Cosimo?

– Cosimo? Cosimo? Dove sei?
– Cosimo?

Io chiamavo, chiamavo, ma Cosimo non usciva.
Lo sapevo che era lì, sopra di me, ben nascosto tra il fogliame fitto e intricato, che lasciava intravedere soltanto a sprazzi qua e là lampi azzurri di cielo.
Ma Cosimo non rispondeva.
Troppo intento alle scoperte quotidiane, o troppo incline oramai alla distanza, frapposta un giorno tra sé e il mondo.
Lo sentivo muoversi sopra la mia testa; se stavo sul balcone, sembrava a un passo e mi illudevo di poterlo scorgere lì, accanto a me, magari con un libro.
Eppure ogni volta che mi sporgevo per vederlo, che mi alzavo in punta di piedi, lui era già fuggito via… troppo rapido e leggero per lasciarsi afferrare.
Allora lo chiamavo; ma mai una volta mi ha risposto. Lo immaginavo, ché oramai non potevo fare altro, incredula quasi della sua presenza. Eppure i segnali del suo passaggio erano sparsi ovunque: un’incisione sulla corteccia, una tana per gli amici dell’aria, una conchiglia caduta a terra dopo un viaggio fino al mare.
Lo so, potevano non essere opera sua: forse del professor Mario o – chissà? – di Adamo. Ma oggi è solo Cosimo ad abitare il parco della villa. Nessun altro è rimasto a occuparsene.
Quest’estate sono passata a cercarlo, a vedere con i miei occhi il luogo dove è nato. Ho vissuto con lui qualche giorno, nell’intrico di linfa che lentamente ha dato forma alla mente del suo autore.
Ho visto Sanremo e il mare dall’alto; ho guardato “in giù”, dove il mondo comincia. Ho atteso la sera e le notti dell’UNPA.
Nel parco della villa Meridiana, dove mondo scritto e non scritto si incontrano e intersecano, e non si distinguono più…


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Luna crescente

Fine agosto, fine delle vacanze. I miei diciotto anni mi avevano riportata un’altra volta al mare con la mamma e la nonna. All’albergo ero rimasta l’unica di quell’età e lentamente era arrivato il primo sabato, il primo cambio tra quelli che vanno e quelli che arrivano.

Uscivo dalla porticina sul retro, rapida, diretta alla spiaggia; ma qualcosa di inaspettato mi arrestò, imponendomi di tornare indietro. Non poteva essere, mi ero sbagliata: per forza! Rientrai e nell’atrio vidi subito che invece era vero, era lui. Erano cinque anni che non lo vedevo, che non era più tornato: e invece si trovava lì, con i genitori e il fratello più piccolo e la sorellina. Aveva quasi vent’anni, che ci faceva lì? Ora non ricordo come ci salutammo, ricordo solo come ci eravamo salutati cinque anni prima, sul cancello del cortile, quando lui era partito con un paio di giorni d’anticipo perché aveva un esame a settembre e io lo prendevo in giro. Ero una bambina e lui solo qualcosa di più. Forse pensavo a questo in attesa che mi vedesse e magari ci aggiungevo le immagini di una indimenticabile storia estiva. L’immagine che ci avrebbe accompagnati tutte le sere sul lungomare e tra gli scogli non potevo ancora vederla, invece.
Nel tempo dilatato delle giornate di mare quell’immagine sarebbe comparsa gradualmente, in un crescendo di intensità e di argento.
Di giorno si andava alla spiaggia, si stava in veranda in albergo, il mare e il cielo erano due cose distinte. La sera tutto era blu e su quel blu brillava regina la luna. Non so come accadde, ma iniziammo a parlare di lei, a cercarla nel cielo e riflessa nel mare, ad avvicinarci sempre di più.
La mattina della partenza ero tornata a cercarla da sola per portarla con me, almeno lei. Il cielo era rosa e la luna un vago ricordo.
Mi prese le nostalgia, come già altre volte, e passavo le serate ascoltando Beethoven.

