Caro Faber

Caro Faber,
ti ho incontrato tardi nella mia vita. Ti ha portato l’università, insieme ad altri cantautori che prima semplicemente ignoravo. Però ricordo il giorno della tua morte, la notizia al telegiornale, come qualcosa che ti colpisce senza una ragione. Conoscevo diverse tue canzoni per averle sentite, mai ascoltate. La prima volta che ti ascoltai non eri nemmeno tu a cantare, ma un altro che ti conosceva e amava da molto. Tuttavia io sentii solo te nel cuore impazzito del malato di cuore e anche il mio cuore stordì e ora no, non ricordo se fu troppo sgomento o troppo felice…

Cominciai a cercarti, e fu facile in verità trovarti dappertutto: nella terra di Liguria che già era mia e con te la scoprivo più ricca, di Mediterraneo e di poesia…

Nella storia triste di quella ragazzina di Brescia colpevole di bellezza, che come le più belle cose visse solo un giorno come le rose… Non ho mai sopportato l’insulto alle donne, il solo a non avere un corrispettivo maschile; solo tu riuscivi a dirlo con rispetto, a non farlo essere un insulto…

Ti ho trovato nel cristianesimo che avevo abbandonato, ma che tu hai riportato con il suo vero messaggio di pietà che non cede al rancore:

Nella delicatezza di un gesto: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte… Nell’umanità di Maria, di cui porto il nome dietro al mio: gioia e dolore hanno il confine incerto nella stagione che illumina il viso…

Nella libertà, nella lotta, nella giustizia:

Nella poesia che amo, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, e io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. E soprattutto ti ho trovato in tutte le anime salve in volo per il mondo:

Grazie, Faber…

Quando il Tegolino era quadrato

Ho iniziato il liceo nei primi anni Novanta. A scuola andavo a piedi, anche se non era vicinissima a casa. Credo che solo le mie compagne che erano andate in collegio si facessero accompagnare; tutti si arrangiavano da soli, coi mezzi, in bici, in motorino; qualcuno in quinta veniva in macchina, ma solo al sabato quando i genitori non andavano al lavoro.
In classe ci passavamo i bigliettini, per copiare nelle verifiche o più spesso per chiacchierare durante le lezioni. Si chiacchierava rispettando la grammatica e la punteggiatura e non ci facevamo mai beccare. Io spesso invece di prendere appunti scrivevo: lettere e pensieri. A volte era la lezione a ispirarmi e gli appunti a poco a poco svanivano, mutavano e alla fine rimaneva una storia o una poesia.
Nessuno rimaneva in classe all’intervallo: si correva fuori, richiamati dalla vita che animava i corridoi, a guardare i ragazzi carini, a cercare gli amici delle altre classi per mostrare a tutti quanta gente si conosceva. La focaccia costava 500 lire, 800 con le olive e la pizzetta 1000.
C’erano le leggende metropolitane, come quella sul cantante degli Smashing Pumpkins, che da bambino faceva il fratello di Vicky nel telefilm della bambina robot. Tutti lo sapevano e lo raccontavano per esibire le proprie conoscenze in quello che ritenevamo il campo più nobile: la musica, che si conosceva lentamente, un cd alla volta. Ci abbiamo creduto a lungo, per vent’anni, fino a quando internet, con il suo arrivo, ci ha portato via una delle leggende più nostre.

Il Tegolino era ancora quadrato e noi tornavamo da scuola senza fretta, studiando il modo migliore per confessare l’ennesimo 4 e mezzo in matematica.
Passavamo tanto tempo al telefono, anche noi, a parlare per ore con le amiche invece di studiare. Ci eravamo appena viste, ma il richiamo era troppo forte. Si stava seduti per terra, fino all’arrivo del cordless che ci ha permesso di iniziare a nasconderci. Solo il duplex poteva fermarci e a casa mia il duplex c’era eccome e così la nonna poteva controllarmi. Le bastava alzare la cornetta e non sentire niente per capire e poi apriva la porta e mi urlava dal fondo delle scale e io facevo finta di mettere giù ma dopo qualche minuto si ricominciava. Fino alle sei, quando finalmente si usciva. Nessun messaggio per mettersi d’accordo: si andava là, al solito posto – il nostro – dove c’era la compagnia e qualcuno si trovava sempre. Quello era il momento atteso per tutto il lungo giorno.

