre volte era l’umore a decidere e ad imporre un cognome di cui il possessore si sarebbe vergognato per tutta la vita. Tuttavia molto spesso non è possibile ricostruire le ragioni di una scelta dettata, con molte probabilità, dal caso o dal momento.

Quando vede arrivare il signor Vignali del brefotrofio, l’ufficiale dello Stato Civile mette da parte le pratiche su cui sta lavorando e con un gesto della mano gli fa cenno di venire avanti. Il signor Vignali già lo sa, è abituato: da anni, ogni tre o quattro giorni, si presenta qui con il registro delle nascite sotto braccio. Un breve scambio di battute, qualche osservazione sull’inverno alle porte e si procede. L’ufficiale si augura sempre che i nuovi nati abbiano almeno il nome, così da dover inventare solo il cognome, ricalcando e leggermente modificando l’ultimo assegnato con una certa iniziale.
    Per una volta tant te se stà fortunaa, tè vist? ‒ commenta il signor Vignali.
I bambini nati o lasciati al brefotrofio tra il 12 e il 13 novembre hanno quasi tutti un nome, tranne due. Per questi due ci sarà da pensare…
    Che dì a l’è incoeu? ‒ chiede l’ufficiale.
    El tredes, ‒ risponde pronto il signor Vignali che si aspettava la domanda.
    La “o”… la “o” a l’è dificil!
    Ciappa el calendari…
    Ma no!
    Ciappa el calendari, damm atrà.
L’ufficiale si alza, stacca il calendario dal muro e si risiede. Legge il nome in corrispondenza del giorno… e ride! Ironia della sorte il santo di oggi ha il nome che inizia per “o”: Omobono, patrono di Cremona. Sistemato il piccolo Omobono, viene il turno dell’altra creatura senza nome.
    La tosetta a l’è nassuda in ier? ‒ chiede l’ufficiale.
    In ier, ‒ conferma il Vignali.
    In ier a l’era ul dodes… a pödi ciammala Natalina, come la mè mamma.
    E da cognomm?
Per il cognome l’ufficiale non ha niente di pronto e così prende a sfogliare il registro all’indietro. Ci vuole un po’ di pazienza e il signor Vignali, che lo sa, si mette comodo sulla sedia. Dopo una manciata di pagine l’ufficiale trova quello che cercava:
    A l’ultim cont la “n” a ghem metuu Nascendi… questa la ciammi Nascondi.
E così è deciso: la mia bisnonna si chiamerà Natalina Nascondi.

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A lungo ho pensato che qualcuno avesse voluto nascondere la sorte della bambina dentro il nome. Ma in fondo cos’ha di diverso la sorte di una “trovatella” da quella delle altre migliaia che il secolo diciannovesimo ha partorito a Milano? Oggi so che è stato il caso a scegliere. E ha scelto bene: un nome parlante, un nome trasparente… Il nome giusto per raccontare questa storia: la storia di una bambina, figlia della ruota dei nascosti…

Tre giorni dopo la nascita, sbrigata tutta la burocrazia necessaria, Natalina è pronta per il passaggio agli Esposti. Non posso sapere se in questi tre giorni ci sia stato un momento, un augurio, un bacio con cui la madre naturale abbia voluto salutare per sempre la sua bambina, ma voglio pensare di sì. E voglio pensare che sia accaduto di nascosto, all’alba, quando le altre degenti ancora dormono e nessuno può sentire…
    Sono le nove e mezzo del mattino e la levatrice di turno, la signora Beatrice, si presenta all’ufficio di consegna dell’Ospizio con l’infante in braccio. I bambini nati nel comparto vengono censiti in una sezione apposita del registro, prestampata per inserire i dati della levatrice e della ricoverata. Come per nascita e battesimo non c’è niente di celebrativo, di solenne. Tutto si riduce all’assegnazione di un numero: a metà novembre la quota è arrivata a 1343. Questo numero accompagnerà Natalina per tutta la vita. Verrà scritto sul suo libretto di scorta, da consegnare alla balia al momento dell’affido, ed inciso su una medaglietta di riconoscimento. Anche Natalina, come tutti i trovatelli, dovrà poter essere identificata in qualunque momento e così, una volta entrata all’Ospizio, viene subito munita del suo “bulino”, inamovibile, da tenere al collo fino all’abdicazione definitiva dal brefotrofio, al compimento del quindicesimo anno di età. Su un lato della medaglia sono riportati il numero di riconoscimento e l’anno di nascita, sull’altro lato la legenda “Brefotrofio di Milano”. Per la verità molte balie evitavano di seguire questa pratica, ritenendola infamante per la creatura, la quale, sebbene non fosse figlia loro e fosse stata cercata come occasione di guadagno, cresceva nella loro casa ed aveva diritto ad un po’ di dignità. Chissà se è stato così anche per la mia bisnonna…
    Finita la trafila dell’accettazione, ha inizio quella medica. Nel giro di due giorni Natalina passa tra le braccia di serventi, balie, medici, semplici impiegati; viene visitata, vaccinata ed infine assegnata ad una nutrice: la numero 27. Anche questi eventi vengono prontamente registrati, sul “Bollettone di primitivo ingresso”. Nonostante una storia fatta di numeri e dati e tanta miseria, Natalina è una bambina fortunata, perché è sana: il giorno 16, finite tutte le visite, il medico dell’Ospizio, con una firma, lascia l’infante disponibile. Questa bambina di pochissimi giorni non può saperlo, ma tra una settimana soltanto troverà finalmente una casa ed una famiglia (continua…).