Era luna crescente, il preludio che stavo vivendo…

Sulla riva

     ‒ Ti piace quando piove?
     ‒ No.
     ‒ Perché?
     ‒ Sono più triste.
     ‒ E non ti piace essere triste?
     ‒ Non più.
     …
     ‒ Mi piaceva una volta, quando non era vera tristezza. Quand’era una posa. Ora anche essere tristi è diventato triste.

Si era alzata. Aveva fatto qualche passo verso la riva e si era accucciata a cercare sassolini. La guardavo e vedevo che non era più bella come un tempo. Era invecchiata. Non era più la ragazza che collezionava attimi, che era scappata un giorno dall’università e si era fatta tre ore di treno solo per vedere il mare. Il mare ce l’aveva lì davanti, ma nemmeno quello le importava.
     Pensavo queste cose accendendo una sigaretta, e pensavo che una volta si sarebbe arrabbiata. Mi sarebbe piaciuto che si arrabbiasse ancora, che mi dicesse “Andiamo via ché c’è il vento e prendo freddo”.

Ci eravamo incontrati sulla riva, un giorno di febbraio. Io leggevo, mentre lei raccoglieva la sabbia da portare a casa. Deve averla ancora in qualche vecchia scatola; io il libro non lo trovo più. Era inverno e c’era il sole, mentre lei avrebbe voluto che piovesse. Diceva qualcosa che somigliava a una vecchia canzone. Diceva tante cose che una volta dicevo anch’io, ma poi ho smesso di pensare. Finché ha smesso di sentirle anche lei.

La sigaretta lentamente finiva e la spegnevo sulla sabbia. Poi la chiamavo, ché ero stanco e volevo rientrare. Di rimanere un altro po’ non me l’avrebbe chiesto più. Forse avrei dovuto chiederglielo io, ma avevo disimparato. Così la presi per mano e andammo via.

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Il mare dimenticato

Scesa alla stazione non esitai un istante, sapevo già da che parte andare. Avrei potuto fermarmi un attimo, guardarmi attorno, erano quasi due anni che mancavo. Ma forse non ci pensai nemmeno. Imboccai una lunga strada sulla destra e, la soglia già alle spalle, fui dentro il paese.

Quando avevo detto «Pietra Ligure» alla piccola stazione della mia città non mi sembrava vero. Tante volte l’avevo meditato, sempre sognando, e il pomeriggio precedente improvvisa la decisione. Gli orari dei treni da Milano li conoscevo, li sapevo a memoria ‒ andata e ritorno ‒ ed anche i prezzi dei biglietti. Avevo incontrato un’amica, una compagna di università, e le avevo detto che, anziché a lezione, sarei andata al mare. Lei rideva, ma in fondo pensava che ero matta. Sul treno del ritorno la ritrovai: le avevo portato una cartolina.

In stazione Centrale a Milano, dove tutto ha inizio, percorrevo il mio treno lungo la banchina. Chissà se pensavo di essere ancora in tempo… probabilmente no. Non avevo paura. A vent’anni non lo sai che esiste la paura. Salii e trovai un posto in mezzo ai pendolari. Tra Pavia e Voghera sarebbero scesi quasi tutti, dando il cambio ai successivi, per poi lasciarmi finalmente sola con il mio viaggio dopo Genova. Era da tanto che non vedevo il mare, e seguirlo correre accanto a me dal finestrino infinitamente lungo e azzurro non mi sembrava reale.

Il treno era in orario ed alle undici e venti, dopo tre ore di viaggio, ero arrivata. Mi attendevano, prima del rientro, tre ore e mezzo di mare. Era il 24 di febbraio, e non avevo freddo. Indosso il mio giubbotto verdone, pantaloni e maglione neri, scarpe coi tacchi. Camminavo come se non le avessi. Prima di uscire sul lungomare avevo voluto percorrere le vie e le piazzette delle serate con gli amici, dei lenti pomeriggi in solitaria quando tutti riposavano ed io di perdere tempo a dormire non ne volevo sapere. Nonostante l’inverno, mi sembrava tutto noto e consueto: i colori delle case, il vento sul viso all’uscita dai caruggi, persino la luce. Non avevo nessuno da cui andare ma tanti luoghi da ritrovare. Dopo l’arco che porta fuori dal centro storico trovai sulla strada i primi segni del passaggio delle stagioni: coriandoli. Ovunque in Italia il carnevale era già partito, mentre a Milano sarebbe arrivato solo alla fine della settimana. Era strano camminare sul lungomare seguendo la scia delle stelle filanti. Ora non ricordo se andai prima all’albergo delle mie estati lontane o sugli scogli di quell’ultima sera. Ricordo però le sensazioni, le nostalgie, la consapevolezza di essere seduta davanti al mare con l’università dietro di me, a indefiniti chilometri di lontananza.

