Blue Jeans

Scendeva la sera e quando arrivava portava qualcosa con sé.
La sera porta sempre qualcosa con sé, un momento, una luce, una nostalgia… In quel periodo la sera portava un ragazzino della mia età, che aveva i miei stessi problemi. Si chiamava Kevin, Kevin Arnold. Kevin andava a scuola, ma in una scuola diversa dalla mia, una di quelle scuole americane con gli armadietti e la mensa. E ci andava in un’altra epoca, circa vent’anni prima di me. Tuttavia Kevin poteva capirmi, gli capitavano le stesse cose che accadevano a me. Si sentiva diverso, frainteso, disadattato, ed era innamoratissimo di Winnie. Winnie era una ragazzina della nostra età, con i capelli lunghi lisci e la frangetta. Era più alta di Kevin e quel pomeriggio che li vidi pattinare insieme mi fecero una gran tenerezza. Winnie però era strana, non si capiva mai se Kevin le piacesse oppure no e a lui sembrava sempre di sbagliare con lei, di deluderla. Capivo bene quella sensazione e mi sembrava consolante che ci fosse qualcun altro nell’universo – oltre a me – a sentirsi così, soprattutto perché maschio; e che si trattasse del personaggio di un telefilm e non di una persona reale faceva poca differenza.

Quando scendeva la sera, era il momento di Blue Jeans, un telefilm che nella mia classe vedevo solo io, su un canale strano. Lo trasmettevano intorno alle sette e lo guardavo sulla tv del salotto, mentre la mamma cucinava e con il terrore che arrivasse all’improvviso il papà facendomi fuggire via. Gli adulti in quel momento non erano ammessi, tranne Kevin naturalmente, che con la sua voce da uomo accompagnava fuori dal tempo il racconto della sua adolescenza.

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C’era Leningrado

Quando ero piccola facevo spesso il giro del mondo. Al pomeriggio, o in serata, ogni tanto mi veniva voglia di partire e cercavo qualcuno che venisse con me, ché fare il giro del mondo in solitaria da piccoli non è divertente.

L’agenzia si chiamava Ravensburger, all’avanguardia per i tempi erano gli anni Ottanta e con proposte sempre avventurose, poiché lasciava scegliere le mete al caso (forse era per questo che il giro era gratis…). Era però un caso controllato, organizzato: le tappe dovevano essere equamente distribuite tra le grandi aree del pianeta: l’area arancione, l’area verde e l’area blu. Io avevo già allora le mie preferenze, tutte tra la vecchia Europa e l’Estremo Oriente. Quando ricevevo le mie nove carte con le informazioni sulle città da visitare, ero sempre emozionata e mi auguravo di trovare anche la foto della località, per iniziare a sognare prima di partire. Ma alcune località non le avrei mai viste e sarebbero rimaste nomi: ma i nomi per me erano più affascinanti di mille immagini colorate…

GiroDelMondoCarte

Quei nomi erano scritti in più lingue, in caratteri latini ma con il tentativo di mantenere la pronuncia originale, il suono, la musica di quei posti lontani… e c’era Lulea, dal suono morbido, caldo, che teneva calde le persone che ci abitavano… c’era Chungking, che ci faceva ridere con il suo suono buffo… e poi quella con il nome doppio, che nessuno mai ricordava perché era già tanto riuscire a pronunciarlo leggendolo, figuriamoci ricordarlo! Petropavlovsk – Kamchatskiy…

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C’era un mondo sul quale mi spostavo rapidamente, a colpi di dado: un punto per i collegamenti via terra, due per quelli aerei. Un mondo che aveva il fascino di ciò che si può soltanto sognare e la sicurezza di ciò che sta scritto sulla carta. Un mondo solido.

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C’era un mondo che – io non lo sapevo – era in lento e inevitabile disfacimento. Viaggiavo tra le città dell’URSS senza poter immaginare che un simile colosso di lì a poco sarebbe crollato: se me l’avessero detto, non ci avrei creduto. Leningrado era una certezza per me, un nome scritto sulla carta geografica, sul tabellone del gioco, come avrebbe potuto cambiare? E invece sarebbero cambiati anche tanti altri nomi di tanti altri paesi: in Africa, in Asia… ma di quelli non credo mi sarei stupita: erano così lontani che non potevo controllarli.