Si tornava a casa per l’ora di cena e dopo mangiato l’attesa ricominciava e nell’attesa passavamo il tempo più bello, quello che riempivamo con la musica, che ci faceva immaginare, sognare, e i sogni forse sarebbero diventati realtà il giorno successivo, quando tutto sarebbe ripreso nuovamente con i suoi riti, e l’età più bella non poteva finire mai…

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Vicky e il fratello Jamie nel telefilm “Super Vicky”.

La musica ai miei tempi

La musica ai miei tempi non usciva da uno schermo. Era scritta sopra un nastro, che a volte si inceppava, aggrovigliava e prima che fosse troppo tardi dovevi agire con cautela, con l’aiuto di una Bic. La musica ai miei tempi era annunciata da un rumore… il leggero e morbido graffio della puntina di diamante, la cadenza goffa e lenta del nastro che si avvia. La poesia ha iniziato a perdersi con l’arrivo dei CD.

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La musica ai miei tempi si comprava. Qualche volta, mica sempre, ché dischi e cassette costavano e allora ci si divedeva: tu compri questo, io quell’altro e poi ce li registriamo. Io il registratore bicassette all’inizio non l’avevo e con la bicicletta andavo a casa delle amiche. La musica ai miei tempi si doveva guadagnare. Coi risparmi delle mance, con le conoscenze giuste, con i pomeriggi infiniti alla radio e il dito pronto sul tasto “Rec”: prima o poi la canzone amata arrivava e tu dovevi esserci, decisa a schiacciare in quell’esatto istante. La musica ai miei tempi si aspettava…

La musica ai miei tempi seguiva il ritmo lento della mano, che con pazienza e fatica trascriveva le canzoni sul diario, o su foglietti sparsi da custodire gelosamente. E gli ascolti ripetuti per capire cosa dicessero! Non solo gli stranieri, anche gli italiani che si mangiavano le parole. Si restava settimane o mesi interi con dubbi irrisolti, e le dispute infinite a riempire le serate con gli amici…

La musica ai miei tempi non era troppa, debordante. Non c’erano motori di ricerca e canali dove digitare un titolo e prima ancora che avessi finito la canzone era iniziata. La musica non era pronta al nostro uso e consumo acritico. Era forse più sincera, era quella che avevamo scelto, che ci somigliava. La musica era anche nostalgia.

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La musica ai miei tempi era appartenenza. A un gruppo, a una fede, a un sogno di rock da cui non ti potevi risvegliare. Io quelli che un giorno si sono svegliati non li capisco. La famiglia, il lavoro e tutto il resto non valgono il risveglio, i dischi in cantina o addirittura venduti.

La musica era la sola compagna che avevamo, orfani delle cose che ci sono oggi e delle idee di chi ci aveva preceduti…

L’uomo dagli occhi diversi

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…e così anche lui ci ha lasciati. Il duca bianco. L’alieno. L’uomo dagli occhi diversi: diversi tra loro, diversi da tutti gli altri.

Come si dice in questi casi: era ancora giovane. Aveva appena compiuto gli anni, tre giorni fa, e oggi Wikipedia ha aggiornato la sua pagina, coniugando i verbi al passato. Ma uno come lui non passa. Perché anche se avesse avuto più di cento anni, sarebbe stato giovane comunque. Perché uno come lui non può invecchiare. Perché uno come lui continua ad averne di cose da dire, da cantare. E forse, sognando un po’, a un suo concerto avrei anche fatto in tempo ad andarci, un giorno. Ora invece non posso più sognare. E mi dispiace…

Ciao David… ora sei davvero polvere di stelle…

Il CD rotondo

Lavorare in un negozio di musica ti segna. Irreparabilmente. Lavorare in un negozio di musica di provincia ti fa perdere la fiducia nel genere umano, o, se non altro, nel suo senso estetico. La gamma delle richieste spazia infatti dalla Deejay Parade alla compilation di Sanremo, da One Shot ’80 al disco del momento e oltre, fino a “quella canzone là che si sente alla radio”, di cui tu, negoziante, devi conoscere tutto, dal titolo alla casa di produzione, alle curiosità morbose intorno a chi la canta.

Se qualcuno si domanda come mai i negozi di musica siano oggi un lontano ricordo, un elemento d’arredo urbano tra il vintage e il sito archeologico, non dia la colpa ad internet e alle nuove tecnologie, alla musica scaricata illegalmente con i legalissimi strumenti che consentono di farlo. Se la prenda piuttosto con Gigi D’Alessio e Laura Pausini, con le frasi fatte apposta per essere trascritte sulle Smemo, con chi non distingue Bach da Chopin o da Celentano.