Non avevo parlato con nessuno. Non avevo nemmeno cercato un posto per mangiare. Mi erano bastati i miei crackers da sgranocchiare lenti tra l’azzurro e i ricordi. Cercavo di immaginare lo sfondo alle sere d’estate, con la luna ed il blu, gli ombrelloni chiusi e le voci dei vacanzieri che sempre mi disturbavano. Provavo a rivedere i colori dell’ultima mattina, il cielo rosa e la luna che tramontava pallida, quand’ero tornata per cercarmi. Tutto invece era molto diverso: gli stabilimenti chiusi, gli ombrelloni e le sdraio ritirati chissà dove, lui lontanissimo da qualche parte che non poteva immaginarmi seduta lì… solo la musica del mare suonava monotona e incessante la stessa antichissima melodia.

Prima del ritorno avevo voluto prendermi il tempo di salutare ogni cosa, di comprare qualche cartolina, di percorrere il mio caruggio preferito verso ponente, perché ogni caruggio ne contiene sempre due, a seconda della direzione da cui lo si cammina. Sono sicura che non avevo lasciato la spiaggia senza avere cercato di scrivere qualcosa, su un diario o un quaderno senza il quale non uscivo mai di casa. Cercando tra vecchie carte, scopro invece che avevo scritto dal treno, in attesa dei momenti che avrei incontrato all’arrivo.

Camminavo lenta con l’illusione stupida di dilatare il tempo, di rimandare il ritorno. Ma arrivata alla stazione, dove tutto finisce, mi sentivo ormai tornata a casa. Il mare lontano, i colori sfumati e quel giorno diventato già un ricordo da custodire insieme agli altri in una scatola.

La apro, e frugando tra vecchie foto e odori e tante lettere, trovo un sasso con la data del 24 febbraio, i biglietti del treno, gli scontrini degli acquisti e l’astuccio della cipria con la sabbia raccolta e portata via… sabbia policroma e granulare delle spiagge di Liguria.

Ho paura ad aprirlo. Ho paura di perderla sul pavimento. Qualche granellino inevitabilmente scivola via, come molti pensieri pensati quel giorno, come le impressioni perdute che non ho potuto trattenere. Come gli attimi fuggiti e lasciati andare, le immagini ingiallite o ritoccate dal ricordo. Come il tempo che a volte ritorna, più spesso si perde.

Anche dimenticare è parte del bagaglio…

Bagaglio

Le Pleiadi: canzoni e letteratura 1.

In un’atmosfera rarefatta, sospesa nel tempo e nello spazio, lentamente si fa strada una musica liquida, che oscilla come le onde del mare. Una musica notturna, lunare. Una musica che è quasi silenzio, fatta di poche, pochissime note di pianoforte che ritornano continuamente. Su quelle note, a poco a poco, silenziosi movimenti di archi, arpa e marimba costruiscono la scenografia.

Tramontata con le Pleiadi
è la luna. È mezzanotte,
il tempo passa.
Io giaccio sola.

Così il cielo e il silenzio della notte accompagnano la malinconica attesa di una Penelope che in fondo è tutte noi. È infatti la donna che dà forma all’attesa; la donna che è sedentaria, mentre l’uomo vagabondo.

Partendo dai versi di una brevissima poesia di Saffo, Vinicio lavora su due orizzonti: quello di cielo e mare che accompagna i naviganti, e l’orizzonte dell’attesa cui le donne sono state condannate.

Sotto il cielo, dove «tutto si muove, ma niente si muove davvero», avanzano gli uomini e aspettano le donne, mentre le stelle – Andromeda, Orione, Urano, fino alle Pleiadi – osservano mute i destini umani. Sono destini di solitudine e nostalgia. La solitudine femminile si costruisce nell’attesa, che costringe nell’immobilità, del tempo e dei gesti. Che insegna ad amare la stessa nostalgia. L’attesa è un incantesimo, o un inganno, l’inganno del tempo che scorre e deforma i ricordi, portando finalmente alla conoscenza: «nell’attesa mi conosci così bene», dice lui.