Ma l’URSS no, non poteva smettere di esistere da un giorno all’altro. Come le due Germanie, la Jugoslavia con quel nome che mi ammaliava… e la Cecoslovacchia… come avrebbero potuto dividerla? Spaccarla in due? La Cecoslovacchia della mia Praga adorata…

C’era un mondo che – qualunque fosse – per me era rassicurante che ci fosse. C’era Leningrado, c’era l’Olanda. C’era Leningrado!

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Eppure avrei assistito anch’io alla fine di quel mondo, al crollo del muro: nella quotidianità e nella sicurezza della cucina di casa, al caldo, una sera, davanti alla televisione con la mamma che diceva: «È incredibile: è crollato il muro di Berlino. Il mondo sta cambiando…». Beh, io non lo capivo che il mondo stava cambiando e avrei continuato a giocare al Giro del mondo senza badarci, sicura che quello che stava scritto sulla cartina era lì, sotto la pedina che muovevo, in quel punto preciso del mondo. E magari un giorno l’avrei visto anche con gli occhi…

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La musica ai miei tempi

La musica ai miei tempi non usciva da uno schermo. Era scritta sopra un nastro, che a volte si inceppava, aggrovigliava e prima che fosse troppo tardi dovevi agire con cautela, con l’aiuto di una Bic. La musica ai miei tempi era annunciata da un rumore… il leggero e morbido graffio della puntina di diamante, la cadenza goffa e lenta del nastro che si avvia. La poesia ha iniziato a perdersi con l’arrivo dei CD.

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La musica ai miei tempi si comprava. Qualche volta, mica sempre, ché dischi e cassette costavano e allora ci si divedeva: tu compri questo, io quell’altro e poi ce li registriamo. Io il registratore bicassette all’inizio non l’avevo e con la bicicletta andavo a casa delle amiche. La musica ai miei tempi si doveva guadagnare. Coi risparmi delle mance, con le conoscenze giuste, con i pomeriggi infiniti alla radio e il dito pronto sul tasto “Rec”: prima o poi la canzone amata arrivava e tu dovevi esserci, decisa a schiacciare in quell’esatto istante. La musica ai miei tempi si aspettava…

La musica ai miei tempi seguiva il ritmo lento della mano, che con pazienza e fatica trascriveva le canzoni sul diario, o su foglietti sparsi da custodire gelosamente. E gli ascolti ripetuti per capire cosa dicessero! Non solo gli stranieri, anche gli italiani che si mangiavano le parole. Si restava settimane o mesi interi con dubbi irrisolti, e le dispute infinite a riempire le serate con gli amici…

La musica ai miei tempi non era troppa, debordante. Non c’erano motori di ricerca e canali dove digitare un titolo e prima ancora che avessi finito la canzone era iniziata. La musica non era pronta al nostro uso e consumo acritico. Era forse più sincera, era quella che avevamo scelto, che ci somigliava. La musica era anche nostalgia.

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La musica ai miei tempi era appartenenza. A un gruppo, a una fede, a un sogno di rock da cui non ti potevi risvegliare. Io quelli che un giorno si sono svegliati non li capisco. La famiglia, il lavoro e tutto il resto non valgono il risveglio, i dischi in cantina o addirittura venduti.

La musica era la sola compagna che avevamo, orfani delle cose che ci sono oggi e delle idee di chi ci aveva preceduti…

Sguardi dall’infanzia 21: il presepio.

Correvano gli anni Ottanta e al freddo per le strade correva anche la gente, per gli ultimi regali e i preparativi natalizi. Io invece me ne stavo al caldo, sotto la luce giallognola del salotto, in attesa che il pomeriggio a lungo desiderato avesse finalmente inizio.

Il presepe a casa mia si chiamava presepio, variante che evidentemente non usava nessun altro, tanto che ogni anno erano intense le mie litigate con i compagni di classe per stabilire chi avesse ragione e poco importava che la maestra dicesse che era la stessa cosa. Allestirlo con pazienza nello spazio di fianco al camino era il mio rito preferito, che arrivava ogni anno più tardi per seguire i ritmi di lavoro di mamma e papà.

