La porta accanto: recensione

Ecco la prima recensione del mio libro. L’autore è un ragazzo di vent’anni, che ha saputo arrivare al cuore del romanzo e l’ha restituito con poche, bellissime, efficaci parole.
Grazie di cuore a Emmanuel Beccarelli, mio primo “fan”, e a voi buona lettura: della sua recensione e del mio libro.

Il libro di Alessandra Scurati, La porta accanto, è un viaggio che si dirama in tre direzioni: nella mente della protagonista Alida, una studentessa di lettere in procinto di laurearsi, nei versi di Alda Merini, una delle voci più autorevoli… Continua a leggere → L’articolo Una recensione per ‘La porta accanto’ proviene da Il Blog…

Una recensione per ‘La porta accanto’ — Il Blog di Pentagora

Per Alda Merini

“…a me sembrava strano vederla subito in faccia quella donna, la poetessa. Ero abituata a conoscere gli autori attraverso le opere, incontrandone lo sguardo soltanto dopo, magari con anni di ritardo. I loro volti me li trovavo di fronte solo per caso e mi apparivano sempre diversi da come li avevo immaginati, lontani dai pensieri che nascondevano e io conoscevo per averli letti e sviscerati. Non erano loro gli autori delle poesie, gli autori non avevano volto.
Alda Merini invece era lì, davanti a me, e non mi guardava. Il suo sguardo era diretto da un’altra parte, oltrepassava l’osservatore e chissà quanto poteva arrivare lontano… La sigaretta accesa e appena iniziata tra le dita, un anello vistoso e un grosso braccialetto in primo piano e una collana, semplice, forse di perle, forse finte. Non si capiva se fosse truccata, ma le labbra erano molto scure, magari con un po’ di rossetto. Non sorrideva, non era in posa, non viveva per gli altri. Eppure era presente, apparteneva a questa terra, la stessa in cui, prosaicamente, vivevo anch’io. Nemmeno l’effetto del bianco e nero riusciva a relegarla nell’eternità in cui vivono i poeti: era viva, si vedeva. E aveva sofferto”.

Alessandra Scurati, La porta accanto, Pentagora.

Avevo circa vent’anni quando mi trovai per la prima volta un tuo libro tra le mani. Non sapevo chi fossi, abituata soltanto ai poeti morti, quelli della scuola. Tu invece eri viva. E scrivevi. Non lontana da me e da quella libreria vicino al Duomo. Era il 1997.
Il tuo libro quel giorno ‒ te lo dico con franchezza, come piace a te ‒ non mi convinse: preferii rifugiarmi tra versi già noti, di Emily Dickinson o Emily Brontë, non ricordo. Ricordo però quel primo ‘non incontro’ con te. Mai avrei potuto immaginare che molti anni dopo ti avrei messa nel
mio libro.
Sono passati tanti anni da allora e anche da quel primo di novembre che ti portò via da questa terra. E ora, che non ci sei più, ti ho finalmente incontrata.

Lo stesso articolo è pubblicato sul blog della casa editrice: qui.
Il libro è acquistabile sul sito della casa editrice senza pagare le spese di spedizione: qui.

L’immagine è una foto di G. Grittini, fotografo ufficiale di Alda Merini, per la copertina del libro.

Lesbos

Dal blog di Pentagora:

Lesbo. Uno di quei nomi che evocano reminiscenze liceali, contengono poesia. Un luogo del passato, di quello classico e di quello di tutti. Un suono mitico, che nel mito proietta solo a sentirlo. Se poi viene pronunciato in greco… Continua a leggere → L’articolo Lesbos proviene da Il Blog di Pentagora.

