Lesbos

Dal blog di Pentagora:

Lesbo. Uno di quei nomi che evocano reminiscenze liceali, contengono poesia. Un luogo del passato, di quello classico e di quello di tutti. Un suono mitico, che nel mito proietta solo a sentirlo. Se poi viene pronunciato in greco… Continua a leggere → L’articolo Lesbos proviene da Il Blog di Pentagora.

via Lesbos — Il Blog di Pentagora

Occhi al cielo: per il moon day

Caro Calvino,
        non c’è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché.
        Anch’io, come altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l’immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cosa c’è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi ad un interiore equilibrio.
        […] Ora, questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio. O un nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace. È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, l’autonomia, la speranza.

Anna Maria Ortese

Cara Anna Maria Ortese,
        guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di “strumentalizzarlo” malamente, questo cielo?
        Io non voglio però esortarla all’entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell’umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d’una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.
        Quel che mi interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano. La luna, fin dall’antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose.
        Gli exploits spaziali sono diretti da persone a cui certo questo aspetto non importa, ma esse sono obbligate a valersi del lavoro di altre persone che invece si interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna. Questo qualcosa che l’uomo acquista riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell’immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva.
        Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare…

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I. Calvino, Occhi al cielo, “Corriere della Sera”, 24 dicembre 1967 (ora in Una pietra sopra, Einaudi, 1980 col titolo Il rapporto con la luna).

Pioggia di novembre

…e venga la pioggia a novembre
a lavarmi i pensieri dal fango e dal mal.

E se, e ma…
mi pare sarà…
eppure non piove e nuvole
non ne vedo di qua…
è una striscia di cielo
non diversa da prima,
solo freddo d’autunno
e bianco color di farina.

Guardo sopra al sesto piano
una goccia e poi l’altra si spiaccica in faccia,
fa un rumore di sveglia
che tintinna sul ferro
di una gronda lontana…

e viene la pioggia a lavare
le macchine in fila,
gli allarmi strillare…
e bagna le aiuole spellate,
le multe stracciate,
il cielo dei bar…

sulla strada di pietra segnata
come panforte di tagli e binari,
piove sulle varesine e gira gira
la giostra senza fine…

Cade sopra i tram che passano lenti,
di ferro e di legno pazienti,
con un occhio solo,
buoni da guardare,
dinosauri in fila ad asciugare…
piove sui pensieri dietro ai fanali
delle tangenziali…

e bagna nei cortili i gerani,
le nere ringhiere,
le lingue straniere,
i viados di Gioia,
la casbah di Buenos Aires,
le edicole accese,
le borse e le spese…

Piove sulle campane
delle pievi romane,
sulle grazie, sui ceri,
sui voti e sui desideri.

Cade sopra i piedi dei bambini
che ci sono ma non li vedi,
sugli ortomercati
dentro i fabbricati,
sopra le collette di spicci e sigarette,
su uomini e su cani
e piove sulle urla dei villani…

sul cimitero monumentale,
sugli attacchini, sugli spazzini,
sulle chiese dei filippini,
sui tavolini dei baracchini,
sui gatti tristi dentro i cortili,
sulle collane degli abusivi,
sul padiglione degli infettivi,
sopra i germani dentro i navigli…

sui treni caldi dei pendolari,
sopra i silenzi dei tassinari,
sulle africane per mezzo ai viali,
sopra i parenti negli ospedali
e piove stasera anche sul chiuso della galera…

e venga la pioggia a novembre
a lavarmi i pensieri dal fango e dal mal.

(V. Capossela, Il ballo di San Vito, 1996)

Luna calante

Non so quando abbia cominciato a calare, ma a un certo punto dev’essere successo.