Il presepio per la mia infanzia è stato forse il solo collante che una volta all’anno teneva insieme la famiglia.

La Natività aveva luogo sullo sfondo di una vera scenografia e la realizzavamo noi, con le vecchie statuine superstiti che la mamma e il papà avevano salvato dal tempo e dai vari traslochi. Nelle case dei miei compagni di scuola, invece, trovavo spesso dei presepi minimi e già fatti, relegati in qualche cantuccio all’ombra del grande albero sfarzoso, debordante di decorazioni, e mi domandavo come fosse possibile comprare quel coso “in blocco” anziché costruire lentamente un paesaggio meraviglioso, fatto di tanti pezzi che avevano ognuno la sua identità e magari aggiungendo, ogni tanto e con parsimonia, un pezzo nuovo.

Qualche anno capitava che con il papà si andasse in cartoleria a comprare una o due statuine, raramente una casetta, e in fondo a me piaceva così, perché le vecchie casette e statuine avevano ognuna la sua storia… le storie immaginate nei lenti pomeriggi di vacanza, sullo sfondo delle musiche di Natale. La mamma faceva girare un disco portato a casa dal papà quando lavorava a Milano per una casa discografica. C’era una canzone con la chitarra che le piaceva molto e di conseguenza anche a me, che in quegli anni sapevo vederla ancora come un mito. Dentro quelle storie ogni statuina aveva il suo nome, un nome che io le avevo dato leggendoglielo in faccia: c’erano la Pia, la Teresa, la Nadia… tutte con il loro bell’articolo lombardo! La Pia al bambinello portava un cestino di frutti di bosco, la Teresa un grembiule pieno di uova, la Nadia faceva il burro in disparte. Le statuine dei vecchi mestieri piacevano molto a mio padre, che poteva vantare il venditore di caldarroste, l’arrotino e il vecchio con la barba che girava la polenta, con un forellino per inserire la luce dove brillava il fuoco.

Nella lenta costruzione del presepio ognuno aveva un ruolo: il papà preparava l’impianto delle luci e il basamento, con il pannello del cielo stellato, la legna, i rami e il muschio prelevati la sera tardi nei boschi della Brianza, con la paura di essere scoperti… La mamma collocava le case, lo specchio per il laghetto, la carta stagnola per immissario ed emissario del lago (che non potevano mancare nel presepio di una prof. di geografia!) e infine tracciava le strade con la farina e con il colino faceva scendere la neve sui tetti delle case… L’ultimo compito era il mio ed era il più importante: le statuine. Le statuine erano le vere protagoniste e nella mia fantasia ognuna aveva il suo posto stabilito, vicino alla “sua” casa, sul ponticello, di fianco alla capanna o in cima alle montagne a scrutare il cielo per seguire la cometa… Anche la cometa era artigianale: disegnata dalla mamma su una sagoma di compensato, era stata intagliata dal papà con il traforo e poi, tornata tra le mani della mamma, dipinta di giallo e riempita di brillantini dorati; ed oggi è la stella che risplende un po’ sbiadita e impolverata sulla vecchia capanna, dove i soliti Giuseppe e Maria con l’asino e il bue, tutti in gesso come una volta, attendono un Gesù Bambino di plastica.

Il presepio della mia infanzia, insieme a quei ricordi lontani e un po’ sfumati, è venuto con me, nella casa nuova. Sapendo quanto mi piacesse, mio padre ha costruito un nuovo scenario, più contenuto ma ugualmente bello, fatto di legna, rocce, rami di pino… ed adornato con sassolini, bacche di pungitopo e pezzetti di compensato ricoperti di segatura, tutto realizzato con pazienza e precisione dalle sue mani sapienti. Così ogni anno il presepio della mia infanzia riprende vita, anche se prepararlo da sola non è la stessa cosa…

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Sguardi dall’infanzia 19: gli ovetti Kinder.

Non so quando siano stati inventati e non voglio nemmeno cercarlo, perché in fondo non conta: i bambini non se lo chiedono. Per loro esistono da sempre, insieme al mistero e alla magia che dolcemente li avvolge. Gli ovetti Kinder… piccoli e preziosi come il momento che sanno regalare. Uno strato finissimo di cioccolato al latte fuori ed un altro altrettanto fine di cioccolato bianco dentro, un connubio perfetto e irrinunciabile.