Tuttavia lavorare in un negozio di musica di provincia insegna molto, oltre che in ambito culturale, a livello antropologico. Le scoperte che si fanno sulla razza umana sono infinite e spiazzanti. Per esempio si può scoprire che lo strumento che tutti hanno sempre segretamente desiderato impugnare non è la chitarra di Jimi Hendrix ma il kazoo, di cui si nascondono centinaia di virtuosi tra i propri concittadini. Oppure si può imparare l’antica arte della fisiognomica, interpretando quotidianamente l’espressione di chi, varcata la soglia d’ingresso con slancio e senza salutare, chiede “Il Giornale” o “La Repubblica” o “Il Corriere della Sera”, per poi accorgersi che l’edicola è il negozio successivo…

Lavorare in un negozio di musica di provincia ha anche altri lati positivi: riuscire a rifilare Eros Ramazzotti a chi ti aveva chiesto gli Abba sono soddisfazioni, indovinare quale sia la canzone della pubblicità mimetizzata tra le quattro note biascicate dalla signora cotonata che ti mastica la cicca in faccia sono cose che aumentano l’autostima. Così gli aneddoti si accumulano e a fine settimana sono pronti per rallegrare la serata agli amici.

Un pomeriggio fa il suo ingresso in negozio l’ennesima nonna munita di bigliettino scritto dalla nipote. «Buongiorno», saluta cortesemente. «Buongiorno», ricambio altrettanto cortesemente. «Devo fare un regalo a mmia nipote che fa il compleanno». Pausa. «Ci devo rregalare u cd. Ce l’avete u cd?». Siciliana. Questa mi sa che è tosta. «Dipende… quale?», rispondo io con fare imperturbabile. «Mi hanno detto che è rrotondo. È rrotondo?». Inizio a perturbarmi… «Beh… sì. Gira. Se è rotondo, gira più facilmente». L’imbarazzo si fa palpabile, ma la signora, per mia fortuna, lo trancia di netto, tirando fuori il fantomatico bigliettino. Prende gli occhiali, se li mette e dà il bigliettino a me, che lo afferro e lo leggo – avida – come fosse il responso della Sibilla: «Lunapop o Madonna». Dubbio amletico, mi viene da pensare, e vedrai che dovrò risolverlo io… e infatti la signora mi legge nel pensiero: «Lei, che è così ggiovane, che mi consiglia?». «Quanti anni compie sua nipote?». «Quindici». «Forse i Lunapop; piacciono molto alle ragazzine». «E io ci rregalo Madonna». E regalaci un po’ quello che ti pare… ringhio tra i denti. Ma il cliente ha sempre ragione e allora afferro le chiavi e mi dirigo alle pagine attaccate al muro. Apro, agguanto l’oggetto del desiderio, richiudo e ritorno verso il bancone, ma un urlo inumano mi fa sobbalzare di mezzo metro: «Nooo! Mi hanno detto che è rrotondo! Chisto quadddrato è!». Oh mio Dio! E ora che le dico? «Ma no, signora, la confezione è quadrata, dentro è rotondo». «È ssicura?», intima lei con tono siculo-minaccioso. «Sì, glielo garantisco!». Lo aprirei per farglielo vedere, ma se poi questa non me lo compra, io non lo vendo più!

Dopo un quarto d’ora di trattative e di miei dischi personali che faccio vedere e sentire alla signora per dimostrarle la rotondità del cd, la convinco o, se non altro, riesco a liberarmene.

Caro il mio Cristoforo Colombo, se invece della regina Isabella avessi trovato questa, col cavolo che l’avresti scoperta l’America…

PS: mi scuso con gli eventuali lettori siciliani per la pessima trascrizione del loro bellissimo e musicale idioma 😉

Sguardi dall’infanzia 17: Tchaikovsky.

C’era una volta l’infanzia, altrove mitico e protetto, che faceva da sfondo e costruiva le nostre rappresentazioni del mondo. L’infanzia assumeva varie forme e quando, ogni tanto e inaspettata, prendeva quella giusta accadevano le cose più belle…

La mia infanzia a volte era a forma di tappeto persiano, caldo contro il freddo della stagione che porta il Natale, colorato contro il grigio del cielo lombardo. Sul tappeto persiano sono successe tante cose, sono nati gli amori più solidi.

