Una cosa bella

– È una cosa bella, disse C., con lo sguardo luminoso.
– Sì, è una cosa bella.
Lei intanto si asciugava gli occhi per proseguire.
– Se vuoi, continua la tua compagna, ho proposto.
– No no, ce la faccio: mancano due righe.

Così S. finì la lettura del suo tema.
Le proteste delle donne, delle ragazze, iraniane; il gesto di tagliarsi i capelli o di raccoglierli per sfida in una coda di cavallo. Alcune giovanissime, della stessa età delle mie alunne. Da pronunciare ad alta voce, in mezzo alla classe, sentendolo in modo amplificato. Una cassa di risonanza spaventosa, quasi.
Può succedere questo quando si hanno sedici anni e un compito diventa luogo di riflessione.

– È una cosa bella, disse C.
Sarà una cosa ancora più bella, quando sarai tu, o un altro ragazzo, a ritrovarti con il viso da asciugare; quando soffrirai con le tue compagne sparse per il mondo.
Stasera non siamo molto lontani…

Il colore del cielo e del mare

Sono passati tanti anni da quella lezione alla Silsis (scuola per l’insegnamento), ma io e i miei colleghi la ricordiamo ancora.
Per il corso di Letteratura italiana era stato invitato a tenere una lectio magistralis il Professor Serianni. Era pomeriggio, come a tutte le lezioni della Silsis.
Serianni io lo conoscevo di nome, come linguista, ma non mi era mai capitato di studiare qualcosa di suo.
Lo ricordo in piedi, in mezzo ai banchi, vicino a noi, mentre cercava di trasmetterci come trasmettere qualcosa.

Un omino minuto, distinto, che parlava piano. Non era saccente, non mi faceva sentire piccola di fronte al suo sapere. Se è vero che “sbagliando si impara” – ci diceva -, è altrettanto vero che si impara dalle cose fatte bene. Pertanto poteva essere buona norma non segnare solo in rosso gli errori nei testi dei nostri futuri alunni. I colori sono molti di più. Il Professor Serianni usava il verde per sottolineare frasi e osservazioni ben fatte. Io preferisco l’azzurro.
Frasi musicali, con un bel ritmo, composte sentendo le parole; parole scelte e non lasciate cadere sul foglio, che denotano gusto e sensibilità; osservazioni originali, profonde, sentite… sono tutte passate sotto il mio pastello azzurro, che fin dall’inizio del percorso da insegnante tengo nell’astuccio.

Se i vostri compiti, cari alunni e care alunne di tanti anni, sono stati attraversati dal colore del cielo e del mare, lo dovete al professor Luca Serianni.

Ortografia

Al liceo non studiavo molto. L’ho detto e scritto tante volte: qui, altrove, l’ho detto persino ai miei alunni… dunque al liceo non studiavo molto, anzi: studiavo proprio poco. La cosa assurda è che, sebbene non studiassi, credevo nella scuola. Non avevo l’arroganza di pensare che la scuola fosse importante, sì, però la vita… era da un’altra parte. Ho sempre riconosciuto il valore dello studio, della cultura e sapevo che sarebbe stato ciò che avrei imparato tra quelle quattro mura a darmi una direzione. Forse è stato questo a salvarmi… o a inguaiarmi, perché studiare non rende felici, tutt’altro. 

Faccio fatica e soffro nel vedere l’arroganza-ignoranza dei miei alunni, che studiano più di quanto facessi io, eppure sono convinti che ciò che davvero conta sia altro, sia fuori dalla scuola: che non guarda al mondo del lavoro, che non usa le “magnifiche tecnologie e progressive”… e mentre loro prendono gli appunti sul computer per prendere poi un bel voto che li farà sentire ancora più bravi, io sto a pensare come un’ingenua anacronistica all’ortografia, alle lettere maiuscole, ai libri, alla parola scritta.

Tra quelle quattro mura sporche, scrostate, scritte con i pennarelli, sono entrata tanti anni fa e non ne sono più uscita e mi piaceva pensarlo.
Ora inizio a pensare che il mio posto non sia più lì…

Nuove situazioni (im)probabili 1

Intervallo. Mentre gli altri svaniscono evanescenti ed anonimi dentro gli schermi del loro “egofono”[1] cattura-anime, ti può capitare che una ragazzina di quattordici anni, ciuffo ossigenato e camicia da montanara, esca dal nulla informe della tua classe e ti dica: «Prof., quando studieremo Oscar Wilde? Io adoro Oscar Wilde!». E tu lì per lì ti domandi per un istante cosa mai potrà capire di Oscar Wilde questa inverosimile creatura; ma l’istante rapido svanisce e tu sai che in fondo non importa se capisca oppure no. Ti basta quella frase improbabile che per una volta, un’altra volta, ti accompagna a casa dal lavoro sorridente e felice.