Qualcosa però i bambini di tutte le epoche se lo sono chiesti ed ancora se lo domandano, immaginando qualcuno la fabbrica di Willy Wonka, qualcun altro un antro segreto in cima a una montagna: dove vengono prodotte le uova? Dov’è il luogo magico? E soprattutto: chi ci mette dentro la minuscola e desiderata sorpresa?

C’era una volta – e c’è tuttora – un piccolissimo centro di montagna, di quelli sperduti e nascosti che Google Maps riesce a scovarli con grande fatica e sudore. Si chiama Bagnella, frazione di Serina in Val Brembana, e la conoscono in pochi: i 243 abitanti e i rari villeggianti che vi hanno soggiornato, quando in vacanza si andava low cost con il portapacchi e mezza casa. Laggiù non c’era nulla, tranne la chiesa, un panificio e tanto paesaggio. Ed era là che ci portava la 127 bianca della mamma, tutte le estati. Una di quelle estati, non ricordo quale, fu l’estate degli ovetti Kinder.

Arrivarono all’improvviso, con la padrona di casa, la signora Maria che ci affittava l’appartamento per il mese di luglio. Erano stati affidati a lei da non so chi, misteriosi ambasciatori del signor Ferrero, incaricati di girare tra le valli delle Alpi alla ricerca di luoghi nascosti e di genti semplici, di donne che non lavoravano e che per pochi soldi avrebbero riempito gli ovetti che facevano sognare tutti i bambini. E noi bambini, naturalmente, partecipammo.

La nonna, che se arrivava un’occasione di guadagno bussando gentilmente alla porta, non la lasciava certo sul pianerottolo, se n’era presa un bel carico dalla signora Maria e si era messa subito al lavoro. Io e mio fratello, incuriositi, le giravamo intorno e lei – neanche a dirlo – ci aveva reclutati come piccoli ma utilissimi operai, che con le loro dita sottili e minuscole potevano riempire le capsule giallo canarino in pochi, preziosissimi secondi. Le sorprese erano tutte uguali, degli omini lavoratori (pensa la coincidenza…) con i pantaloni gialli e la maglia rossa. Ce n’erano di quattro tipi diversi, che non ricordo. Ricordo che le differenze erano minime e consistevano nel copricapo e in un accessorio da lavoro che li identificava in modo inequivocabile. La nonna aveva studiato il modo migliore per riempire le capsule, disponendo le istruzioni e le varie parti “ottimizzando” – come si dice oggi – quello spazio ristretto. Immune da qualunque sorta di alienazione, lavorava tutto il giorno ed aveva chiesto alla padrona di casa degli altri ovetti, ché i suoi li aveva già finiti.

In paese e nella valle la signora Maria non era stata l’unica a ricevere il prezioso incarico e così, sparsi ovunque, c’erano bambini impegnati a confezionare le sorprese degli ovetti Kinder, che altri bambini avrebbero presto ricevuto senza sapere mai da dove arrivasse quel magico regalo… Tra noi si parlava quasi solo di quello e, come sempre, si faceva a gara a chi ne riempiva di più.

Forse lo consideravo il mio primo lavoro, privo di qualsiasi tutela, di un regolare contratto e soprattutto di qualunque guadagno, destinato a finire fino all’ultima lira tra i risparmi della nonna. L’unica cosa che ero riuscita a trattenere, come gli altri bambini, era una sorpresa per ogni tipo, che purtroppo oggi non so quale fine abbia fatto. Ho provato a cercare in rete immagini di quegli omini, frugando dappertutto, ma non sono riuscita a rintracciarli da nessuna parte. L’unico posto in cui, tanti anni fa, ne trovai uno, fu un ovetto Kinder. Ero in camera e aprivo piano piano la capsula gialla, quando, incredula, vidi spuntare proprio lui. Naturalmente lo riconobbi senza esitare: era uno dei miei, uno di quelli passati da Bagnella, che quell’estate magica ci avevano riempito le giornate di dolcissime e indimenticabili emozioni…

bagnella

Portapacchi

Negli anni Ottanta per andare in vacanza ci portavamo la casa. L’albergo era una cosa di lusso, per ricchi; noi andavamo in villeggiatura, prendendo in affitto un appartamento accuratamente scelto dalla mamma con non so davvero quale strumento, visto che internet non esisteva, né era uso rivolgersi a un’agenzia viaggi.