Avevo sette anni ed era una buia sera d’inverno. Me ne stavo sul tappeto sotto una luce giallognola da illuminazione elettrica ed ancora non sapevo. Oggi, guardando fuori dal tappeto, mi dico che invece avrei potuto accorgermi. Con me c’era qualcosa di nuovo, portato dalla mamma che ogni tanto si lasciava sedurre dall’edicola e dai suoi colori, ed era il mio primo C’era una volta…. Era un numero di Natale e insieme alle storie di ambientazione natalizia c’erano le classiche avventure del gatto Gobbolino ‒ il gatto di una strega ‒ e la fiaba che in breve tempo sarebbe diventata la mia preferita: Clara e lo Schiaccianoci.

Tutti conoscono la storia dei due bambini che, alla vigilia di Natale, sono in attesa dello zio che arriverà portando i suoi regali, dei giocattoli bellissimi che solo lui riesce a trovare. La piccola Clara non immagina che questa volta riceverà qualcosa di un po’ curioso come regalo per una bambina: uno schiaccianoci. Non so quante altre bambine abbiano ricevuto in dono uno schiaccianoci, ma se ce n’era almeno una a condividere con Clara questa strana sorte, ero io. Il mio schiaccianoci era di legno, in fattezze semiumane, un faccino di bambolina con un fazzoletto rosso in testa, avvitato sulla capsula in cui inserire le noci. Quando lo ricevetti pensai subito a Clara. Tuttavia non fu questo a legarmi a lei, e nemmeno la storia in sé con lo schiaccianoci che cresceva diventando un principe, la fata Prugna Candita e tutto il resto. Io ero catturata dalla musica. Mi bastava la musica per rimanere seduta sul grande tappeto del salotto ad ascoltare e riascoltare la mia fiaba, riavvolgendo il nastro in continuazione. La mamma mi diceva che era una musica famosa, scritta da un grande compositore, e questo mi affascinava ancora di più.

Riascoltando oggi la fiaba, scopro che molti particolari li avevo dimenticati, come il nome dello zio, il fatto che fosse un fabbricante di giocattoli, la gelosia del fratello di Clara e persino la conclusione. Ma non ho scordato nessuna di quelle note leggere e delicate, che sostengono l’attesa della bambina, la fanno addormentare e poi ridere felice mentre i suoi dolci preferiti danzano per lei.

Poco distante, dentro un’altra infanzia magica, un bambino un po’ più grande giocava ai videogiochi. Erano gli anni del Commodore 64 e delle cassette a nastro. Si compravano in edicola, come il C’era una volta…, e bastava il televisore per divertirsi all’infinito. La grafica era un po’ rozza, ma dietro i personaggi che si spostavano “a scatti” e alle scarne scenografie, si muovevano storie quasi poetiche. Il bambino che non conoscevo giocava a Loom, in italiano “telaio”. Era la storia di Bobbin, un ragazzino della gilda dei tessitori che, dopo essere rimasto solo, deve viaggiare per il mondo imparando le arti magiche e conoscendo le altre gilde per scongiurare l’arrivo del Caos. Mentre la mia Clara sognava tra le note dello Schiaccianoci, il protagonista del videogioco si muoveva su quelle del Lago dei cigni.

Anche il bambino sconosciuto era catturato dalla melodia e chiedeva al padre che musica fosse. Il padre rispondeva che si trattava di un grande compositore e così il bambino lasciava il videogioco per scendere dal nonno ed ascoltare Tchaikovsky. Il nonno era un appassionato di musica ed aveva una stanza piena di dischi, tutti catalogati su vecchie rubriche del telefono. Era felice quando il nipotino voleva ascoltare la musica insieme a lui, sul suo giradischi che nella via e tra i parenti era quasi un’attrazione. E lo era ancora di più quando, una manciata d’anni più tardi, aiutava il suo ragazzo a preparare l’esame di storia delle musica per l’università.

Forse era già scritto da qualche parte che i due bambini dovessero incontrarsi. Sarebbe accaduto un giorno inatteso, complici la musica e altre passioni, che dopo molti anni li avrebbero portati qui, sul divano di casa, a raccontarsi di Tchaikovsky e di quel mondo lontano, dove la musica e il nonno li proteggevano fuori dal tappeto…

Innamorarsi da lontano

Mi innamoravo spesso. Ogni giorno. Uscivo di casa e accadeva. Andando a scuola, durante le lezioni, all’uscita. E poi nel pomeriggio. Quante volte nel pomeriggio! Poteva bastarmi un niente, un dettaglio, un particolare collocato bene (o male); e ci cascavo. Ci ero dentro, insomma.