Saranno queste le nuove situazioni (im)probabili.

[1] Devo a Michele Serra e al suo nuovo non-romanzo l’azzeccatissimo neologismo.

Situazioni (im)proponibili

Nella scuola media in cui ho lavorato qualche anno fa la collega di Arte e Immagine proponeva ai ragazzi, alla fine del percorso triennale, di realizzare una pittura su tela, copia di uno dei quadri più celebri del periodo contemporaneo studiato in storia dell’arte. Qualcuno più capace, qualcun altro privo di qualsiasi senso artistico, gli alunni si cimentavano con Monet, Renoir, Seurat, Warhol, Van Gogh… che poi venivano esibiti con orgoglio agli esami.

È il turno di Reda, alunno proveniente dal Marocco in Italia ormai da parecchi anni. Dopo le prime domande sulle varie materie arriva il momento di presentare i lavori:
     – Vediamo il quadro di Reda? – chiede l’insegnante di arte.
     – Lo prendo io! – risponde pronta l’insegnante di scienze; e mostra il capolavoro alla commissione:

Van_Gogh-corvi2Poi commenta, un po’ ironica: – Che bello, Reda, e che cos’è questo, il mare?
     – No, prof., è al contrario!

A discolpa della collega posso dire che il quadro di Reda non era esattamente un Van Gogh…

Situazioni (im)probabili 13

Il mondo è piccolo, chi non lo sa? E così anche ai precari che insegnano da poco capita di ritrovarsi in classe, da un anno all’altro, i vari fratelli sorelle cugini, più grandi più piccoli, degli ex alunni del passato. Così mi è successo quella volta che, in una prima media in cui insegnavo geografia, mi ritrovai la sorellina di una ragazza a cui l’anno precedente facevo latino al liceo linguistico.

Ai colloqui con i genitori arriva la mamma, tutta bella impellicciata e fresca di messa in piega, che, prima di parlare della sua “piccola”, mi saluta e commenta la buffa situazione:
     – Però: passare così dal latino alla geografia… dev’essere stimolante!
     – Eh… già – penso io, – non c’è niente di più bello che essere precari!

D’altra parte, però, la signora ha ragione: sai che noia il posto fisso…

L’Affamato e il Toccaccione

C’era una volta l’Affamato. La sua fame era tale che la merendina che gli preparava amorevolmente la mamma (una fetta di pastiera napoletana condita di peperonata e tonno) non gli bastava mai. Così l’Affamato pensò di arrangiarsi da solo, chiedendo prima, elemosinando poi, la merenda alle compagne di classe. Le misericordiose compagne inizialmente lo nutrono, lo sfamano, forse lo consolano pure, ma poi… quando è troppo è troppo! L’Affamato tuttavia non si rassegna e chiama in suo soccorso il Toccaccione, intuendo che una società di mutuo accordo può essere assai vantaggiosa. I due iniziano ad agire in coppia: l’Affamato chiede la merenda, la malcapitata compagna non la molla e allora si inserisce il Toccaccione, il quale polipescamente prende ad agitare i tentacoli un po’ qua un po’ là, finché la vittima cede e l’Affamato viene soddisfatto.

Le ragazze però non ci stanno, non si prestano ad una simile estorsione e al grido di “il corpo è mio e lo gestisco io” si rivolgono all’Autorità. L’Autorità prontamente interviene, chiama i malfattori, prima da soli, poi insieme. Prova a spiegare, a farli ragionare; infine si rassegna e minaccia sanzioni e pene indicibili.

Chissà se avranno capito… Francamente non credo, ma l’importante è che giustizia è fatta. Almeno nella scuola…

Sguardi dall’infanzia 16: il regalo alla maestra.

Mica sempre l’infanzia è un bel posto, pulito e illuminato bene, simile a un bel prato fiorito come ce la ricordiamo o ci piace raccontarcela. L’infanzia è a volte una stanza buia e sporca, dove ci si vede poco e s’impara a sopravvivere, a fare del male, a sentirsi soli ed esclusi o, senza pietà, ad escludere.