La partenza iniziava la sera prima, quando il papà “smadonnava” per caricare la macchina, una indimenticata 127 bianca, che, non essendo molto spaziosa, per poter trasportare tutte le cose indispensabili preparate dalla mamma e dalla nonna doveva essere munita di un portapacchi. Il portapacchi negli anni Ottanta era – come si dice oggi – un must, mentre ora lo vediamo traballare soltanto sulle auto un po’ malmesse dei migranti arrivati da poco.

In vacanza si andava in montagna, ovvio, perché di rendere felici i bambini negli anni Ottanta non se ne parlava nemmeno. Oltre alle valigie con i vestiti, i bagagli strettamente necessari, in ordine di importanza, erano:
– cuscino della nonna altrimenti non riusciva a dormire;
– lenzuola perché non è igienico dormire in quelle degli altri;
– televisore perché pare che in montagna non l’avessero ancora scoperto;
– pentolame vario (che magari in montagna non si usava o era troppo rudimentale…).

Quando la nonna fece il grande acquisto (una piccola lavatrice da viaggio, di capienza infinita) la gerarchia dei bagagli subì un drastico riordino. In tutto questo cumulo infinito e sovrabbondante di cose, io e mio fratello avevamo diritto ad un solo, minuscolo zainetto per gli effetti personali: compiti delle vacanze e, se restava spazio, qualche inseparabile, triste giocattolo…

Con il portapacchi l’altezza della 127 lievitava, fin quasi a raddoppiare, ma al raddoppiare dell’altezza dimezzava la velocità, secondo una legge di proporzionalità inversa che al liceo avrei poi imparato a scrivere così: v = k/h, con k che mi è uscito uguale a 100 e, oggi come ai tempi del liceo, non so se sia giusto ma mi accontento, perché sono comunque in possesso di un numero da scrivere e non lascio in bianco la risposta. La legge oraria del moto (né rettilineo né, soprattutto, uniforme) della 127 di mia madre non è mai stata studiata da nessun fisico di riguardo, sebbene – a mio modesto parere – avrebbe potuto dare un valido contributo alla ricerca, smentendo una lunga serie di leggi fisiche ritenute, fino a quel momento, assolutamente valide.

Per percorrere meno di 80 km impiegavamo ore e a noi bambini il viaggio sembrava davvero lunghissimo, stretti e pigiati com’eravamo in quello scatolino! Stavamo solo andando in qualche valle sperduta e inutile in provincia di Bergamo, ma la sensazione era di vivere un’incredibile avventura.

I miei alunni oggi vanno in vacanza a Sharm el Sheik comodamente seduti in aereo e se raccontassi le peripezie superate alla loro età per raggiungere luoghi sconosciuti e anonimi, non mi crederebbero.

Durante il viaggio, rumori varii e inintelligibili mi facevano temere che avessimo perso qualcosa per strada, malauguratamente staccatosi dal portapacchi, e che dovessimo scendere a raccattare i pezzi sparsi ovunque, facendo lo slalom tra le altre macchine. Così ogni tanto mi giravo dietro a controllare che tutto andasse bene, ma, contro ogni più nera e logica aspettativa, il portapacchi era ancora sopra le nostre teste, al suo posto, ben saldo.

Quando incomprensibilmente si giungeva in prossimità del traguardo, la 127 aveva un sussulto: forse un sospiro di sollievo, o più probabilmente un rantolo, e, arrancando intrepida – e incredula, muoveva gli ultimi passi, per poi cadere svenuta e giacere, finalmente inerte, fino all’indomani. L’indomani mia madre l’avrebbe riesumata, e con noi e la nonna a bordo la mitica 127 avrebbe ripreso a sfrecciare libera e inarrestabile per le valli bergamasche, con in testa il portapacchi vuoto e leggerissimo, a mo’ di cappello o addirittura di foulard…

Piccole cose di quando ero piccola

La mamma che mi ricopriva i libri con la carta del giglio di Firenze. Una volta ha aggiunto la sagoma di cartoncino colorato a forma di Befana, che aveva fatto e attaccato sulla mia calza del 6 gennaio. E così il mio libro di antologia era il più bello di tutta la classe.