La solitudine dell’uomo avanza nella notte, quando «s’alza in cielo… la Croce del Sud». Anche il viaggio e la lontananza portano conoscenza: «nell’attesa mi conosci così bene», sussurra anche lei.

L’inganno si svelerà più tardi, nel momento dell’incontro, dove il riconoscimento verrà ad entrambi negato. Ma entrambi ne sono già consapevoli ed è forse per questo che l’attesa diventa dolce e preferibile al ritorno.

Due versi sibillini sul finale (forse Omero?) chiudono la storia, mentre la musica lentamente si spegne come la notte, si scioglie nella stessa atmosfera di sospensione da cui era nata…

Questa canzone, in cui musica e letteratura si incontrano, si muovono insieme e poi si fondono, è solo un frammento di Marinai, profeti e balene, lavoro “ciclopico” del cantautore Vinicio Capossela. Tutto l’album è infatti un grande affresco di storie di mare, in cui Melville e Omero hanno suggerito scenari e personaggi. Melville è protagonista del primo disco, Omero e la tradizione dei nostoi nel secondo. Vinicio racconta come sa fare, costruendo la scena e l’atmosfera insieme alla storia. Nelle Pleiadi, accanto agli strumenti tradizionali, se ne aggiungono altri, anomali e suggestivi, come l’Ondes Martenot, nato nel 1928 per riprodurre il rumore del mare, i cui compositori vengono chiamati ondisti, e il gong delle nuvole, antico strumento della tradizione teatrale cinese.

Alla musica vera e propria si accompagna quella delle parole, di cui Vinicio si dimostra grande artigiano e maestro. Urano lontano, lento meccano del cielo: / tutto si muove, ma niente si muove davvero: tre parole in rima interna (due vicinissime, la terza di poco spostata) e l’assonanza “cielo-davvero” a chiudere. Intanto, insieme al ritmo lento e cadenzato, il suono liquido della lettera “l” e quello morbido della “n”, nelle parole “lento” e “lontano”, muovono le onde. Lo stesso effetto si ripete più avanti: …le figlie di Atlante, / brillanti ai naviganti / la via per tornare.

Contro il suono e il moto ondulatorio delle parole giocano i continui cambi di tempo e ritmo, che aumentano la sensazione di sospensione, di qualcosa che si desidera ma non arriva, che sembra avvicinarsi ma poi se ne va. E così anche la musica talvolta appare ferma, in attesa.

Cartoline di mare

Sirolo: spiaggia delle Due Sorelle (AN), agosto 2011.

Sirolo: spiaggia delle Due Sorelle (AN), agosto 2011.

12 agosto 2011, mattino…
Ho appena raccolto gli ultimi sassolini di questa vacanza, di questo mare. Qui i sassolini hanno gli stessi colori del mare: azzurro, blu, indaco… verde acqua.
 

Costiera Amalfitana (SA), agosto 2013.

Costiera Amalfitana (SA), agosto 2013.

11 agosto 2013, pomeriggio…
Anche da lontano richiami i sogni col tuo azzurro, i tuoi azzurri che si mescolano e si sciolgono.
 

Camogli (GE), aprile 2012.

Camogli (GE), aprile 2011.

23 aprile 2011, pomeriggio…
È bellissimo stare qui, senza sole, senza caldo, senza ombrelloni e senza estate.
 

Metaponto (MT), agosto 2012.

Metaponto (MT), agosto 2012.

20 agosto 2012, sera inoltrata…
Oggi ho rivisto il mare. Per poco tempo, ma era il mare. Il mare della costa ionica e della Magna Grecia. Era bellissimo.
 

Piccoli immensi piaceri

Amélie bambina in una scena del film di J.P. Jeunet "Il favoloso mondo di Amélie" (2001)

Amélie bambina in una scena del film di J.P. Jeunet “Il favoloso mondo di Amélie” (2001)

Finire un libro e rimanere seduti, con le pagine ancora calde tra le mani, solo per sentire fisicamente la magia del momento.