In quinta elementare, verso la fine dell’anno, le mamme di alcuni miei compagni di classe proposero alle altre di fare un regalo alla maestra, un regalo importante per ringraziarla del lavoro svolto con noi per cinque anni. L’idea non era particolarmente originale, immagino fosse un’usanza consolidata da tempo, quasi imprescindibile, una specie di tradizione che non si potesse non onorare. Anche la scelta del regalo non fu originale, andando a cadere su un oggetto di gioielleria, come se una donna (e per altro una donna “di cultura”) non potesse desiderare di meglio che un costoso gioiello da esibire davanti all’invidia delle altre. Fatto sta che il comitato “Ci occupiamo noi del regalo alla maestra”, sorto spontaneamente sotto il casco del parrucchiere, si riunì e, dopo attenta valutazione del caso, stabilì che il regalo giusto poteva essere solo un collier d’oro.

Eravamo venticinque alunni e con venticinque quote da venticinquemila lire ciascuna si poteva acquistare un gioiello di tutto rispetto. Alla riunione seguì – immancabile – un difficile pomeriggio di ricognizione di tutte le gioiellerie della città, con tanto di relazione scritta da distribuire alle altre mamme, per effettuare una scelta democratica e, soprattutto, vantarsi dell’impegno profuso a sostegno della causa “Battiamoci per il regalo alla maestra”. Non so se tutte le mamme dei miei compagni fossero davvero d’accordo con un regalo tanto impegnativo; di sicuro qualcuna avrà versato la quota solo per non sentirsi in imbarazzo di fronte alle altre, che potevano sborsare quanto volevano dopo essere state in giro per negozi anziché andare al lavoro. In ogni caso tutte le mamme parteciparono al regalo, tranne una: la mia.

Mia madre, da insegnante, riconosceva il lavoro svolto dalla maestra, ma in quanto insegnante riteneva anche che quel lavoro fosse un dovere e non un favore che ci veniva fatto, favore per il quale ringraziare, con quello stile tra l’ossequioso e il mafioso cui siamo abituati in Italia… La scelta di non partecipare dipendeva però da qualcos’altro, qualcosa che io fino ad allora ignoravo, ma che di lì a poco avrei scoperto…

La mamma, come insegnante, partecipava ad alcune attività non obbligatorie e spesso dopo cena usciva per andare in un posto chiamato “distretto”, che io immaginavo come un’auletta poco illuminata e piena di insegnanti, tra i quali, forse, c’era anche il marito della maestra. Dubito che mia madre e quest’ultimo potessero trovarsi d’accordo su qualcosa, persona di sinistra lei, iscritto alla DC lui. Come al solito nessuno mi aveva spiegato cosa fosse successo, ma qualcosa “di grosso” doveva essere successo e c’entrava, appunto, il marito della maestra. Ricordo la nonna che, incurante di cosa avrei potuto pensare, parlava di certi insulti sul giornale rivolti alla mamma e lei avrebbe anche dovuto regalare il collier d’oro a sua moglie! A me non piaceva sentire quelle cose, mi facevano star male e cercavo di non ascoltare, di scappare in un’altra stanza, sebbene capissi che la mamma aveva ragione a non voler fare il regalo alla maestra, cosa che a me – abituata a non ricevere il regalo per la promozione – non sembrava neanche necessaria.

La razza umana è proprio fatta male e quella fu per me l’occasione per rendermene conto. Come è facile intuire, il fatto che una sola delle mamme non partecipasse al regalo fu un’occasione fin troppo ghiotta per le altre, un’occasione per fare pettegolezzo tra di loro ed anche con i propri figli, ai quali raccontare che io e la mia mamma non volevamo fare il regalo alla maestra. Non so cosa avessero detto di preciso le signore, ma dovevano essere state davvero cattive, almeno quanto poi lo furono i loro bambini, che senza educazione producono il male come le api il miele.