Una volta era a scuola, un’altra in vacanza, un’altra ancora per la strada o in metropolitana. Era così facile. Una volta accadde per un vicolo, me lo ricordo ancora. Milano, zona Navigli. Tardo pomeriggio in giro per gli ateliers degli artisti. Sarebbe stato più logico che capitasse lì, dentro un atelier, e invece no: accadde dopo, fuori. Quel vicolo ben curato, in disparte, lontano dalla Città. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo, nelle vecchie corti dove sono nati e cresciuti tutti i miei antenati. Fu proprio quella sensazione di sospensione a farmici cadere. Se poi aggiungiamo che era novembre e il tramonto stava affrettandosi e all’improvviso, sulla via del ritorno, un suono di pianoforte mi chiamò da qualche finestra nascosta… gli ingredienti c’erano tutti.

Con la musica è accaduto spesso, troppe volte forse. Bastavano poche note ed era fatta. Soprattutto se erano note di pianoforte. Chopin, Tori Amos, la colonna sonora di un film francese. A volte era una sola battuta a farmi precipitare. Sono state le volte più belle.

Ricordo tutte le volte che mi è successo a scuola, durante una lezione. In quel caso era una parola, languida, musicale. Spesso latina, o inglese: complice l’esotismo della lontananza. Una volta mi accadde con tears (lacrime): suonava così dolce… Ma poteva succedere anche con parole italiane, consuete. Ricordo un’ora di Dante in quarta liceo. L’insegnante spiegava uno dei primi canti del Purgatorio e ripeteva continuamente tre parole, tre verbi: velare, svelare, rivelare. Dal mio banco li presi in mano, e poco dopo erano una poesia. D’amore.

Un’altra volta invece fu un colore. Viaggiavo in macchina, verso la Val di Fiemme. Certe cose possono accadere solo al crepuscolo e solo in condizioni particolari, come quella volta. Me n’ero accorta subito, ancora a casa, guardando dalla finestra. Poi, una volta fuori, fu tutto chiaro. Le montagne erano rosa, completamente rosa. Ma quella volta viaggiavo in direzione contraria, le montagne alle spalle. Continuavo a girarmi indietro e gradualmente lo vedevo allontanarsi e mutare. E soffrivo. Pur sapendo che quel suo mutare era inevitabile e parte della sua bellezza.

La volta che fu per sempre accadde qui, tra le mura di casa. E fu un libro, anzi una frase. Certi amori hanno bisogno di così poco… ma durano a lungo, tutta una vita. Ero sola e intorno a me c’era il silenzio. Si avvicinava l’ora di cena, ma nessuno era tornato. Forse fu la circostanza ‒ il fatto di ritrovarmi con me, attenta ad ogni pulsazione interiore ‒ che aiutò la frase ad entrarmi dentro e a non andarsene più. Quante volte l’ho trascritta su un diario o alla fine di una lettera d’amore…

Anche oggi, a dispetto dell’età, continuo a innamorarmi. Mi basta sempre meno. Qualche giorno fa erano le pannocchie non ancora raccolte che mi accompagnavano al lavoro. Ieri la giornata grigia. Oggi è Lisbona. Mi innamoro persino da lontano… di quello che non c’è e che non conosco. Dopo tanti anni non ho ancora capito come accade, ma accade e non voglio smettere

Quando bastava una canzone

Dal mio diario, venerdì 2 maggio 2014

Dove sono finiti i tempi in cui bastava una canzone?

Quando non dormire la notte non era poi un problema perché al mattino dovevi solo andare a scuola? Quando ci bastava stare chiuse in camera di qualcuna o sui gradini all’oratorio a parlare per ore solo di uno sguardo non ricambiato? Quando tutto quello che ci veniva richiesto si esauriva, in fondo, nell’imparare qualche capitolo di storia? Quando sono finiti quei tempi spensierati?

Provo a tracciare una linea che sia netta tra un certo periodo e adesso. Superfluo dire che non ci riesco. Eppure c’è stato un giorno in cui è cambiato tutto. Un giorno in cui, quando le cose non sono andate per il verso giusto, non ho pensato di cercare una cassetta, di accendere lo stereo. Un giorno in cui, se l’avessi fatto, non sarebbe servito a niente.