Entrare in libreria senza sapere cosa comprerai… Vagare tra gli scaffali con aria sognante, spizzicare titoli pagine a caso quarte di copertina… e riporre delicatamente.

Cercare su YouTube il rumore del mare, chiudere gli occhi e fingere di essere lì.

Asciugare i capelli al sole.

Abbinare la musica al paesaggio. Guidare per le strade poco illuminate della brughiera con Anime salve come sfondo. Costeggiare i campi coltivati con Il suonatore Jones. Ascoltare la pioggia insieme al pianoforte, confondendo le note e le gocce che cadono sui vetri.

Disperdersi.

Avere il coraggio di stare a casa dal lavoro in una giornata di sole, con un’ottima scusa per fugare ogni senso di colpa, ma non stando troppo male da non potersela godere.

Sono piccoli, immensi, irrinunciabili piaceri…

Bord de mer

Nadia Galbiati, Strutture sulla riva del mare, 2002

Nadia Galbiati, Strutture sulla riva del mare, 2002

“Il giorno temuto era giunto. La mattina presto Hanno aveva già detto addio al mare e alla spiaggia; ora lo diceva ai camerieri, che intascavano le mance, al chiosco della musica, alle aiuole di rose e a tutta l’estate […] Dentro le scarpe sentiva ancora un po’ di rena della spiaggia… avrebbe pregato il vecchio Grobleben di lasciarcela per sempre…” (T. Mann, I Buddenbrook, 1901)

Chi da bambino non ha vissuto il momento solenne del saluto al mare, compagno mitico e inafferrabile dei lunghi giorni d’estate? Quale romantica adolescente non si è allontanata, di nascosto, dai preparativi del ritorno per scappare da lui, e provare a rubargli gli ultimi colori, gli ultimi istanti malinconici di un’estate sfiorita?

Anch’io da ragazzina raggranellavo sempre, nel ripetuto percorso dalla stanza all’ingresso, dall’ingresso all’automobile per caricare i bagagli, qualche attimo prezioso solo per lui, solo per me; e dopo l’ultima lenta colazione, cucivo insieme quegli attimi raccolti e correvo via, alla spiaggia. Là toglievo le scarpe e le tenevo per i lacci mentre mi avviavo per l’ultima volta davanti a lui. Sentivo la sabbia morbida e tiepida sotto i piedi. Avanzavo di corsa, poi mi fermavo, mi arenavo dove si scioglie l’onda e lentamente immergevo i piedi. C’era una malinconia strana in tutti quei gesti, una malinconia solenne, cercata. Mi guardavo dall’esterno come la protagonista di un film o di un romanzo. Del mio romanzo.

Nel viaggio di ritorno continuavo a guardarlo dal finestrino, fino all’ultima curva che lo portava via per un altro, intero anno.

Ripetere questo romanticismo oggi ha un fascino diverso. Non lo trovo fuori tempo; non è l’atteggiamento un po’ ridicolo di una donna appassita ancora intenta allo specchio: il tempo per vivere in un romanzo non ha scadenze. Ha però un altro sapore, aggiunge nuova nostalgia. Si sente la mancanza di quello che non si è fatto o non si è stati. Ti domandi perché non hai vissuto un’altra vita, un’altra giovinezza. Perché non sei stata un’altra persona, anche solo un po’ diversa. Vorresti riscrivere, da capo, tutto il romanzo. E non puoi.

Ciottoli

Si conservano parecchi ricordi e qualche annotazione sull’abitudine di raccogliere i ciottoli dalla spiaggia, di tenerli sul palmo della mano, di riporli con cura o di portarli da qualche parte, o ancora su quella di tracciare o di costruire figure sulla sabbia: l’adulto lo fa allo stesso modo del bambino. Alcuni vedono in questo comportamento un modo  di scherzare, altri ci trovano molto di più. Gli antichi saggi e i poeti ne parlarono e ne cantarono: i ciottoli sono stati levigati e la sabbia è stata sbriciolata proprio dal Mediterraneo.

(P. Matvejevic, Breviario mediterraneo, 1991)