via Lesbos — Il Blog di Pentagora

Ballata delle donne

quando ci penso, che il tempo è passato,
le vecchie madri che ci hanno portato,
poi le ragazze, che furono amore,
e poi le mogli e le figlie e le nuore,
femmina penso, se penso una gioia:
pensarci il maschio, ci penso la noia:

quando ci penso, che il tempo è venuto,
la partigiana che qui ha combattuto,
quella colpita, ferita una volta,
e quella morta, che abbiamo sepolta,
femmina penso, se penso la pace:
pensarci il maschio, pensare non piace:

quando ci penso, che il tempo ritorna,
che arriva il giorno che il giorno raggiorna,
penso che è culla una pancia di donna,
e casa è pancia che tiene una gonna,
e pancia è cassa, che viene al finire,
che arriva il giorno che si va a dormire:

perché la donna non è cielo, è terra
carne di terra che non vuole guerra:
è questa terra, che io fui seminato,
vita ho vissuto che dentro ho piantato,
qui cerco il caldo che il cuore ci sente,
la lunga notte che divento niente:

femmina penso, se penso l’umano:
la mia compagna, ti prendo per mano:

– Edoardo Sanguineti –

Poesia-canzone composta da Edoardo Sanguineti nel 1985,
in occasione di un evento al quale erano presenti

donne che avevano partecipato alla Resistenza.
La poesia è stata musicata da Massimiliano D’Ambrosio
e di recente anche da Margot.

Alle mie alunne, amiche e colleghe: auguri

Tutte le piante si chiamano in latino

«La creazione di un giardino è come la creazione di un’opera letteraria», scriveva il vecchio Libereso.

Il legame tra poesia e piante, tra giardino e letteratura, è già nelle parole. Chi studia lettere lo scopre fin da subito: la prima opera di Virgilio, le sue Bucoliche, è dedicata alla natura, alla terra, alle piante, che proteggono nella felicità. Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi / silvestrem tenui musam meditaris avena. Il pastore Titiro è al riparo di un faggio, mentre compone musica su un flauto d’avena. Nos patriae finis et dulcia linquimus arva. / Nos patriam fugimus. Tu, Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas. Il pastore Melibeo è costretto ad abbandonare i dolci campi che gli sono stati espropriati.
Sono versi che tutti abbiamo mandato a memoria, che abbiamo letto in metrica assorbendo anche la musica dalle parole. In poche frasi le parole della natura sono già molte, compreso il nome della bella Amarilli, che è il nome di un fiore. È stato il latino a insegnarci che le piante sono femmine (e i frutti sono neutri). Con quest’opera il giovane Virgilio ha cantato l’ingiustizia delle espropriazioni seguite alla battaglia di Filippi, il dolore e il brutto che vengono dalla guerra. Mentre Titiro può riposare e comporre poesia protetto dalla natura, Melibeo viene esiliato da essa, che è tutto il suo mondo. Chi ama coltivare le piante non chiede il troppo: ai poeti-pastori delle Bucoliche bastano le humilesque myricae, a Libereso dieci vasi, che «possono fare un giardino e dare felicità».

Virgilio racconta una storia anche sua, celebra l’amore per la terra e per la sua terra natale, il Mantovano, dov’erano i campi che forse aveva perduto. Canta la pace della natura contrapposta ai rischi del mondo esterno, della città, che al di qua della siepe può apparire lontano e innocuo. La siepe fa da limite al campo, è ciò che chiude l’orizzonte di Melibeo. Come le piante le parole hanno una radice e la radice indoeuropea di saepes indica un recinto, che era fatto delle nostre siepi. Per Melibeo oltre la siepe finisce la felicità. Ma presso la siepe, davanti al recinto, è la mangiatoia. Altri pastori arrivano qui, altre parole vengono cantate: Adeste, fideles, laeti triumphantes; venite, venite in Bethlehem… Quand’ero piccola mi sembravano magiche. Alla Messa di mezzanotte attendevo questa canzone e le sue note solenni. Il presepe e le parole mi proteggevano.

Come Virgilio aveva i suoi campi, Libereso scriveva versi. Non è un caso che chi sappia amare la natura sappia amare anche le parole e nutra il desiderio di sceglierle con cura. Nei disegni del suo erbario le piante sono accompagnate dal loro nome latino, scritto sempre con precisione. Gli alberi e i fiori del giardino dov’è cresciuto hanno nomi propri, di grandi personaggi dell’arte, della letteratura e delle scienze sociali. Fiori dedicati a Dante, ad Einstein, a Sacco e Vanzetti. E poi il «Cristo proletario, un profumatissimo garofano di colore rosso cremisi scuro vellutato, che era il simbolo del plebeo libertario di Nazaret».