Sguardi dall’infanzia 16: il regalo alla maestra.

Mica sempre l’infanzia è un bel posto, pulito e illuminato bene, simile a un bel prato fiorito come ce la ricordiamo o ci piace raccontarcela. L’infanzia è a volte una stanza buia e sporca, dove ci si vede poco e s’impara a sopravvivere, a fare del male, a sentirsi soli ed esclusi o, senza pietà, ad escludere.

In quinta elementare, verso la fine dell’anno, le mamme di alcuni miei compagni di classe proposero alle altre di fare un regalo alla maestra, un regalo importante per ringraziarla del lavoro svolto con noi per cinque anni. L’idea non era particolarmente originale, immagino fosse un’usanza consolidata da tempo, quasi imprescindibile, una specie di tradizione che non si potesse non onorare. Anche la scelta del regalo non fu originale, andando a cadere su un oggetto di gioielleria, come se una donna (e per altro una donna “di cultura”) non potesse desiderare di meglio che un costoso gioiello da esibire davanti all’invidia delle altre. Fatto sta che il comitato “Ci occupiamo noi del regalo alla maestra”, sorto spontaneamente sotto il casco del parrucchiere, si riunì e, dopo attenta valutazione del caso, stabilì che il regalo giusto poteva essere solo un collier d’oro.

Eravamo venticinque alunni e con venticinque quote da venticinquemila lire ciascuna si poteva acquistare un gioiello di tutto rispetto. Alla riunione seguì – immancabile – un difficile pomeriggio di ricognizione di tutte le gioiellerie della città, con tanto di relazione scritta da distribuire alle altre mamme, per effettuare una scelta democratica e, soprattutto, vantarsi dell’impegno profuso a sostegno della causa “Battiamoci per il regalo alla maestra”. Non so se tutte le mamme dei miei compagni fossero davvero d’accordo con un regalo tanto impegnativo; di sicuro qualcuna avrà versato la quota solo per non sentirsi in imbarazzo di fronte alle altre, che potevano sborsare quanto volevano dopo essere state in giro per negozi anziché andare al lavoro. In ogni caso tutte le mamme parteciparono al regalo, tranne una: la mia.

Mia madre, da insegnante, riconosceva il lavoro svolto dalla maestra, ma in quanto insegnante riteneva anche che quel lavoro fosse un dovere e non un favore che ci veniva fatto, favore per il quale ringraziare, con quello stile tra l’ossequioso e il mafioso cui siamo abituati in Italia… La scelta di non partecipare dipendeva però da qualcos’altro, qualcosa che io fino ad allora ignoravo, ma che di lì a poco avrei scoperto…