L’inizio dell’università fu difficile. Ero completamente disorientata. Lettere era diversa dagli altri corsi di laurea, scelti dalle mie amiche. Non c’erano le materie del primo, del secondo anno. Potevi fare quello che volevi, darli quando volevi gli esami, che per altro sceglievi quasi sempre e nonostante fondamentali, di indirizzo e per poter insegnare quelli veramente obbligatori erano solo tre. Tutta questa libertà non era gestibile, mi agitava. Per fortuna trovai nuove lune sul mio percorso e le seguii come i naviganti con le stelle.
Storia della musica e drammaturgia musicale mi precipitarono nuovamente nel Romanticismo, tra la musica di Schubert da una parte e la follia d’amore nell’opera dell’Ottocento dall’altra. Non mi sembrava neanche di studiare: semplicemente leggevo dei libri e dei saggi meravigliosi. La luna di Schubert mi aveva riportato un Lied che avevo studiato per il corso di canto corale alla scuola di musica e che, siccome mi piaceva molto, avevo anche imparato al pianoforte: Der Leiermann (l’uomo con l’organetto). Parla di un uomo che suona la ghironda per strada nel freddo dell’inverno e non viene ascoltato da nessuno, ma lui continua ineluttabilmente a suonare.

Schubert portò anche molto altro, come le poesie su cui aveva musicato alcuni Lieder e soprattutto la “Fantasia in fa min. per pianoforte a quattro mani”, scritta per la contessina Karoline Estherázy. La luna continuava a rimanere piena…

https://www.youtube.com/watch?v=v6VK-Fl2YC4
(Dura venti minuti, ma se avete tempo, ascoltatela davvero: è unica)

La luna è tuttavia mutevole per natura e così tutto mutò, improvvisamente. Fu un libro, inaspettato, a cambiare per sempre il mio modo di vedere: L’estetica musicale, di Enrico Fubini. Avevo scoperto un modo diverso, inedito, di leggere la musica e l’arte e decisi di cambiare anch’io: e dall’indirizzo di musicologia passai a quello di estetica.

Riordino appunti e fotocopie di saggi e testi vari e vedo come il mutamento sia poi progredito con rapidità. Preparai altri esami, incontrai nuovi professori e nuovi libri e la luna iniziò ad assumere un aspetto diverso, che al liceo non volevo vedere.
Fu prima Leopardi (inaspettatamente) che mi insegnò a vedere la luna come oggetto fisico. La Storia dell’astronomia e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi ci dicono che è dalla conoscenza scientifica, salda e approfondita, che nasce l’oggetto poetico. Poi venne Calvino e con Calvino la luna non era più la stessa…

Fino a qui tuttavia la luna non ha smesso di essere presente nella mia vita, con le sue vesti sempre diverse. Quando ha cominciato a calare? Non lo so. Ma a un certo punto è successo, perché per molti anni non c’è stata. Me ne sono accorta una settimana fa, guardando la sua eclissi, e ho desiderato finalmente che tornasse…

Luna piena

…e la luna infatti, senza accorgermene, la portai con me.

Iniziava allora l’ultimo anno di liceo e diverse materie si aprirono con un argomento che mi chiamò da subito, il Romanticismo. Il sentimento come nuova chiave di lettura dell’arte e del mondo, la cultura notturna, l’anelito all’infinito mi catturarono senza darmi possibilità di difesa. Sembrava che tutto ruotasse intorno a un unico perno, che congiungeva me a un’epoca lontana nella quale solo per errore o per caso non ero nata.
All’inizio fu Jacopo Ortis a dirmi qualcosa: «Chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sé un desiderio, un sospiro, uno sguardo?». Poi le stesse parole cominciarono a riecheggiare ovunque: nel canto della Solitary Reaper, nel fiore azzurro di Enrico di Ofterdingen, nelle poesie e tra le note dei miei interlocutori quotidiani: Leopardi e Chopin. Il poeta dell’infinito e il compositore dei notturni all’improvviso divennero degli amici in carne ed ossa, ai quali guardare continuamente, coi quali ragionare quando delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo… e tutto ciò che ero ed ero stata iniziava a convergere e ad assumere una forma: la forma della luna.