Libereso era un anarchico, come De Andrè. Per il cantautore solo la musica risveglia la libertà, che dorme nei campi coltivati. Nel giardino di Libereso le piante crescevano (e credo crescano ancora) libere e felici: non legate e addirittura non potate se non necessario al loro sviluppo naturale. Appaiono disordinate a chi le osserva, ma in realtà seguono le regole della natura, il ciclo delle stagioni. Nel regno chiuso, recintato, del giardino l’anarchico trova l’unica società capace di crescere in armonia, trova «l’utopia che rappresenta l’ossigeno per un futuro migliore».
Sembra un’utopia la letteratura, eppure è un mondo abitabile, più del mondo reale che abbiamo ricevuto in dono e trascurato.

Libereso Guglielmi ha preso forma nel giardino del Professor Calvino, muovendosi tra i personaggi che il figlio Italo stava abbozzando ed entrando di sfuggita in qualche storia. Comporre – mettere insieme – le piante e comporre le parole non è tanto diverso.

Anch’io sono cresciuta in un giardino, creato con amore dalle mani sapienti di mio padre, ma i nomi delle piante li ho imparati soprattutto dalla poesia. Ho visto l’agave sullo scoglio, ho respirato l’odore dei limoni. Il prunalbo aveva un nome così dolce che bastava ad essere felice, senza bisogno di vederlo. Ho pianto con Lisabetta sul testo di basilico.
Provo a chiudere i libri per spostarmi nel mondo concreto, ma la poesia mi segue: eccola, è sull’autostrada. Tra grigio e cemento, tra i colori spenti, una macchia gialla piano piano prende forma. È lei, la lenta ginestra: il fior gentile che consola il deserto circostante con il suo profumo…

Le citazioni da Libereso sono tratte da: L. Guglielmi, Diario di un giardiniere anarchico, Pentagora, 2019, il libro che mi ha fatto conoscere Pentagora.
Il titolo è una frase di Libereso, il ragazzo-giardiniere nel racconto Un pomeriggio, Adamo, in I. Calvino, Ultimo viene il corvo, 1949.

Caro Faber

Caro Faber,
ti ho incontrato tardi nella mia vita. Ti ha portato l’università, insieme ad altri cantautori che prima semplicemente ignoravo. Però ricordo il giorno della tua morte, la notizia al telegiornale, come qualcosa che ti colpisce senza una ragione. Conoscevo diverse tue canzoni per averle sentite, mai ascoltate. La prima volta che ti ascoltai non eri nemmeno tu a cantare, ma un altro che ti conosceva e amava da molto. Tuttavia io sentii solo te nel cuore impazzito del malato di cuore e anche il mio cuore stordì e ora no, non ricordo se fu troppo sgomento o troppo felice…

Cominciai a cercarti, e fu facile in verità trovarti dappertutto: nella terra di Liguria che già era mia e con te la scoprivo più ricca, di Mediterraneo e di poesia…

Nella storia triste di quella ragazzina di Brescia colpevole di bellezza, che come le più belle cose visse solo un giorno come le rose… Non ho mai sopportato l’insulto alle donne, il solo a non avere un corrispettivo maschile; solo tu riuscivi a dirlo con rispetto, a non farlo essere un insulto…

Ti ho trovato nel cristianesimo che avevo abbandonato, ma che tu hai riportato con il suo vero messaggio di pietà che non cede al rancore:

Nella delicatezza di un gesto: i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte… Nell’umanità di Maria, di cui porto il nome dietro al mio: gioia e dolore hanno il confine incerto nella stagione che illumina il viso…

Nella libertà, nella lotta, nella giustizia:

