Negli anni Ottanta per andare in vacanza ci portavamo la casa. L’albergo era una cosa di lusso, per ricchi; noi andavamo in villeggiatura, prendendo in affitto un appartamento accuratamente scelto dalla mamma con non so davvero quale strumento, visto che internet non esisteva, né era uso rivolgersi a un’agenzia viaggi.
La partenza iniziava la sera prima, quando il papà “smadonnava” per caricare la macchina, una indimenticata 127 bianca, che, non essendo molto spaziosa, per poter trasportare tutte le cose indispensabili preparate dalla mamma e dalla nonna doveva essere munita di un portapacchi. Il portapacchi negli anni Ottanta era – come si dice oggi – un must, mentre ora lo vediamo traballare soltanto sulle auto un po’ malmesse dei migranti arrivati da poco.
In vacanza si andava in montagna, ovvio, perché di rendere felici i bambini negli anni Ottanta non se ne parlava nemmeno. Oltre alle valigie con i vestiti, i bagagli strettamente necessari, in ordine di importanza, erano:
– cuscino della nonna altrimenti non riusciva a dormire;
– lenzuola perché non è igienico dormire in quelle degli altri;
– televisore perché pare che in montagna non l’avessero ancora scoperto;
– pentolame vario (che magari in montagna non si usava o era troppo rudimentale…).
Quando la nonna fece il grande acquisto (una piccola lavatrice da viaggio, di capienza infinita) la gerarchia dei bagagli subì un drastico riordino. In tutto questo cumulo infinito e sovrabbondante di cose, io e mio fratello avevamo diritto ad un solo, minuscolo zainetto per gli effetti personali: compiti delle vacanze e, se restava spazio, qualche inseparabile, triste giocattolo…
Con il portapacchi l’altezza della 127 lievitava, fin quasi a raddoppiare, ma al raddoppiare dell’altezza dimezzava la velocità, secondo una legge di proporzionalità inversa che al liceo avrei poi imparato a scrivere così: v = k/h, con k che mi è uscito uguale a 100 e, oggi come ai tempi del liceo, non so se sia giusto ma mi accontento, perché sono comunque in possesso di un numero da scrivere e non lascio in bianco la risposta. La legge oraria del moto (né rettilineo né, soprattutto, uniforme) della 127 di mia madre non è mai stata studiata da nessun fisico di riguardo, sebbene – a mio modesto parere – avrebbe potuto dare un valido contributo alla ricerca, smentendo una lunga serie di leggi fisiche ritenute, fino a quel momento, assolutamente valide.
Per percorrere meno di 80 km impiegavamo ore e a noi bambini il viaggio sembrava davvero lunghissimo, stretti e pigiati com’eravamo in quello scatolino! Stavamo solo andando in qualche valle sperduta e inutile in provincia di Bergamo, ma la sensazione era di vivere un’incredibile avventura.
I miei alunni oggi vanno in vacanza a Sharm el Sheik comodamente seduti in aereo e se raccontassi le peripezie superate alla loro età per raggiungere luoghi sconosciuti e anonimi, non mi crederebbero.
Durante il viaggio, rumori varii e inintelligibili mi facevano temere che avessimo perso qualcosa per strada, malauguratamente staccatosi dal portapacchi, e che dovessimo scendere a raccattare i pezzi sparsi ovunque, facendo lo slalom tra le altre macchine. Così ogni tanto mi giravo dietro a controllare che tutto andasse bene, ma, contro ogni più nera e logica aspettativa, il portapacchi era ancora sopra le nostre teste, al suo posto, ben saldo.
Quando incomprensibilmente si giungeva in prossimità del traguardo, la 127 aveva un sussulto: forse un sospiro di sollievo, o più probabilmente un rantolo, e, arrancando intrepida – e incredula, muoveva gli ultimi passi, per poi cadere svenuta e giacere, finalmente inerte, fino all’indomani. L’indomani mia madre l’avrebbe riesumata, e con noi e la nonna a bordo la mitica 127 avrebbe ripreso a sfrecciare libera e inarrestabile per le valli bergamasche, con in testa il portapacchi vuoto e leggerissimo, a mo’ di cappello o addirittura di foulard…