La portavo al collo, letteralmente.
Fin da ragazzina ho amato i ciondoli come l’unico gioiello che abbia un significato, in grado di dire qualcosa. Di ciondoli ne ho avuti tanti, a forma di cuore, di stella, di cerchio… Da quando avevo tredici anni non sono mai uscita di casa senza un ciondolo al collo. La mattina prima di partire, dopo essere stata a cercare invano la luna sugli scogli, me ne andai in centro. In un negozietto minuscolo tra i caruggi una luna blu di lapis se ne stava solitaria, in attesa. L’avevo già notata qualche sera prima e sapevo che non sarei tornata a casa senza averla portata via.
Appesa a una catenina d’argento, la indossavo ogni giorno. Era il simbolo di tutto ciò che in quel momento mi rappresentava.
Vivevo di notte, ascoltando Chopin e leggendo le sue lettere; di giorno pensavo ai poeti, trascrivevo versi, li imprimevo nella memoria dalla quale non sono mai dileguati. Era luna piena e io una sua ancella fedele.

Pur tu, solinga, eterna peregrina,
che sì pensosa sei, tu forse intendi,
questo viver terreno,
il patir nostro, il sospirar, che sia…

Tra i sentimenti prediletti dai romantici – inquietudine, disperazione, malinconia – io abitavo perennemente la malinconia, sollievo e tristezza insieme. È forse male sentirsi malinconici? Eppure, è quasi piacevole…
La malinconia romantica, come tutto il Romanticismo, non poteva essere descritta che attraverso la musica, regina delle arti, la sola che non ha bisogno di intermediari per arrivare al cuore, l’organo del sentimento. La malinconia romantica è tutta qui, in pochissime note di pianoforte:

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Dal minuto 1:05 dell’esecuzione di Pollini (qui)

Mi accorgo ora che dei romantici qualcosa mi mancava, la disperazione. La luna rimaneva piena per me e pieno fu quell’anno.
Alla maturità portai una tesina che metteva insieme e riordinava le poesie amate, le notti a scrutare il cielo… e tutte le note di Chopin. Anche nel tema riuscii a far confluire qualcosa, perché la traccia parlava di Leopardi.
A settembre finalmente mi iscrissi all’università, ignara che nel nuovo cielo smisurato che si apriva sopra di me avrei presto intravisto altre lune…

Luna crescente

Fine agosto, fine delle vacanze. I miei diciotto anni mi avevano riportata un’altra volta al mare con la mamma e la nonna. All’albergo ero rimasta l’unica di quell’età e lentamente era arrivato il primo sabato, il primo cambio tra quelli che vanno e quelli che arrivano.

Uscivo dalla porticina sul retro, rapida, diretta alla spiaggia; ma qualcosa di inaspettato mi arrestò, imponendomi di tornare indietro. Non poteva essere, mi ero sbagliata: per forza! Rientrai e nell’atrio vidi subito che invece era vero, era lui. Erano cinque anni che non lo vedevo, che non era più tornato: e invece si trovava lì, con i genitori e il fratello più piccolo e la sorellina. Aveva quasi vent’anni, che ci faceva lì? Ora non ricordo come ci salutammo, ricordo solo come ci eravamo salutati cinque anni prima, sul cancello del cortile, quando lui era partito con un paio di giorni d’anticipo perché aveva un esame a settembre e io lo prendevo in giro. Ero una bambina e lui solo qualcosa di più. Forse pensavo a questo in attesa che mi vedesse e magari ci aggiungevo le immagini di una indimenticabile storia estiva. L’immagine che ci avrebbe accompagnati tutte le sere sul lungomare e tra gli scogli non potevo ancora vederla, invece.
Nel tempo dilatato delle giornate di mare quell’immagine sarebbe comparsa gradualmente, in un crescendo di intensità e di argento.
Di giorno si andava alla spiaggia, si stava in veranda in albergo, il mare e il cielo erano due cose distinte. La sera tutto era blu e su quel blu brillava regina la luna. Non so come accadde, ma iniziammo a parlare di lei, a cercarla nel cielo e riflessa nel mare, ad avvicinarci sempre di più.
La mattina della partenza ero tornata a cercarla da sola per portarla con me, almeno lei. Il cielo era rosa e la luna un vago ricordo.
Mi prese le nostalgia, come già altre volte, e passavo le serate ascoltando Beethoven.

Era luna crescente, il preludio che stavo vivendo…

Luna nuova

Per la Prima Comunione il regalo era l’orologio d’oro. Il regalo era l’orologio d’oro per tutti i bambini cattolici di questa terra, così riteneva mia nonna e così naturalmente doveva essere per me.

