C’è stato un tempo in cui gli uomini avevano i capelli più lunghi delle donne. O meglio: un tempo in cui i ragazzi amavano portare i capelli lunghi, mentre le ragazze li tagliavano corti, “alla maschietto”. Un tempo in cui le gonne si accorciarono all’improvviso (con grande scandalo di mamme e nonne) e un tempo successivo in cui il reggiseno era meglio bruciarlo. Un tempo in cui i pantaloni si allargavano progressivamente verso il fondo e le gonne tornarono ad allungarsi o a riempirsi di fiori. Un tempo, insomma, in cui i giovani si vestivano così:
I miei genitori nei primissimi anni Settanta (album di famiglia).
Eccoli, i miei genitori, fissati per sempre negli anni Settanta. Pantaloni a zampa e zeppe improponibili. Aria anticonformista e un mondo intero spalancato davanti a sé. Peccato che in questa foto mio padre avesse già tagliato i capelli, che prima gli arrivavano ben oltre metà schiena. Ma che fine hanno fatto quei due? Dove li hanno nascosti i miei genitori, dove li tengono sequestrati? Forse nei loro armadi ricolmi di giacche e cravatte, di tailleurs e scarpe coi tacchi… “Bisogna saper scegliere in tempo / non arrivarci per contrarietà…”, cantava Guccini in quegli anni; e così anche i miei genitori hanno voltato pagina. Altri invece non hanno voluto tradire quel modo di essere, incuranti dei tempi che cambiano e chiedono di adeguarsi. Qualcuno ci è rimasto dentro a quel periodo, ci si è attaccato con troppa nostalgia. Qualcun altro ha saputo portarselo dietro, senza troppi pensieri e paranoie, senza fare finta che non fosse cambiato niente. E questo è l’Enrico.
L’Enrico (lo so, lo so, l’articolo così non va bene… ma a noi lombardi ci piace proprio metterlo davanti ai nomi quando raccontiamo!) è uno degli amici storici di mio padre, uno dei pochi amici o conoscenti dei miei genitori che abbiano un significato. Stranamente non era della compagnia che mio padre frequentava da ragazzo (la compagnia di mio padre doveva essere allucinante e la cosa più allucinante è che da quella compagnia un giorno è uscito uno che si è fatto missionario…); i due si erano inaspettatamente conosciuti andando a pescare.
L’Enrico era veramente un figo (non nel banale senso estetico del termine): alto, magrissimo, bianchissimo, trasandatissimo e con quei capelli lunghi e mossi che neanche Jimmy Page e Robert Plant. Vestito sempre uguale, jeans e sandali, suonava la batteria e questo bastava ad incantarmi. Per la verità non osavo parlargli molto e lui dal canto suo contribuiva lasciandomi stare, senza quegli inutili e insopportabili complimenti che si fanno ai bambini; ed io apprezzavo. Mio padre non pensi che avevo una cotta per l’Enrico: l’amore è cosa laica e profana e l’Enrico mi ispirava un sacro timore reverenziale, ma mi piaceva, soprattutto perché era veramente “scazzatissimo”, come avrei imparato a dire da ragazzina.
L’Enrico faceva l’ambulante al mercato e così, senza troppe pretese, si manteneva. Non era certo il buon partito che ogni madre desideri per la propria figliola e infatti l’Enrico conviveva, altra scelta che lo distingueva dalla massa omologata e borghese (anch’io oggi convivo, ma vuoi mettere quando la convivenza era davvero un marchio sociale o sinonimo di peccato?). Una sera credo di essere stata a casa sua. Ricordo l’Enrico e la sua donna seduti sul divano, aria scazzata come sempre, e la mitica batteria. O forse eravamo nel magazzino dove stava la merce del mercato, ma non credo che casa e magazzino si distinguessero nettamente per la filosofia dell’Enrico…
La bancarella dell’Enrico al mercato era la più scarna, disadorna, meno invitante che abbia mai visto. E l’Enrico, a differenza degli altri commercianti, non diceva una parola, se ne stava seduto per i fatti suoi senza rompere le scatole a nessuno. Quando qualcuno gli chiedeva qualcosa, si alzava e mostrava l’articolo desiderato senza troppi fronzoli o commenti. Credo di non aver mai capito cosa vendesse esattamente l’Enrico, o, più che altro, non saprei dire cosa non vendeva. Sulla sua bancarella c’era di tutto, disposto senza criterio alcuno. Ma qualunque cosa servisse, l’Enrico ce l’aveva. Bisogno di una scopa? L’Enrico ne ha di tutti i tipi. Serve un contenitore di una certa forma per quella cosa? L’Enrico ce l’ha. I lumini per il cimitero? Ha anche quelli. Devi lavarti, urge del sapone? L’Enrico ha il sapone (e anche il portasapone, volendo). L’Enrico inoltre – e soprattutto, per me che ero una bambina – aveva i giocattoli, e che giocattoli! Una volta a Natale mi regalò il gioco da tavola con cui per anni feci invidia a tutte le mie amiche: “La reginetta del ballo”, il gioco meno femminista che ci sia, ma poi si rifece con un cicciobello nativo americano, decisamente più nel suo stile (altra chicca che io sola potevo vantare). Appena diventai un po’ più grande e me ne andavo a zonzo per la città da sola, se c’era qualcosa da comprare di non catalogabile in nessuna categoria fino allora conosciuta, la mamma mi mandava a prenderla dall’Enrico.
Oggi non so che fine abbia fatto l’Enrico, se sia ancora lì, nello stesso posto di sempre al mercato, o sia invece andato in pensione; anche se la parola pensione ad uno come lui non si addice per niente e non certo perché abbia mai incarnato il tipico lombardo che lavora e fa del lavoro il proprio orgoglio sociale. Quel che è certo è che qualche anno fa, quando sono andata via di casa, la sua bancarella c’era ancora e quelle poche cose che la mamma e la nonna non avevano accumulato per me in decenni di raccolta punti del supermercato (piccola postilla: mi hanno comprato la biancheria di dote che facevo le medie…) mio padre le ha prese dall’Enrico. Scopa, imbuto, pestacarne e il pentolino dell’unica dimensione che mi mancava provengono dall’Enrico. Ed anche altre cose che credo di non avere mai utilizzato, tipo il mattarello e la spazzola per raccogliere le briciole dal tavolo azzurra come la mia cucina.
L’Enrico non è il nostalgico trapiantato dagli anni Settanta, disadattato nel mondo d’oggi. È uno che è rimasto o è cambiato come voleva lui, senza rendere conto alle convenzioni sociali o alle aspettative altrui. Mi piacerebbe farci una chiacchierata con l’Enrico. Chiedergli cosa suonava, che musica ascoltava. Se stava coi Beatles o con gli Stones, coi Led Zeppelin o coi Deep Purple. Se gli piacevano i cantautori impegnati, se la pensava come loro. Se è mai stato a un concerto di Guccini (e magari andarci insieme). Vedere se l’idea che mi ero costruita nelle mie fantasie di bambina si avvicinasse alla realtà o fosse solo un film, uno dei tanti che giravo nella mia mente e che ora mi diverto a proiettare…