Lesbos

Dal blog di Pentagora:

Lesbo. Uno di quei nomi che evocano reminiscenze liceali, contengono poesia. Un luogo del passato, di quello classico e di quello di tutti. Un suono mitico, che nel mito proietta solo a sentirlo. Se poi viene pronunciato in greco… Continua a leggere → L’articolo Lesbos proviene da Il Blog di Pentagora.

via Lesbos — Il Blog di Pentagora

Ancora Natale

Natale

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
                  fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.

Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
                per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.

Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
               tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.

(E. De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, 2002)

Qualcuno noterà che è la stessa poesia dell’anno scorso. Vero. Ma per me Natale non è più solo un bimbo palestinese in cerca di un posto dove nascere; ma è qualunque bimbo migrante in cerca di una casa, di una terra che lo accolga, di un piccolo spazio dove essere amato. Piccolo come una pannocchia; o come una noce.

PresepeNoce

Buon Natale a tutti

Niqab

C’è una donna che porta il niqab. La vedo andando al lavoro dal finestrino dell’auto. Alle otto del mattino sul marciapiede, i bambini che corrono avanti e indietro tornando a lei. Quando sono in ritardo, la vedo rincasare, nero fantasma dall’invisibile vita.

Ieri stava ferma sull’angolo, un’altra figura davanti a lei: un’altra donna venuta dall’Islam – un’amica? una parente? Chi mai me lo dirà? Indossava un normalissimo hijab dai colori un po’ spenti.
La fila delle auto scorreva lenta e lenta mi avvicinavo a quel dialogo lontano. Poi all’improvviso un gesto – non so da chi delle due sia partito – e il quadro era mutato: le due donne si tenevano ora per mano. Le braccia tese tra i corpi distanti a unirli con tenerezza, con solidarietà. Così pensavo guardandole… un gesto di solidarietà.

In coda alle altre auto passo accanto a loro, al saluto che le riporterà dentro casa, ognuna ad abitare la propria solitudine. La donna con l’hijab prende la via laterale, quella col niqab procede lungo la strada, insieme a me. Le sono accanto… le resto accanto per un po’, finché la fila ritorna a scorrere portandomi via.

M. Rothko, “Untitled (black on grey)”, 1969

Lai Mei

Complice il clima di odio intolleranza razzismo sospetto paura facilmente manovrata, ho deciso di raccontare qualche storia dei miei alunni migranti. Nessun profugo tra di loro, per fortuna. Solo persone con il desiderio – più spesso la necessità – di cambiare vita. Saranno loro a raccontare in alcuni casi; in altri saranno invece le mie parole a restituirne la voce.
Dopo la storia di Majed (raccontata qui), ecco quella di Lai Mei (i nomi sono di fantasia).

All’età di 8 anni sono immigrata dalla Cina all’Italia per restare con la famiglia e per le migliori condizioni di vita.
In Cina vivevo con i miei nonni e la mia mamma. Da piccola vivevo in montagna, ma a 3 anni mi sono trasferita a Pechino con i miei zii e i miei cugini; abitavamo in 2 palazzi con 3 piani e un grande giardino. Io e la mamma vivevamo in un palazzo. Accanto a noi c’era quello dei miei zii. Dopo un mese siamo ritornati in montagna per convincere i nonni a vivere con noi; ma sapevo che i nonni non volevano andare via da lì, perché la nonna soffre d’auto e perché non voleva separarsi con la natura e un animale che aveva curato. Ma alla fine con un grande pianto ho fatto concludere questa faccenda e i nonni sono stati obbligati a venire con me. Con il tempo i nonni si sono trovati bene, perché lì c’erano i loro nipoti e figli e poi pure i loro animali che anche loro si erano trasferiti.
Dopo 3 o 4 anni mio papà mi ha chiesto di andare da lui, ma quando l’avevo sentito non volevo più andare. Ma poi mi hanno convinto dicendo che poi sarebbero venuti pure i miei nonni e poi abbiamo cominciato a preparare per il viaggio. Il tempo passò in fretta. Questo è l’ultimo giorno che ho passato in Cina. Questo giorno non lo dimenticherò mai.
Di mattina e di pomeriggio ci siamo preparati per la festa di addio che è stata svolta di sera alle 18:00, nel giardino della mia casa. Mi sono divertita. Abbiamo mangiato, riso, cantato. L’ultima cosa che mi è piaciuta è stato che mi hanno offerto le patatine e poi le merendine e i dolci tipici della Cina.
Finita la festa, quel giorno sono andata a dormire con i nonni e mi sono svegliata alle 5:00 della mattina e non ho visto il nonno e poi mi hanno detto che il nonno era andato a comprare qualcosa da farmi mangiare durante il viaggio; d’un tratto non volevo andarmene più di lì. Dopo i nonni mi hanno costretta. Per fortuna c’era mio zio, perché ha deciso di accompagnarmi fino in Italia.
Per arrivare in Italia abbiamo preso la macchina per arrivare in aeroporto, per prendere l’aereo delle 9:00 e poi il 2° cambiamento di aereo. Una volta arrivata in Italia, mi sono separata dallo zio, perché lui doveva ritornare in Cina. E per la prima volta ho visto il mio papà, che non lo conoscevo più e non mi ricordavo neanche com’era.
L’ambiente era molto bello, ma visto che ero abituata a vivere in Cina mi sentivo strana. Dopo qualche mese di scuola non capivo ancora niente di tutto quello che dicevano e dopo la scuola chiamavo subito i nonni e gli dicevo tutto ma poi che cominciavo ad abituarmi all’ambiente c’era un nuovo problema: non ero abituata al cibo della scuola e ogni volta che bisognava andare a mensa non mangiavo niente. Le maestre erano disperate, ma piano piano cominciavo a mangiare qualcosa.
Ma adesso che sono grande mi piace l’Italia perché è così bella, anche se nel mio ricordo la Cina è più bella, ma soprattutto voglio ritornare in Cina per vedere i miei nonni e i miei zii e cugini. 