Avevo nove anni compiuti e l’idea di avere un orologio d’oro non mi dispiaceva, tutt’altro! Ricordo il giorno in cui lo comprammo.
Come al solito eravamo andati dal rivenditore di fiducia, che altri non ne potevano esistere. Dico “rivenditore” perché non si trattava di un negozio, ma di una casa, dove c’era una stanza più o meno come le altre, credo – e piuttosto in disordine. Stava al piano terra o in una specie di seminterrato; noi eravamo sedute a un tavolino e dall’altra parte c’erano dei signori anziani che ci mostravano la merce. Gli orologi prescelti erano quattro e stavano disposti davanti ai miei occhi in ordine di prezzo. I primi tre non li ricordo, ma dovevano essere tutti uguali, perché l’unico che ricordo bene aveva una caratteristica che gli altri non possedevano e che ai miei occhi lo rendeva irresistibile: il lunario. L’ultimo orologio, il più costoso, aveva il lunario e quella parola insieme a quel marchingegno quasi arcano mi attiravano nella sua orbita in un modo invincibile. Avevo timore a dire che mi piaceva quello, perché costava più degli altri, ma non riuscivo a dire che me ne piacesse uno diverso. Non so come accadde, non ricordo bene: forse la nonna intuì e mi disse: «Ti piace questo?» e io forse annuii… comunque all’improvviso il mio orologio fu quello.

Aveva il cinturino bianco, adatto a una bambina, e lo indossai la prima volta il giorno della Comunione. Mi piaceva guardare il cielo con la luna e i puntini delle stelle che gravitavano sul quadrante del mio piccolo orologio.
Era, allora, solo luna nuova, l’inizio di un’attrazione che
sarebbe durata a lungo…

My header

Da ieri ho una nuova pagina, dedicata alla mia nuova testata. A volte pensi che i luoghi speciali siano quelli che hai trovato nel passato, dove andavi in vacanza da bambina, dove hai conosciuto un ragazzo o una persona che poi è diventata un’importante  parte di te, e pensi che resteranno quelli per sempre, che non se ne possano aggiungere altri perché ormai li hai trovati, i tuoi luoghi dell’anima. E invece all’improvviso ne ritrovi un altro, dove pensavi di non essere mai stata, ma appena ci metti piede scopri che in qualche modo gli appartieni e così nascono nuovi ricordi… 

My header.

Mare nostro

Mare nostro,
che non sei nei cieli,
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale,
accogli le gremite imbarcazioni,
senza una strada sopra le tue onde.
I pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature
che tornano al mattino
con la pesca dei naufraghi salvati.

Mare nostro,
che non sei nei cieli
all’alba sei colore del frumento,
al tramonto dell’uva di vendemmia,
ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste.

Mare nostro,
che non sei nei cieli
tu sei più giusto della terraferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
la carezza d’abbraccio
bacio in fronte
di madre e padre prima di partire.

(Erri De Luca per i migranti annegati nel Mediterraneo)

 e per tutte le vittime della guerra in Siria
e in ogni altro luogo dimenticato

Il mare dimenticato

Scesa alla stazione non esitai un istante, sapevo già da che parte andare. Avrei potuto fermarmi un attimo, guardarmi attorno, erano quasi due anni che mancavo. Ma forse non ci pensai nemmeno. Imboccai una lunga strada sulla destra e, la soglia già alle spalle, fui dentro il paese.

Quando avevo detto «Pietra Ligure» alla piccola stazione della mia città non mi sembrava vero. Tante volte l’avevo meditato, sempre sognando, e il pomeriggio precedente improvvisa la decisione. Gli orari dei treni da Milano li conoscevo, li sapevo a memoria ‒ andata e ritorno ‒ ed anche i prezzi dei biglietti. Avevo incontrato un’amica, una compagna di università, e le avevo detto che, anziché a lezione, sarei andata al mare. Lei rideva, ma in fondo pensava che ero matta. Sul treno del ritorno la ritrovai: le avevo portato una cartolina.