Il regalo venne consegnato in classe, durante una normale mattinata scolastica di fine maggio. Non so come fosse stata organizzata la cosa; qualcuna – perché queste sono “cose da femmina” – si era avvicinata alla cattedra, dove poi si ritrovarono tutti, con la maestra al centro che apriva il pacchetto e ringraziava, come si conviene. Solo io non c’ero. Me n’ero rimasta in disparte, al mio banco che stava proprio in mezzo all’aula, ad assistere da fuori ad una scena alla quale avevo capito che non dovevo partecipare. Forse alla maestra dispiaceva vedermi lì, da sola, a fingere di riordinare i quaderni; e forse capiva almeno un po’ il mio stato d’animo, sebbene non mi disse niente. Chi mi disse qualcosa fu invece una mia compagna, che mi raccontò che qualcuno aveva detto: «Maestra, ti hanno fatto il regalo tutti tranne una certa persona…».

Io non ero molto legata alla maestra, non lo ero mai stata; e non soffrivo nemmeno per la mamma. Soffrivo perché mi vergognavo. Mi vergognavo di essere lì, lontana da tutti ma sotto osservazione. Mi vergognavo di essere quella diversa dagli altri, quella di cui tutti erano autorizzati a parlare, adulti e bambini. Ero la piccola preda attaccata da ogni parte, inerme di fronte al gruppo che – si sa, ma io lo imparavo in quel momento – è sempre forte e compatto e coraggioso contro chi è solo e indifeso.

A scuola tra Otto e Novecento

Per vie comode ed agevoli, ma anche decisamente traverse, ho avuto la possibilità in questi giorni di aggirarmi sola e indisturbata nell’archivio storico di una vecchia scuola elementare. L’oggetto della ricerca erano i registri di fine Ottocento, su cui scovare informazioni riguardo quella bisnonna trovatella che mi tormenta ormai da tempo con la sua storia. Ne ho poi approfittato per cercare gli altri ascendenti che frequentarono le stesse scuole, scoprendo l’esistenza di fratelli del bisnonno di cui si era persa la memoria. Inoltre, essendo in questa situazione la classica immanicata italiana che tutto può senza fare richiesta alcuna, ho persino avuto modo di portare a casa alcuni registri, spulciarli a fondo e fotografarli con agio. Ne è uscito uno spaccato di storia sociale davvero interessante…

Il fascino dell’archivio (un’auletta con quattro imponenti armadi ed un tavolo al centro) è tutto nelle pagine dei registri, impolverati e ingialliti, che sfoglio munita di guanti in lattice e di grande cautela… Il registro scolastico un tempo era formato da grandi fogli legati insieme, senza copertina e di dimensioni superiori agli attuali quaderni, che iniziarono a comparire più tardi, in epoca fascista. L’emozione nell’aprire pagine rimaste chiuse per oltre un secolo è indescrivibile. Colpisce la grafia degli insegnanti – con gli antichi e misteriosi “svolazzi”, molto curata nella compilazione di nomi e dati degli alunni, più “emotiva” nelle annotazioni a margine. Incantata continuo a sfogliare e piano piano mi addentro tra le polverose pieghe di una Storia fatta, questa volta, da tanti piccoli protagonisti…

A fine Ottocento la scuola era una realtà non solo nelle grandi città del Regno d’Italia, ma anche nei piccoli comuni. Le classi erano molto numerose, soprattutto quelle maschili: l’istruzione delle bambine doveva essere considerata ancora superflua, visto che le classi femminili comprendevano in media una sessantina di alunne, mentre quelle maschili potevano contarne addirittura cento. Non so immaginare come quei poveri maestri potessero mantenere la disciplina e allo stesso tempo riuscire ad insegnare qualcosa in simili condizioni… io con trenta alunni faccio davvero fatica, se non a farmi rispettare, di sicuro a dedicare la giusta attenzione ad ognuno.

Le materie d’insegnamento non vertevano solo sui tre capisaldi di una volta: leggere, scrivere e far di conto; c’erano anche le discipline di studio: storia, geografia e, in pieno clima di Positivismo, scienze fisiche e naturali. La legge allora in vigore era la “Legge Coppino” (1877), emanata durante il governo della Sinistra Storica, che mirava a costruire una scuola laica e in grado di formare dei cittadini: venne introdotta per la prima volta la cosiddetta “educazione civica” e non c’era posto per il catechismo e la storia sacra, previste, invece, dalla precedente “Legge Casati” (1859).

La “Legge Coppino” si proponeva inoltre di combattere l’analfabetismo, prolungando l’obbligo scolastico fino alla terza elementare e prevedendo delle sanzioni per chi non adempiva. A dispetto delle buone intenzioni dei legislatori e dell’alto numero di alunni, dal frontespizio dei registri si evince che solo in pochi arrivavano con successo alla fine dell’anno: dei settantanove iscritti nella terza elementare del mio bisnonno Natale passarono alla classe successiva in diciotto (e il nonno non era tra questi). Più alto era l’esito positivo in quarta, classe non obbligatoria che frequentavano solo i più motivati: nell’A.S. 1894-95 di ventitré alunne ne vennero promosse quindici.