Mi chiamo Lai Mei e ho 15 anni. Sono emigrata dalla Cina all’Italia. La Cina è un ricordo bellissimo della mia infanzia e mi rimarrà sempre nel cuore. Adesso sono grande e dopo tutto l’Italia mi piace anche se vorrei ritornare in Cina per rivedere i miei parenti che mi mancano molto. In Italia ho incontrato mio papà e per questo voglio restare qua per non perderlo più.

Majed

Sono Majed. Sono venuto in Italia nel 2002.
Sono venuto in Italia per vivere tutti insieme. Ero piccolo; i miei genitori mi avevano detto che mi portavano dalla nonna. Io mi sono seduto in macchina e sono partito. Il viaggio è durato un po’ perché l’aeroporto era lontano.
Arrivato, ho detto ai miei: «Non è la città dove abita la nonna» e loro: «No, andiamo con l’aereo dalla nonna». Io tutto contento ho salutato mio zio e sono andato subito nell’aeroporto.
Quando mi sono seduto nell’aereo mi sono divertito a giocare con un gioco e il tempo è passato così in fretta che ero già a Dubai. Rimanendo nello stesso aereo sono venuto a Roma e da Roma a Malpensa. Là ho visto mio cugino che ci ha portato a casa sua. Quel giorno ho mangiato da lui e poi ho detto ai miei: «E la nonna?» e loro: «La nonna è lontana, la rivedrai l’anno prossimo».

(Majed, 13 anni, Pakistan)

Storia di Majed, portato in Italia con l’inganno, come dice lui.
Trovo questo racconto molto delicato e compiuto nella sua semplicità. Essere sradicati dalla propria terra, dalla propria cultura, lasciare la casa e i parenti è difficile per tutti, anche per un bambino, sebbene poi i bambini si adattino più in fretta dei grandi.
I migranti economici non scappano da guerre, persecuzioni o calamità naturali e per questo sembrano non meritare il diritto di essere accolti e nemmeno di emigrare. I migranti economici sognano semplicemente una vita migliore, un altro luogo dove realizzarla: non è un desiderio normale, lecito? Facile dire che se hanno i soldi per l’aereo non muoiono certo di fame! In effetti no: non muoiono di fame. Non provengono dagli strati più bassi della società, perché per emigrare occorre disporre di denaro e soprattutto perché chi sogna migliori condizioni di vita sa di averne diritto e di avere la possibilità di trovarle. Chi non ha nulla non sogna nulla.

Rifugio

Tutti abbiamo avuto bisogno di un rifugio, qualche volta.

La parola rifugio credo di averla sentita per la prima volta dalla mamma, ed era un rifugio di montagna, dove i camminatori potevano fermarsi e trovare riparo per la notte. Mi sembrava una cosa avventurosa, di quelle che nella vita possono capitare solo agli altri…
     Non so dove andassi io da bambina a rifugiarmi; forse a quell’età il mio rifugio era tutto mentale, nei giochi che facevo da sola, nelle canzoni che ascoltavo e cantavo da sola, di nascosto, come se cantare fosse un’attività da tenere segreta, che gli altri non potevano comprendere.