Nella poesia che amo, dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, e io ritrovo, passando, l’infinito nell’umiltà. E soprattutto ti ho trovato in tutte le anime salve in volo per il mondo:

Grazie, Faber…

Ancora Natale

Natale

Nascerà in una stiva tra viaggiatori clandestini.
Lo scalderà il vapore della sala macchine.
Lo cullerà il rollio del mare di traverso.
Sua madre imbarcata per tentare uno scampo o una
                  fortuna,
suo padre l’angelo di un’ora,
molte paternità bastano a questo.
In terraferma l’avrebbero deposto
nel cassonetto di nettezza urbana.
Staccheranno coi denti la corda d’ombelico.
Lo getteranno al mare, alla misericordia.

Possiamo dargli solo i mesi di grembo, dicono le madri.
Lo possiamo aspettare, abbracciare no.
Nascere è solo un fiato d’aria guasta. Non c’è mondo
                per lui.
Niente della sua vita è una parabola.
Nessun martello di falegname gli batterà le ore dell’infanzia,
poi i chiodi nella carne.
Io non mi chiamo Maria, ma questi figli miei
che non hanno portato manco un vestito e un nome
i marinai li chiamano Gesù.
Perché nascono in viaggio, senza arrivo.

Nasce nelle stive dei clandestini,
resta meno di un’ora di dicembre.
Dura di più il percorso dei Magi e dei contrabbandieri.
Nasce in mezzo a una strage di bambini.
Nasce per tradizione, per necessità,
con la stessa pazienza anniversaria.
Però non sopravvive più, non vuole.
Perché vivere ha già vissuto, e dire ha detto.
Non può togliere o aggiungere una spina ai rovi delle
               tempie.
Sta con quelli che vivono il tempo di nascere.
Va con quelli che durano un’ora.

(E. De Luca, Opera sull’acqua e altre poesie, 2002)

Qualcuno noterà che è la stessa poesia dell’anno scorso. Vero. Ma per me Natale non è più solo un bimbo palestinese in cerca di un posto dove nascere; ma è qualunque bimbo migrante in cerca di una casa, di una terra che lo accolga, di un piccolo spazio dove essere amato. Piccolo come una pannocchia; o come una noce.

PresepeNoce

Buon Natale a tutti

La leggenda di Pangur Bán

Ante scriptum: prestare molta attenzione durante la lettura, altrimenti, scivolando come un gatto sulle parole evidenziate, potrebbe capitare di finire in altre storie…

Pangur Bán

La leggenda si perde nella notte dei tempi, insieme a mille altre, fino a confondersi e a infilarsi dentro il libro sbagliato. Le fonti affermano con sicurezza che risalga al IX secolo, ma io credo che sia stato circa quattro anni fa. Non ricordo quando l’ho visto per la prima volta, ricordo solo la prima volta che scrissi di lui: era gennaio, mese invernale, e il suo manto era più bianco del bianco.

Da quel dì tante volte l’ho visto passare, ma non sono mai riuscita ad avvicinarlo, né a capire da dove arrivasse e dove andasse poi a finire. Lo ammiravo, avevo una rispettosa venerazione per lui. Qualunque cosa stessi facendo, appena lo scorgevo – una macchia bianca sullo sfondo – mi interrompevo per vederlo e non mi allontanavo dalla finestra fino a che non era lui a perdersi sull’orizzonte.
Il giorno seguente ritornava e io ero di nuovo lì. Poi un giorno scompariva, così: all’improvviso; e non si faceva vedere per mesi. Chissà se andava a caccia di topi… pare che fosse infallibile, così racconta il suo padrone, o almeno colui che si vanta di esserlo, ma per me un padrone non ce l’ha, non è possibile: lui è libero.