Il “bombo” della buonanotte. Che per fortuna non era un terribile insetto, ma una caramella di gelatina alla frutta che ogni sera la mamma proustianamente ci dava prima di dormire; ed era una sola. Io e mio fratello mai avremmo provato a chiederne una seconda. Sarebbe stato come togliere poesia…

La sera prima di partire per le vacanze, quando il papà montava il portapacchi. A quei tempi si portava di tutto in villeggiatura e la 127 della mamma era piccola, troppo piccola; ma il portapacchi la raddoppiava in altezza (e ne dimezzava la velocità…).

Piccole cose di quando ero piccola.

Sguardi dall’infanzia 10: mia-zia-la-grezza.

Chi da bambino non ha avuto uno zio (o una zia) mitico, con cui attraversare e scoprire nuovi mondi affascinanti? Uno/a zio/a che ci introducesse ad una certa cultura musicale, quello/a zio/a che ci difendeva sempre da mamma e papà, che ci faceva divertire, che ci raccontava le avventure mirabolanti e decisamente incredibili della sua vita da giovane? Io. Io quello/a zio/a non l’ho mai avuto/a. In compenso ho avuto mia zia Rosetta, che in età adolescenziale avrei iniziato a soprannominare “mia-zia-la-grezza”. Tutto attaccato.

La zia Rosetta era una delle numerose sorella della nonna paterna, che io non conoscevo ma questa è un’altra storia… Viveva con lo zio Francesco in una casa non molto lontana dalla nostra, dove spesso ci recavamo in visita con il papà. Non so quanto mi facesse piacere andare dagli zii, perché ricordo con un certo disgusto il momento tanto temuto in cui il papà ci diceva: «Fate un bacino agli zii…» ed io e mio fratello avremmo preferito sentirci chiamare per la legione straniera o per giocare con un giaguaro, perché gli zii emanavano uno strano e pungente odore… l’odore insostenibile del cibo che mangiavano e che sempre, a qualunque ora ci ritrovassimo da loro, bolliva in pentola impestando tutta la casa.

Gli zii vivevano dei prodotti del loro orto e delle loro galline. Avevano anche i piccioni ed io allora non capivo che cosa se ne facessero… non stavano nemmeno in gabbia, se ne andavano in giro per il cielo tutto il giorno e tornavano a casa solo per scacazzare per tutto il cortile! Anche la casa era stranissima. Tanto per incominciare tutte le finestre, tranne quelle della cucina, avevano sempre le tapparelle abbassate; poi non si capiva bene quanto quella casa fosse grande: dall’esterno sembrava piccola, ma dentro c’era un corridoio lunghissimo che costeggiava le innumerevoli stanze, dove i mobili giacevano inerti, ancora coperti con il cellophan. Gli zii infatti di tutte quelle stanze ne utilizzavano soltanto due, ed anche questo era un mistero…

L’unico momento atteso della visita agli zii giungeva verso la fine, quando, prima dei saluti, “mia-zia-la-grezza” ci conduceva lungo quel corridoio fino all’ultima stanza nascosta in fondo, tutta buia, dove, da una vecchissima e scricchiolante credenza, prendeva le caramelle più insolite ed improbabili che noi avessimo mai assaggiato. Solo ora mi domando da quanto tempo quelle caramelle di forme e incarti mai visti stazionassero nella credenza, in attesa che qualche impavido le mangiasse…

Gli zii vivevano praticamente in cortile, in qualunque stagione, ed erano sempre in ciabatte. La zia le scarpe proprio non riusciva a tenerle e, quando veniva da noi a Natale, si portava le pantofole e appena entrata in casa correva a mettersele. Mia nonna materna mi diceva che della zia Rosetta si vergognava, perché a tavola quella donna così affamata finiva gli avanzi di tutti! Io ero convinta che gli zii fossero poveri, ma la nonna mi aveva raccontato che la zia Rosetta aveva un miliardo sotto il letto e siccome era tirchia non spendeva niente! E infatti a Natale la mancia più misera era la sua…