Da ragazzina invece il rifugio mentale non bastava più. La mamma e il papà erano diventati nemici e a volte anche gli amici e allora ci voleva un rifugio vero, un posto sicuro, dove stare in pace, dove non poter essere perseguitati. Io l’avevo a casa della nonna.
     Era una piccola stanza, detta il “salottino”, dove un tempo si accoglievano – di rado – gli ospiti. C’erano il tavolo bello, le poltrone, il mobile con la vetrinetta. Era un signor rifugio: caldo, riparato, accogliente. Io scappavo sempre lì, appena potevo, perché fuggire era un bisogno quotidiano, una questione di sopravvivenza. E lì ricostruivo il mio mondo per intero, con il pianoforte, i miei quaderni, le cassette con le canzoni e lo stereo per ascoltarle in loop, come si dice oggi. L’altro mondo, che non era mio, lo chiudevo fuori.

Ma anche fuori avevo un rifugio; tutto diverso, aperto, inondato di luce, dove le persone passavano e non potevano vedermi. Era il rifugio del mare. Ho sempre desiderato, fin da bambina, di poter vivere al mare e quando ci andavo in vacanza, due settimane all’anno, pensavo a come fossero fortunati gli abitanti dei posti di mare. Anche in vacanza avevo bisogno di fuggire, ogni tanto, di trovare un rifugio dagli amici che non capivano niente, e così all’improvviso partivo. Mi rimettevo i vestiti, prendevo lo zainetto e lasciavo la spiaggia. Andavo al molo.
     Il primo ricordo del molo risale a una sera lontanissima, quanti anni avrò avuto? Dovevano essere così pochi che non ne ho idea! Ero a Marina di Massa e il mare era agitatissimo: c’erano i “cavalloni”. Ricordo la mamma che mi spiegava perché si chiamassero così e ricordo quel timore misto ad attrazione che mi si agitava dentro. Una prima manifestazione del sublime? Chissà…
     Il molo poi divenne il molo di Pietra Ligure, dove scappavo per dimenticare tutto ciò che lasciavo per strada e rifugiarmi davanti al mare. Camminavo veloce e arrivata andavo dritta alla ringhiera, ad affacciarmi. Restavo lì per un po’… pensavo, a volte piangevo silenziosa, parlavo con il mare. Poi tornavo a casa, perché – che mi piacesse o no – io una casa l’ho sempre avuta. Quella dove vivevo, quella della nonna, quella affittata per le vacanze, la camera dell’albergo. E non ho mai immaginato come potesse essere doverla lasciare, non averla più. Non ho mai immaginato come potesse diventare un giorno un posto pericoloso, da cui scappare con poche cose sulle spalle. Enea era già nella foresta, Troia lontanissima dietro di lui. Il padre e i Penati sulle spalle, Ascanio per mano, Creusa che si perde per sempre. Dev’essere questo che vivono i profughi…

Così, consunta la notte, ritorno a vedere i compagni.
E qui trovo con meraviglia che era affluita
una moltitudine di nuovi compagni, donne e uomini,
popolo radunato all’esilio, miserevole turba.
Si raccolsero da tutte le parti, pronti d’animo e di forze,
in qualunque terra volessi condurli per mare.
E già Lucifero sorgeva dagli alti gioghi
dell’Ida, e portava il giorno; i Danai presidiavano
le porte, e non v’era speranza d’aiuto; mi mossi,
e levato il padre sulle spalle mi diressi verso i monti.

Virgilio, Eneide, II, 795-804
(trad. di Luca Canali)

SputnikNews

Immagine da sputniknews.com

Natale

Natale

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
                  fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.

Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
                per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.

Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
               tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.

(E. De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, 2002)

Buon Natale a tutti

Mare nostro

Mare nostro,
che non sei nei cieli,
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale,
accogli le gremite imbarcazioni,
senza una strada sopra le tue onde.
I pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature
che tornano al mattino
con la pesca dei naufraghi salvati.

Mare nostro,
che non sei nei cieli
all’alba sei colore del frumento,
al tramonto dell’uva di vendemmia,
ti abbiamo seminato di annegati
più di qualunque età delle tempeste.

Mare nostro,
che non sei nei cieli
tu sei più giusto della terraferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
la carezza d’abbraccio
bacio in fronte
di madre e padre prima di partire.

(Erri De Luca per i migranti annegati nel Mediterraneo)

 e per tutte le vittime della guerra in Siria
e in ogni altro luogo dimenticato