In stazione Centrale a Milano, dove tutto ha inizio, percorrevo il mio treno lungo la banchina. Chissà se pensavo di essere ancora in tempo… probabilmente no. Non avevo paura. A vent’anni non lo sai che esiste la paura. Salii e trovai un posto in mezzo ai pendolari. Tra Pavia e Voghera sarebbero scesi quasi tutti, dando il cambio ai successivi, per poi lasciarmi finalmente sola con il mio viaggio dopo Genova. Era da tanto che non vedevo il mare, e seguirlo correre accanto a me dal finestrino infinitamente lungo e azzurro non mi sembrava reale.

Il treno era in orario ed alle undici e venti, dopo tre ore di viaggio, ero arrivata. Mi attendevano, prima del rientro, tre ore e mezzo di mare. Era il 24 di febbraio, e non avevo freddo. Indosso il mio giubbotto verdone, pantaloni e maglione neri, scarpe coi tacchi. Camminavo come se non le avessi. Prima di uscire sul lungomare avevo voluto percorrere le vie e le piazzette delle serate con gli amici, dei lenti pomeriggi in solitaria quando tutti riposavano ed io di perdere tempo a dormire non ne volevo sapere. Nonostante l’inverno, mi sembrava tutto noto e consueto: i colori delle case, il vento sul viso all’uscita dai caruggi, persino la luce. Non avevo nessuno da cui andare ma tanti luoghi da ritrovare. Dopo l’arco che porta fuori dal centro storico trovai sulla strada i primi segni del passaggio delle stagioni: coriandoli. Ovunque in Italia il carnevale era già partito, mentre a Milano sarebbe arrivato solo alla fine della settimana. Era strano camminare sul lungomare seguendo la scia delle stelle filanti. Ora non ricordo se andai prima all’albergo delle mie estati lontane o sugli scogli di quell’ultima sera. Ricordo però le sensazioni, le nostalgie, la consapevolezza di essere seduta davanti al mare con l’università dietro di me, a indefiniti chilometri di lontananza.

Non avevo parlato con nessuno. Non avevo nemmeno cercato un posto per mangiare. Mi erano bastati i miei crackers da sgranocchiare lenti tra l’azzurro e i ricordi. Cercavo di immaginare lo sfondo alle sere d’estate, con la luna ed il blu, gli ombrelloni chiusi e le voci dei vacanzieri che sempre mi disturbavano. Provavo a rivedere i colori dell’ultima mattina, il cielo rosa e la luna che tramontava pallida, quand’ero tornata per cercarmi. Tutto invece era molto diverso: gli stabilimenti chiusi, gli ombrelloni e le sdraio ritirati chissà dove, lui lontanissimo da qualche parte che non poteva immaginarmi seduta lì… solo la musica del mare suonava monotona e incessante la stessa antichissima melodia.

Prima del ritorno avevo voluto prendermi il tempo di salutare ogni cosa, di comprare qualche cartolina, di percorrere il mio caruggio preferito verso ponente, perché ogni caruggio ne contiene sempre due, a seconda della direzione da cui lo si cammina. Sono sicura che non avevo lasciato la spiaggia senza avere cercato di scrivere qualcosa, su un diario o un quaderno senza il quale non uscivo mai di casa. Cercando tra vecchie carte, scopro invece che avevo scritto dal treno, in attesa dei momenti che avrei incontrato all’arrivo.

Camminavo lenta con l’illusione stupida di dilatare il tempo, di rimandare il ritorno. Ma arrivata alla stazione, dove tutto finisce, mi sentivo ormai tornata a casa. Il mare lontano, i colori sfumati e quel giorno diventato già un ricordo da custodire insieme agli altri in una scatola.

La apro, e frugando tra vecchie foto e odori e tante lettere, trovo un sasso con la data del 24 febbraio, i biglietti del treno, gli scontrini degli acquisti e l’astuccio della cipria con la sabbia raccolta e portata via… sabbia policroma e granulare delle spiagge di Liguria.

Ho paura ad aprirlo. Ho paura di perderla sul pavimento. Qualche granellino inevitabilmente scivola via, come molti pensieri pensati quel giorno, come le impressioni perdute che non ho potuto trattenere. Come gli attimi fuggiti e lasciati andare, le immagini ingiallite o ritoccate dal ricordo. Come il tempo che a volte ritorna, più spesso si perde.

Anche dimenticare è parte del bagaglio…

Bagaglio