Quella zia che a me appariva grezza aveva però un dono: era bravissima a sistemare caviglie, polsi e tutto ciò che noi bambini riuscissimo a slogare o a danneggiare giocando. Quando capitava di farsi male e l’arte della nonna non bastava a risanarci, venivamo spediti dalla zia con il Lasonil in pugno e lei, tirando maneggiando contorcendo, ci rimetteva a posto. Quelle mani sante furono però anche la causa del dolore più atroce che abbia provato in vita mia…

In terza elementare dovevo mettere l’apparecchio, ma c’era un dentino da latte che ostruiva il passaggio di un altro dente (già con la radice), che poveretto era rimasto in cima alla gengiva e non riusciva a scendere al suo posto. Il dentista disse che bisognava procedere con un’estrazione, ma la mamma rispose che non era necessario, ci avrebbe pensato la zia… e io, già in preda alla paura, guardavo con vergogna la faccia del dentista, attonito.

Pochi giorni dopo ero nel cortile degli zii, terrorizzata, immobilizzata dai miei genitori, mentre quella donna si preparava ad estirparmi, a mani nude, un dente che non dondolava neanche per sbaglio. Oltre alle lacrime alle grida e al dolore, ricordo il sangue, che colava rosso ed estraneo nel lavandino…

Sguardi dall’infanzia 4: il pulsante dell’autodistruzione.

Mio padre è sempre stato un tipo originale. Con lui quando ero piccola si facevano solo cose strane, cose un po’ fuori dalla norma. Si facevano anche quelle normali, ovvio, ma quelle inconsuete – non so perché – gli riuscivano meglio. Anche adesso ogni tanto riesce a stupirmi, tipo quella volta che, avvistate delle povere falene che dormivano appese al muro in giardino, per eliminarle ha preso la carabina… le avrà scambiate per pipistrelli – chissà? – perché mio padre non è insensibile alla natura. Da quando gli ho detto che gli uccellini in gabbia soffrono, lui ha aperto la voliera; ma non ha smesso di comprare tutti i vari tipi di semini, che sparge in giardino per loro. Ma torniamo a ricercare il tempo perduto

Quando ero piccola con mio padre si facevano solo cose strane, come attendere che calasse la sera sotto Natale per inforcare la macchina ed andare nei boschi a prelevare il muschio da mettere sul presepe. Si decideva il giorno, ci si armava di secchio e cazzuola e via verso l’avventura. Per due bambini di sette-otto anni quella era davvero un’avventura, soprattutto perché il papà insisteva molto sul fatto che quello che facevamo fosse proibito, illegale, e quindi dovevamo stare molto attenti.

Arrivati sul luogo del delitto (il povero muschio sarebbe comunque morto, steso sul nostro presepe a commemorare la nascita di Gesù bambino), si parcheggiava cercando di non lasciare la macchina in vista; poi ci si addentrava nella radura, ma solo il papà procedeva con l’ “operazione muschio”: io e mio fratello restavamo a “fare il palo”, come si dice in gergo. Ricordo che la paura che ci beccassero io ce l’avevo davvero. Per fortuna le forze dell’ordine hanno altro da fare che aggirarsi per i boschi della Brianza a caccia dei ladri di muschio.

Il papà, come ho già accennato nel racconto della 500 blu, aveva una Lancia Delta, che negli anni ’80 era decisamente una signora macchina. Per me e mio fratello si trattava di una specie di bolide ultratecnologico pieno di misteri, tra i quali uno strano pulsante rotondo, vicino all’autoradio. Il papà ci aveva detto che quello non andava assolutamente toccato, perché era il pulsante dell’autodistruzione. Io e tutte le mie paure infantili naturalmente ci eravamo cascate in pieno.

Una volta, durante una gita con amici di famiglia muniti di altri infanti come noi, io, mio fratello e la bambina più grande siamo rimasti da soli sulla Lancia Delta. Quel pulsante doveva rappresentare davvero un’attrattiva, perché tra tutte le cose che si potevano notare, anche la nostra amica si era fissata su quello. Noi subito, intimoriti, le abbiamo detto di non toccarlo, perché era il pulsante dell’autodistruzione! Ma lei l’ha schiacciato. Io avevo paura, tanta paura. Quella paura che in pochi, lentissimi secondi ti proietta tutta la vita davanti. Una paura che non si è placata nemmeno quando, da sotto il pulsante, è uscito il posacenere… mentre mio fratello e quella piccola incosciente ridevano, io continuavo a restare lì: immobile, terrorizzata, ad attendere di saltare in aria.

