Il paese del pane bianco

«Avevo sette anni e di quel lontano 1944 ricordo l’urlo delle sirene nelle incursioni aeree, i morsi della fame e il buio delle notti di coprifuoco. Noi bambini eravamo amici dei partigiani, i giovani eroi coi fazzoletti rossi al collo che cantavano le canzoni patriottiche per le vie cittadine. Era il periodo della resistenza in Ossola e della nostra sofferta “Repubblica”» (Irene Pagani).

Ottobre 1944: la Repubblica partigiana dell’Ossola resiste da quasi 40 giorni, ma ormai è chiaro che la fine si avvicina. La popolazione non è più al sicuro e si teme una rappresaglia durissima da parte dei nazifascisti. Basterebbe poco per salvarsi, basterebbe raggiungere il confine e valicarlo; e il confine non è lontano. La Croce Rossa lo sa e lo sa Gisella Floreanini, membro del governo della Repubblica con delega all’assistenza. Saranno loro insieme alla Croce Rossa Svizzera a mettere in salvo migliaia di bambini, e anche molte donne e uomini.
La storia di quei bambini è stata raccontata dalle loro voci cinquant’anni dopo. Uno di questi, Claudio Barone, lanciò un appello tramite un quotidiano per ritrovare gli altri. Così venne costruito Il paese del pane bianco. Testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della “Repubblica dell’Ossola” (Grossi editore). Il libro che porto a casa dalle vacanze, che mi ha tenuto compagnia nelle mie sere in Valgrande.
45 sono le storie riportate. Ben più di 45 i bambini coinvolti e le famiglie svizzere che li hanno ospitati, accolti come figli e fratelli e sorelle. Storie tutte diverse: alcune brevi, ma la maggior parte è un racconto accurato e dettagliato, rimasto a lungo nella memoria che i bambini hanno cresciuto dentro di sé.
Il paese del pane bianco offre inoltre un altro punto di vista sulla guerra e sui rapporti internazionali. I bambini dell’Ossola sono i bambini della Repubblica partigiana: sanno cos’è, come e perché sia nata, grazie a chi. Sanno riconoscere in mezzo al male dove sta il bene. Nei partigiani loro eroi, ma anche nella gente comune che, senza problemi grazie alla neutralità del proprio paese, non rimane indifferente ma decide di offrire una mano a chi è in difficoltà.

Siamo abituati a pensare alla Svizzera come al paese neutrale per eccellenza, che non si schiera, non partecipa perché non conviene. In questo caso la Svizzera e la sua gente hanno dimostrato di saper scegliere una parte, quella giusta.

«…fui avvolta in una coperta e presa in spalla da mio padre che a turno con altri partigiani mi portarono fin lassù. Dissero anche che ero la più piccola bambina partigiana del suo gruppo».
(Osvalda Vignadocchio)

«Albeggiava appena, quando – garantiti dal silenzio calato sulla zona –qualcuno degli abitanti e noi ragazzi più grandicelli ci spingemmo fin su la strada deserta.
E qui – voglio ricordarlo quasi con la stessa emozione che provai allora – vidi per la prima volta, in carne e ossa, un partigiano. Era un giovane con la barba, giubba e calzoni corti, scarponi ai piedi. Imbracciava un’arma – uno “sten” apprenderò più tardi – ed era diretto a villa Tibaldi
per una prima ricognizione».
(Ezio Rondolini)

«Si è messo con noi un partigiano che andava in Svizzera, era ferito e perdeva sangue dalla testa, aveva attraversato il fiume per salvarsi. I partigiani stavano facendo saltare il ponte napoleonico e quello della ferrovia. Questo partigiano ferito ha preso in spalla il piccolo Virgilio e l’ha portato così fino a Varzo.
Non abbiamo mai saputo chi era…».
(Primo Falcaro)

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