Andavo al liceo e l’unica preoccupazione era di sentire il mio nome tra quello degli interrogati. Camminavo a passo spedito verso la scuola pensando che, come al solito, non sapevo niente, che se mi avessero beccata quel giorno sarebbe andata proprio male, avrei fatto una figura pessima, sarebbe stato l’inizio della fine. Poi non mi beccavano e il giorno seguente ripercorrevo la stessa strada ripensando esattamente le stesse cose. Poi arrivava il pomeriggio, e la mattina e le interrogazioni sembravano lontanissime e la cosa peggiore che sarebbe potuta capitarmi era che il tipo che mi piaceva non mi guardasse. E quando capitava ed era veramente catastrofico, tipo che dentro di me si apriva una voragine di vuoto nerissimo e profondissimo, bastava una canzone ed era di nuovo tutto a posto. Qual era quella canzone che andava bene in ogni momento, che funzionava sempre? Quella canzone che oggi nemmeno ricordo…

(lo ritrovo oggi sul mio diario e mi rendo conto di quello che ho scritto, oltre che di quello che ascoltavo un tempo per tirarmi su…)

Senza titolo (ode all’Enrico)

C’è stato un tempo in cui gli uomini avevano i capelli più lunghi delle donne. O meglio: un tempo in cui i ragazzi amavano portare i capelli lunghi, mentre le ragazze li tagliavano corti, “alla maschietto”. Un tempo in cui le gonne si accorciarono all’improvviso (con grande scandalo di mamme e nonne) e un tempo successivo in cui il reggiseno era meglio bruciarlo. Un tempo in cui i pantaloni si allargavano progressivamente verso il fondo e le gonne tornarono ad allungarsi o a riempirsi di fiori. Un tempo, insomma, in cui i giovani si vestivano così:

I miei genitori nei primissimi anni Settanta (album di famiglia).

I miei genitori nei primissimi anni Settanta (album di famiglia).

Eccoli, i miei genitori, fissati per sempre negli anni Settanta. Pantaloni a zampa e zeppe improponibili. Aria anticonformista e un mondo intero spalancato davanti a sé. Peccato che in questa foto mio padre avesse già tagliato i capelli, che prima gli arrivavano ben oltre metà schiena. Ma che fine hanno fatto quei due? Dove li hanno nascosti i miei genitori, dove li tengono sequestrati? Forse nei loro armadi ricolmi di giacche e cravatte, di tailleurs e scarpe coi tacchi… “Bisogna saper scegliere in tempo / non arrivarci per contrarietà…”, cantava Guccini in quegli anni; e così anche i miei genitori hanno voltato pagina. Altri invece non hanno voluto tradire quel modo di essere, incuranti dei tempi che cambiano e chiedono di adeguarsi. Qualcuno ci è rimasto dentro a quel periodo, ci si è attaccato con troppa nostalgia. Qualcun altro ha saputo portarselo dietro, senza troppi pensieri e paranoie, senza fare finta che non fosse cambiato niente. E questo è l’Enrico.

L’Enrico (lo so, lo so, l’articolo così non va bene… ma a noi lombardi ci piace proprio metterlo davanti ai nomi quando raccontiamo!) è uno degli amici storici di mio padre, uno dei pochi amici o conoscenti dei miei genitori che abbiano un significato. Stranamente non era della compagnia che mio padre frequentava da ragazzo (la compagnia di mio padre doveva essere allucinante e la cosa più allucinante è che da quella compagnia un giorno è uscito uno che si è fatto missionario…); i due si erano inaspettatamente conosciuti andando a pescare.

L’Enrico era veramente un figo (non nel banale senso estetico del termine): alto, magrissimo, bianchissimo, trasandatissimo e con quei capelli lunghi e mossi che neanche Jimmy Page e Robert Plant. Vestito sempre uguale, jeans e sandali, suonava la batteria e questo bastava ad incantarmi. Per la verità non osavo parlargli molto e lui dal canto suo contribuiva lasciandomi stare, senza quegli inutili e insopportabili complimenti che si fanno ai bambini; ed io apprezzavo. Mio padre non pensi che avevo una cotta per l’Enrico: l’amore è cosa laica e profana e l’Enrico mi ispirava un sacro timore reverenziale, ma mi piaceva, soprattutto perché era veramente “scazzatissimo”, come avrei imparato a dire da ragazzina.