Pangur Bán, “più bianco del bianco”. Leggendario gatto bianchissimo che ho ritrovato a mille chilometri dal mio giardino, tra le pagine di un libro: anche questo è l’Irlanda.
Al largo della Scozia, sull’isola di Iona, o a Kells, nella contea di Meath, un gruppo di monaci lavorava notte e giorno alla trascrizione dei Vangeli, in una lingua ancora oggi ritenuta oscura: il latino. Così nacque il testo miniato più ammirato dell’epoca o, se non in quella, almeno nella nostra: The Book of Kells. Ma non è nel libro di Kells che si aggira il gatto bianco…

Book_of_Kells_34r_-_Katzen_und_Maeuse

“Book of Kells”, folio 34r (Old Library, Trinity College, Dublin)

Una notte – una notte mitica, forse di primavera – mi alzai per bere, e andando verso la cucina nel buio scorsi la macchia bianca che si muoveva: era Pangur, che usciva lesto dalla finestra dopo avere dormicchiato chissà per quanto tempo sul mio divano. Ero incredula. E incantata…
Ci furono altre notti così, quando iniziai a svegliarmi inconsciamente alla stessa ora per vederlo dormire. Ma forse i suoi poteri lo avvertivano o lui avvertiva l’impercettibile levarsi delle mie palpebre e facevo giusto in tempo a scorgerlo mentre se la filava con eleganza dalla finestra semiaperta. Pangur Bán.
Ebbi per un po’ l’illusione di poterlo tenere con me e i miei gatti, che stranamente sembravano accettarlo e Amarilli per me era anche un po’ innamorata… anche questo poteva essere solo merito dei poteri incredibili di Pangur.

Ma poi la natura prevalse e il territorio divenne troppo stretto, inospitale per l’ultimo arrivato. Così forse tornò dal suo padrone, di cui poco si conosce: molti dicono che viva in Austria, ma in Irlanda voci autorevoli confermano che stia in Svizzera, nel monastero di San Gallo, altri che sia il gatto di una misteriosa bambina. C’è infine chi sostiene si tratti di un certo Sedulius Scottus, ma io ci credo poco…

E infatti continuavo ad aspettarlo e ogni volta che lui tornava mi avvicinavo un po’ di più e da vicino mi accorsi che era molto magro, emaciato e il suo biancore si spegneva. Gli occhi però erano sempre vivi, brillanti, di un verde chiarissimo, un verde d’acqua.

PangurDaVicino

La poesia che parla di lui, forse la più antica poesia dedicata a un gatto che si conservi, è scritta sui margini di un remoto testo di scrittura, una sorta di quaderno scolastico usato da un giovane monaco irlandese per esercitarsi e che conteneva un po’ di tutto: inni, carte astronomiche e tavole matematiche, poesie.

TestoOriginalePangur

“Reichenau Primer”: in basso a sinistra la poesia di Pangur Ban

Il libro è conservato in una abbazia benedettina, in Carinzia, ma è stato scritto in un altro monastero, su un’isola lacustre. Chissà perché i monaci irlandesi sceglievano sempre le isole, ovunque andassero…

Da un po’ di tempo Pangur non si vede. Ogni volta che scorgo una macchia bianca sullo sfondo corro a guardare, ma non sono mai sicura che sia lui. Il gatto bianco a volte sono due. Un altro gatto – o forse una gatta – di colore bianchissimo abita da queste parti e quando c’era Pangur li distinguevo, sempre. Ora invece non sono più così sicura e attendo il momento che si avvicini un po’ di più per vedere quel colorino acqua nei suoi occhi.

GattoBianco1

Anche stamattina qualcosa di bianco si muoveva sullo sfondo e se non era Pangur vorrei almeno chiedergli, perchè lui – ma per me è una lei – lo sa, dove sia il gatto della leggenda, se nascosto nei dintorni o accucciato sul margine di un libro…

…dedicato a tutti i gatti…

 

Post scriptum: per questa storia devo molto al post di una ragazza americana, che potete leggere qui.

Un poeta

Abbiamo perso innanzitutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo.
Ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo!
(A. Moravia)

2Pasolini

Borgo antico
dai tetti grigi sotto cielo opaco
io t’invoco…

cantavano i quattro di vicolo del Bologna, sbragati sulla barca, a voce più alta che potevano per farsi sentire dai passanti di Ponte Sisto e dei lungoteveri. La barca, troppo piena, andava avanti affondando nell’acqua fino all’orlo.