Tra questi molti erano i bambini che portavano a termine l’anno scolastico ma non si presentavano agli esami finali, oppure quelli che venivano “fermati” agli esami di febbraio. Era sicuramente una scuola selettiva – forse troppo – e più seria e rispettata di quella attuale. Tutte queste perdite, però, sono legate soprattutto al fenomeno dell’abbandono scolastico, che, nonostante la legge, era ancora molto alto.

Dalle annotazioni degli insegnanti si apprende che le bambine abbandonavano la scuola soprattutto per essere mandate «in uno dei setifici», qualcuna per «fare la fattorina in una casa privata», mentre i maschi abbandonavano apparentemente senza motivo. La mia bisnonna Natalina, già in quarta, «abbandonò le lezioni, perché accomodava ai parenti di tenersela a casa, come accadeva per le assenze»; mentre una sua compagna «si assentò per accudire alle faccende domestiche». Tuttavia la mia bisnonna, forse desiderosa di imparare o di ottenere una qualifica migliore, si riscrisse l’anno successivo e la sua media risultò la più alta della classe, tanto che, come tutte le alunne con una media superiore al sette, venne esonerata dagli esami finali. Un’altra bambina invece «non avendo voglia di studiare i suoi genitori pensarono bene di tenersela a casa». Non so come interpretare le diverse annotazioni, se critiche nei confronti di chi preferiva tenere a casa i figli, o di assenso quando si trattava di bambini poco diligenti o «di carattere insolente». Magari erano solo informazioni che i maestri dovevano trascrivere qualora ne fossero in possesso.

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A.S. 1895-96: scheda di quarta elementare della bisnonna Natalina (gli insegnamenti sono qui trascritti solo sulla parte relativa agli esami).

A.S. 1895-96: scheda di quarta elementare della bisnonna Natalina (gli insegnamenti sono qui trascritti solo sulla parte relativa agli esami).

Pensando alla miseria diffusa e leggendo tra le righe, viene il sospetto che l’abbandono fosse dovuto a cause economiche, magari nascoste dietro motivazioni “originali” come quelle addotte dal piccolo Giulio, che nell’A.S. 1893-94 «abbandonò la scuola perché non volle acquistare le carte geografiche dicendo che lo studio della geografia è affatto inutile»… Di sicuro non doveva essere facile allora parlare con i genitori, far loro capire l’importanza di imparare a leggere e scrivere; come d’altra parte non è facile oggi far acquistare un libro di narrativa al prezzo di ben dieci euro. All’epoca i soldi per i libri mancavano davvero, come oggi non mancano quelli per videogiochi, i-phone, abiti firmati…

Il maestro, che poteva intuire la situazione, trascrisse la motivazione che gli aveva dato il bambino: erano anni in cui gli ispettori scolastici giravano per le scuole ed era opportuno che il registro fosse a posto. Per la verità non so come quegli ispettori potessero accettare un simile numero di abbandoni, considerando la legge in vigore. Forse erano a conoscenza delle difficoltà delle famiglie di contadini, ai quali un aiuto in più a casa e nei campi faceva comodo; o forse erano già i burocrati di oggi, biechi esecutori di mansioni che svolgevano senza porsi scomode domande… Tre anni fa avevo un’alunna cinese intelligente e motivata, che i genitori tenevano a casa per farla lavorare nel ristorante di famiglia; la situazione era nota a tutti e la ragazza non aveva compiuto i sedici anni richiesti per assolvere l’obbligo, ma il preside non fece nulla per convincere i genitori a far studiare la ragazza, né denunciò la situazione alle autorità… La dispersione scolastica, come oggi viene chiamata con un bell’eufemismo, è ancora attuale, soprattutto tra le famiglie più svantaggiate, che però vengono dopo rispetto a quelle che, al contrario, possono minacciare problemi e ricorsi…

L’abbandono scolastico tra Otto e Novecento dipendeva anche da motivi di salute, tra i quali ricorre una malattia agli occhi molto diffusa, che colpì anche Michele, il fratello più piccolo del bisnonno Natale. Credo si trattasse di qualche infezione, forse dovuta alle scarse condizioni igieniche in cui le famiglie erano costrette a vivere.