L’Enrico faceva l’ambulante al mercato e così, senza troppe pretese, si manteneva. Non era certo il buon partito che ogni madre desideri per la propria figliola e infatti l’Enrico conviveva, altra scelta che lo distingueva dalla massa omologata e borghese (anch’io oggi convivo, ma vuoi mettere quando la convivenza era davvero un marchio sociale o sinonimo di peccato?). Una sera credo di essere stata a casa sua. Ricordo l’Enrico e la sua donna seduti sul divano, aria scazzata come sempre, e la mitica batteria. O forse eravamo nel magazzino dove stava la merce del mercato, ma non credo che casa e magazzino si distinguessero nettamente per la filosofia dell’Enrico…

La bancarella dell’Enrico al mercato era la più scarna, disadorna, meno invitante che abbia mai visto. E l’Enrico, a differenza degli altri commercianti, non diceva una parola, se ne stava seduto per i fatti suoi senza rompere le scatole a nessuno. Quando qualcuno gli chiedeva qualcosa, si alzava e mostrava l’articolo desiderato senza troppi fronzoli o commenti. Credo di non aver mai capito cosa vendesse esattamente l’Enrico, o, più che altro, non saprei dire cosa non vendeva. Sulla sua bancarella c’era di tutto, disposto senza criterio alcuno. Ma qualunque cosa servisse, l’Enrico ce l’aveva. Bisogno di una scopa? L’Enrico ne ha di tutti i tipi. Serve un contenitore di una certa forma per quella cosa? L’Enrico ce l’ha. I lumini per il cimitero? Ha anche quelli. Devi lavarti, urge del sapone? L’Enrico ha il sapone (e anche il portasapone, volendo). L’Enrico inoltre – e soprattutto, per me che ero una bambina – aveva i giocattoli, e che giocattoli! Una volta a Natale mi regalò il gioco da tavola con cui per anni feci invidia a tutte le mie amiche: “La reginetta del ballo”, il gioco meno femminista che ci sia, ma poi si rifece con un cicciobello nativo americano, decisamente più nel suo stile (altra chicca che io sola potevo vantare). Appena diventai un po’ più grande e me ne andavo a zonzo per la città da sola, se c’era qualcosa da comprare di non catalogabile in nessuna categoria fino allora conosciuta, la mamma mi mandava a prenderla dall’Enrico.  

Oggi non so che fine abbia fatto l’Enrico, se sia ancora lì, nello stesso posto di sempre al mercato, o sia invece andato in pensione; anche se la parola pensione ad uno come lui non si addice per niente e non certo perché abbia mai incarnato il tipico lombardo che lavora e fa del lavoro il proprio orgoglio sociale. Quel che è certo è che qualche anno fa, quando sono andata via di casa, la sua bancarella c’era ancora e quelle poche cose che la mamma e la nonna non avevano accumulato per me in decenni di raccolta punti del supermercato (piccola postilla: mi hanno comprato la biancheria di dote che facevo le medie…) mio padre le ha prese dall’Enrico. Scopa, imbuto, pestacarne e il pentolino dell’unica dimensione che mi mancava provengono dall’Enrico. Ed anche altre cose che credo di non avere mai utilizzato, tipo il mattarello e la spazzola per raccogliere le briciole dal tavolo azzurra come la mia cucina.

L’Enrico non è il nostalgico trapiantato dagli anni Settanta, disadattato nel mondo d’oggi. È uno che è rimasto o è cambiato come voleva lui, senza rendere conto alle convenzioni sociali o alle aspettative altrui. Mi piacerebbe farci una chiacchierata con l’Enrico. Chiedergli cosa suonava, che musica ascoltava. Se stava coi Beatles o con gli Stones, coi Led Zeppelin o coi Deep Purple. Se gli piacevano i cantautori impegnati, se la pensava come loro. Se è mai stato a un concerto di Guccini (e magari andarci insieme). Vedere se l’idea che mi ero costruita nelle mie fantasie di bambina si avvicinasse alla realtà o fosse solo un film, uno dei tanti che giravo nella mia mente e che ora mi diverto a proiettare…