La mamma, come insegnante, partecipava ad alcune attività non obbligatorie e spesso dopo cena usciva per andare in un posto chiamato “distretto”, che io immaginavo come un’auletta poco illuminata e piena di insegnanti, tra i quali, forse, c’era anche il marito della maestra. Dubito che mia madre e quest’ultimo potessero trovarsi d’accordo su qualcosa, persona di sinistra lei, iscritto alla DC lui. Come al solito nessuno mi aveva spiegato cosa fosse successo, ma qualcosa “di grosso” doveva essere successo e c’entrava, appunto, il marito della maestra. Ricordo la nonna che, incurante di cosa avrei potuto pensare, parlava di certi insulti sul giornale rivolti alla mamma e lei avrebbe anche dovuto regalare il collier d’oro a sua moglie! A me non piaceva sentire quelle cose, mi facevano star male e cercavo di non ascoltare, di scappare in un’altra stanza, sebbene capissi che la mamma aveva ragione a non voler fare il regalo alla maestra, cosa che a me – abituata a non ricevere il regalo per la promozione – non sembrava neanche necessaria.

La razza umana è proprio fatta male e quella fu per me l’occasione per rendermene conto. Come è facile intuire, il fatto che una sola delle mamme non partecipasse al regalo fu un’occasione fin troppo ghiotta per le altre, un’occasione per fare pettegolezzo tra di loro ed anche con i propri figli, ai quali raccontare che io e la mia mamma non volevamo fare il regalo alla maestra. Non so cosa avessero detto di preciso le signore, ma dovevano essere state davvero cattive, almeno quanto poi lo furono i loro bambini, che senza educazione producono il male come le api il miele.

Il regalo venne consegnato in classe, durante una normale mattinata scolastica di fine maggio. Non so come fosse stata organizzata la cosa; qualcuna – perché queste sono “cose da femmina” – si era avvicinata alla cattedra, dove poi si ritrovarono tutti, con la maestra al centro che apriva il pacchetto e ringraziava, come si conviene. Solo io non c’ero. Me n’ero rimasta in disparte, al mio banco che stava proprio in mezzo all’aula, ad assistere da fuori ad una scena alla quale avevo capito che non dovevo partecipare. Forse alla maestra dispiaceva vedermi lì, da sola, a fingere di riordinare i quaderni; e forse capiva almeno un po’ il mio stato d’animo, sebbene non mi disse niente. Chi mi disse qualcosa fu invece una mia compagna, che mi raccontò che qualcuno aveva detto: «Maestra, ti hanno fatto il regalo tutti tranne una certa persona…».

Io non ero molto legata alla maestra, non lo ero mai stata; e non soffrivo nemmeno per la mamma. Soffrivo perché mi vergognavo. Mi vergognavo di essere lì, lontana da tutti ma sotto osservazione. Mi vergognavo di essere quella diversa dagli altri, quella di cui tutti erano autorizzati a parlare, adulti e bambini. Ero la piccola preda attaccata da ogni parte, inerme di fronte al gruppo che – si sa, ma io lo imparavo in quel momento – è sempre forte e compatto e coraggioso contro chi è solo e indifeso.

Situazioni (im)probabili 10

Dopo la mensa…

Lunedì di tempo prolungato. Finito di gustare le prelibatezze della mensa, siccome è una bella giornata di sole, io e il mio collega decidiamo di lasciare i ragazzi fuori, sul campo di atletica. Ci sono anche i bambini delle elementari, che, da bravi, tutti perfettamente e ordinatamente in fila indiana, rientrano a scuola con le maestre. Li guardo, sorridendo con tenerezza… e sto quasi per inoltrarmi in chissà quali elucubrazioni mentali quando, all’improvviso, una piccola, impercettibile, stonatura nel paesaggio mi mette in allarme: in mezzo alla fila dei bambini si è inserito quel simpaticone di Singh, con il suo bel turbante blu in testa, che procede marciando verso le elementari! Subito inverto la rotta, mi fiondo verso di lui e lo chiamo, urlando: «Singh! Singh! Torna subito qui!». Niente. Non mi ascolta. Riprovo, urlando di più: «Singh! Ti ho detto di tornare qui!!». Il piccolo indiano allora si volta e mi guarda, stupito, mentre una maestra si stacca dalla fila e si dirige verso di me per riuscire a fermarmi prima che io scateni l’irreparabile! A quel punto mi accorgo anch’io, mentre Singh e i suoi compagni ridono divertiti…

Non era Singh… era suo fratello Daniel, identico, ma leggermente più piccolo. Ma io dico, i genitori: non potrebbero almeno mettergli un turbante di colore diverso?!