Il Ricetto continuava a starsene disteso, senza dar retta ai nuovi venuti, ammussato, sul fondo allagato della barca, con la testa appena fuori dal bordo: e continuava sempre a far finta di essere al largo, fuori dalla vista della terraferma. «Ecco li pirata!» gridava con le mani a imbuto sulla sua vecchia faccia di ladro uno dei trasteverini, in piedi in pizzo alla barca: gli altri continuavano scatenati a cantare. A un tratto il Riccetto si rivoltò su un gomito, per osservare meglio qualcosa che aveva attratto la sua attenzione, sul pelo della acqua, quasi sotto le arcate di Ponte Sisto. Non riusciva a capire bene che fosse. L’acqua tremolava, in quel punto, facendo tanti piccoli cerchi come se fosse sciacquata da una mano: e difatti nel centro vi si scorgeva come un piccolo straccio nero.

«Che d’è,» disse il Riccetto. Tutti guardarono da quella parte, nello specchio d’acqua quasi ferma, sotto l’ultima arcata. «È na rondine, vaffan…,» disse Marcello. Ce n’erano tante di rondinelle, che volavano  rasente i muraglioni, sotto gli archi del ponte, sul  fiume aperto, sfiorando l’acqua con il petto. La corrente aveva ritrascinato un poco la barca indietro, e si vide infatti ch’era proprio una rondinella che stava affogando. Sbatteva le ali, zompava. Il Riccetto era in ginocchioni sull’orlo della barca, tutto proteso in avanti. «A stronzo, nun vedi che ce fai rovescià?» gli disse Agnolo. «An vedi,» gridava il Riccetto, «affoga!» Quello dei trasteverini che remava restò coi remi alzati sull’acqua e la corrente spingeva piano la barca indietro verso il punto dove la rondine si stava sbattendo. Però dopo  perdette la pazienza e ricominciò a remare. «Aoh, a  moro,» gli gridò  il Riccetto puntandogli contro la mano, «chi t’ha detto de remà?» L’altro fece schioccare la lingua con disprezzo e il più grosso disse: «E che te frega.» Il Riccetto guardò verso la rondine, che si agitava ancora. Poi senza dir niente si buttò in acqua e cominciò a nuotare verso di lei. Gli altri si misero a ridere e a gridargli dietro: ma quello dei remi continuava a remare contro corrente, dalla parte opposta. Il Riccetto s’allontanava, trascinato forte dall’acqua: lo videro che rimpiccioliva, che arrivava a bracciate fin vicino alla rondine, sullo specchio d’acqua stagnante, e che tentava d’acchiapparla. «A Riccettooo,» gridava Marcello con quanto fiato aveva in gola, «perché nun la piji?» Il Riccetto dovette sentirlo, perché si udì appena la sua voce che gridava: «Me pùncica!» «Li mortacci tua,» gridò ridendo Marcello. Il Riccetto cercava di acchiappare la rondine, che gli scappava sbattendo le ali e tutti e due ormai erano trascinati dalla corrente. «A Riccetto,» gli gridarono i compagni della barca, «e lassala perde!» Ma in quel momento il Riccetto s’era  deciso ad acchiapparla e nuotava con una mano verso la riva. «Tornamo indietro, daje,» disse Marcello a quello che remava. Girarono. Il Riccetto li aspettava seduto sull’erba della riva, con la rondine tra le mani. «E che l’hai sarvata a ffà,» gli disse Marcello, «era così bello vedella che se moriva!» Il Riccetto non gli rispose subito. «È tutta fracica,» disse dopo un po’, «aspettamo che s’asciughi!» Ci volle poco perché si asciugasse: dopo cinque minuti era là che rivolava tra le compagne, sopra il Tevere, e il Riccetto ormai non la distingueva più dalle altre (Ragazzi di vita, 1955).

Pier Paolo Pasolini
Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975