Pianoforte e voce

Ho iniziato a rendermene conto intorno alle cinque del pomeriggio, quando era già ora di prepararsi. Scegliere cosa mettermi non era facile, dovendo mediare tra l’esigenza di essere comoda e la voglia di essere alla sua altezza, o per lo meno di rasentarla. Da tempo non mi capitava un’occasione simile – dico di avere un motivo per essere magnifica – e mi scoprivo del tutto inadeguata. Disperata, ho addirittura pensato di chiedere qualcosa a mia suocera, avete capito benissimo: a mia suocera, ci rendiamo conto?! Ma ho resistito e piuttosto ero pronta ad infilarmi la mia maglietta nera di Olivia, con l’immancabile commento ironico del mio compagno: “Molto femminista…”. L’unica certezza era che dovevo scegliere tra stivali o tacchi a spillo, mica potevo andare a sentire Tori Amos con le scarpe da ginnastica! Eh già… erano le cinque del pomeriggio e mancavano solo quattro ore al grande evento: stavo finalmente per sentire Tori Amos dal vivo. Non ci potevo credere!

Non ci potevo credere ma gli avvenimenti dell’ultimo periodo mi avevano impedito di gustarmi l’attesa spasmodica del momento e così mi sono ritrovata nel giusto e doveroso stato di eccitazione solo quattro ore prima del concerto, cosa che mi è sembrata alquanto irriverente. La bambina prodigio, l’adolescente geniale, la dea della musica si stava avvicinando a me ed io non me ne curavo! In ogni caso oramai me ne rendevo finalmente conto ed anche, come ogni donna, di non avere niente da mettermi. Poco importa, jeans, stivali di camoscio verdoni e la maglietta nera di Olivia: non sarà femminista ma almeno ha un po’ di paillettes e di cose sbarluccicanti. Quello che conta è lo stato interiore, anche se una donna come la Amos mette voglia di non trascurare mai la propria femminilità.

In teatro si è presentata in rosso, come mi aspettavo, con i suoi capelli bellissimi, i pantaloni di pelle e un tacco dodici che mi faceva traballare solo a vederlo. Si è seduta al suo pianoforte Bösendorfer ed ha attaccato subito, senza smettere più se non per una pausa di pochissimi minuti. Alcune canzoni le conoscevo poco, ma scoprirle dal vivo è stato magico. Mi è spiaciuto che non abbia fatto Icicle, la mia preferita in assoluto, e niente da American Doll Posse e soprattutto da Night Of Hunters, l’album del 2011 interamente costruito su brani di musica classica, da Schubert a Debussy, da Bach a Chopin, di cui ha reinventato il mio notturno preferito, in Si bemolle minore. In compenso ho sentito una magnifica Black Dove ed ho riscoperto un brano degli esordi: Silent All These Years, uno dei tanti testi drammatici della Amos fatti danzare su una melodia leggera e delicata.

Ero seduta sulla mia poltroncina in galleria e pensavo che stavo sentendo Tori Amos, che quella a pochi metri in linea d’aria da me era Tori Amos, con il suo pianoforte e la sua voce. Quasi due ore di concerto solo pianoforte e voce, ma non mancava niente. Non si sentiva l’assenza degli strumenti o della band con cui registra in sala d’incisione. La sua voce – profonda nei toni gravi, delicata e dolce negli acuti – e la voce del pianoforte dicevano tutto. Per un’autrice come la Amos la parola è innanzitutto puro suono e la sua voce un altro strumento da sovrapporre al pianoforte, creando timbri sempre diversi.

Lo spettacolo era accresciuto dal fatto che, seduta tra pianoforte e tastiera, Tori suonava sia l’uno sia l’altra, anche insieme. Non era esibizione virtuosistica, era riscoprire la voce del piano dopo qualche passaggio sulle tastiere.

La cover di Time di Tom Waits è stata splendida, anche quando Tori ha sbagliato le parole e si è messa a improvvisare cantando che ormai ha cinquant’anni e queste cose a venti non le succedevano. Ma questa signora di cinquant’anni ha la stessa carica di quand’era ragazza: in Take To The Sky con una mano batteva sulla cassa del pianoforte per scandire il tempo e con l’altra continuava ad accompagnare il pezzo; la strepitosa coda finale è stata da brividi.

Tra le meravigliose scoperte propongo due video tra quelli meglio riusciti che ho trovato su YouTube: In The Springtime Of His Voodoo e Concertina, rispettivamente da Boys For Pele (1995) e To Venus And Back (1999). La prima è un continuo cambio di ritmi e di timbri nell’uso della voce, di grande emozione ed energia; la seconda un pezzo decisamente delicato e ben eseguito, con grande intensità e partecipazione emotiva.