Sguardi dall’infanzia 2: la paura.

Quando ero piccola facevo solo due cose: mi vergognavo e avevo paura. Anche adesso ho paura, ma almeno non mi vergogno più.

Quando ero piccola mi vergognavo così tanto – di me, di esserci, forse di esistere – che ogni cosa che facevo, prima la osservavo attentamente dall’esterno, per valutare se fosse o meno il caso di realizzarla, di metterla in pratica, e solo dopo un accurato esame mi decidevo. Sono sicura che dietro tutto questo ci fossero mia madre e la sua prepotente influenza su di me, ma non saprei spiegare come.

Mi vergognavo soprattutto di fronte ai “grandi”, ma la cosa poi si è estesa ai coetanei, ai tempi delle medie. I terribili tempi delle medie, quando non sei più una bambina ma non ancora una ragazza e non riesci a trovarti un senso. Vedi il tuo corpo mutare, non appartenerti più, non rispecchiare più quella che eri fino a pochi istanti prima… Va beh… Dov’ero? Ah. Mi vergognavo soprattutto con gli adulti e quella volta in cui una bambina un po’ più grande di me mi ha invitata a mangiare il gelato, e la nonna mi ha dato il permesso e mille lire per comprarlo, arrivate al bar la mia amica ha preso il suo gelato e io no, perché mi vergognavo. E mi vergognavo tanto che ho ugualmente dato il mio soldo al gelataio, che mi sembrava ordinarmelo in modo impellente. Non che sapessi cosa significasse “impellente”, né di certo sentivo ronzare quel vocabolo nella mia testa, ma la sensazione era quella. Invece poi quel signore minaccioso non l’ha neanche voluto il mio soldo, perché non avevo comprato niente.

Quando ero piccola avevo anche paura, ma avere paura era diverso. Non era il timore del timido che mi imponeva di nascondermi al mondo senza mangiare il mio gelato. Era proprio terrore. Terrore che mi accadesse qualcosa o terrore degli altri. Ora che sono grande capisco che non avevo nulla da temere, protetta e al caldo nella mia infanzia a forma di conchiglia; e capisco anche che il problema, l’unico, era sempre lei: mia madre.

Mia madre ha la capacità di amplificare con un enorme megafono tutto ciò che dice e quando ero piccola le sue altisonanti parole finivano sempre a rimbombare dentro la mia testa, senza più riuscire ad uscirne, come una falena impazzita contro le pareti della lampada che l’ha attirata e la tiene prigioniera. Il guaio era che io a mia madre ho sempre creduto, ho continuato a vederla come un’indiscussa autorità aristotelica fin oltre i vent’anni. Ma ritorniamo all’infanzia…

Correvano gli anni ’80 e l’AIDS era lo spauracchio preferito dai telegiornali. Una volta le mie orecchie innocenti hanno involontariamente captato la notizia di un pomodoro infilzato da una siringa, con l’inevitabile chiosa di mia madre e le sue parole che non ricordo ma di sicuro efficaci, perché quella notte mi sono sognata la siepe del giardino piena di siringhe! Da quella volta mi è sembrato che al telegiornale si parlasse solo di drogati ed ero convinta che tutti i ragazzi fossero dei drogati e quando per strada ne incrociavo qualcuno, anche se ero con i miei genitori, mi scostavo e contorcevo per passargli il più possibile a distanza, nel timore che quello estraesse di tasca una siringa e mi infilzasse! A tradimento.

Ma l’episodio “migliore” doveva ancora arrivare… e iniziava a prepararsi quella sera che – sempre a causa del tg delle 20 – mia madre ha tirato fuori la sua bella frase ad effetto, con il solito effetto terrorizzante solo su di me: “Nel ’90 ci sarà il boom dell’AIDS, tutti saremo contagiati!”. Anni dopo, la sera di Capodanno del 1990, scattata la mezzanotte io ero in attesa dell’incombente contagio, di veder comparire all’improvviso i sintomi dell’AIDS su tutto il mio corpo…