Infine, ed anche questo dimostra quanto fosse difficile la vita, alcuni bambini non finivano la scuola perché morivano. Forse si era abituati alla mortalità infantile, o forse a certe cose non ci si abitua mai… In questi casi sul registro si scriveva semplicemente «morto» o «morì»; una maestra cercò di “mitigare” scrivendo che l’alunna «mancò di vita», mentre un maestro usò l’espressione «passato a miglior vita», che forse non piacque al direttore e venne poi cancellata con un grosso pastello viola per essere corretta in «morto».

Cercando notizie su altri parenti, ho visionato anche i registri dei primi anni del Novecento, quand’era ormai in vigore la “Legge Orlando” (1904). Sebbene l’obbligo fosse stato prolungato al compimento del dodicesimo anno di età, l’abbandono continuò a imperversare. La mia bisnonna Carolina, che in prima elementare fu promossa con la media dell’otto, in terza si iscrisse, si ammalò all’inizio dell’anno e non frequentò più. Probabilmente, cercando nei registri degli anni successivi, potrei ritrovarla: l’obbligo fino a dodici anni prevede solo che fino a dodici anni si frequenti la scuola, indipendentemente dai risultati… come succede oggi fino ai sedici.

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A.S. 1906-07: scheda di prima elementare della bisnonna Carolina.

A.S. 1906-07: scheda di prima elementare della bisnonna Carolina.

Andando ad ingrandire le immagini, si vede che con la nuova legge non cambiarono gli insegnamenti, che vennero suddivisi in più voci da valutare singolarmente, o mutarono il nome, come la nostra educazione civica che da “Doveri e diritti dell’uomo e del cittadino” divenne “Nozioni di istituzioni civili dello stato e di morale civile”. Forse l’unica novità erano le nozioni di igiene, inserite tra quelle di scienze fisiche e naturali: si iniziava allora ad occuparsi anche di questi aspetti e la pulizia era oggetto di valutazione insieme alla diligenza ed alla puntualità.

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A.S. 1908-09: scheda di terza elementare di una probabile cugina della bisnonna.

A.S. 1908-09: scheda di terza elementare di una probabile cugina della bisnonna.

Da insegnante di oggi non rimpiango la scuola di allora, con più di sessanta alunni per classe e le punizioni corporali. Rimpiango la serietà che una volta circondava l’istituzione scolastica e gli insegnanti, rispettati e stimati all’interno delle comunità. Mi manca la consapevolezza di svolgere un mestiere importante, di offrire un aiuto valido e prezioso ai ragazzi ed alle loro famiglie, mentre oggi rompo solo le scatole – per dirla in termini educati. Mi mancano alcune cose, insomma, ma è una nostalgia strana, fatta di cose che forse non ho mai provato…

Situazioni (im)probabili 10

Dopo la mensa…

Lunedì di tempo prolungato. Finito di gustare le prelibatezze della mensa, siccome è una bella giornata di sole, io e il mio collega decidiamo di lasciare i ragazzi fuori, sul campo di atletica. Ci sono anche i bambini delle elementari, che, da bravi, tutti perfettamente e ordinatamente in fila indiana, rientrano a scuola con le maestre. Li guardo, sorridendo con tenerezza… e sto quasi per inoltrarmi in chissà quali elucubrazioni mentali quando, all’improvviso, una piccola, impercettibile, stonatura nel paesaggio mi mette in allarme: in mezzo alla fila dei bambini si è inserito quel simpaticone di Singh, con il suo bel turbante blu in testa, che procede marciando verso le elementari! Subito inverto la rotta, mi fiondo verso di lui e lo chiamo, urlando: «Singh! Singh! Torna subito qui!». Niente. Non mi ascolta. Riprovo, urlando di più: «Singh! Ti ho detto di tornare qui!!». Il piccolo indiano allora si volta e mi guarda, stupito, mentre una maestra si stacca dalla fila e si dirige verso di me per riuscire a fermarmi prima che io scateni l’irreparabile! A quel punto mi accorgo anch’io, mentre Singh e i suoi compagni ridono divertiti…

Non era Singh… era suo fratello Daniel, identico, ma leggermente più piccolo. Ma io dico, i genitori: non potrebbero almeno mettergli un turbante di colore diverso?!