Il paese del pane bianco

«Avevo sette anni e di quel lontano 1944 ricordo l’urlo delle sirene nelle incursioni aeree, i morsi della fame e il buio delle notti di coprifuoco. Noi bambini eravamo amici dei partigiani, i giovani eroi coi fazzoletti rossi al collo che cantavano le canzoni patriottiche per le vie cittadine. Era il periodo della resistenza in Ossola e della nostra sofferta “Repubblica”» (Irene Pagani).

Ottobre 1944: la Repubblica partigiana dell’Ossola resiste da quasi 40 giorni, ma ormai è chiaro che la fine si avvicina. La popolazione non è più al sicuro e si teme una rappresaglia durissima da parte dei nazifascisti. Basterebbe poco per salvarsi, basterebbe raggiungere il confine e valicarlo; e il confine non è lontano. La Croce Rossa lo sa e lo sa Gisella Floreanini, membro del governo della Repubblica con delega all’assistenza. Saranno loro insieme alla Croce Rossa Svizzera a mettere in salvo migliaia di bambini, e anche molte donne e uomini.
La storia di quei bambini è stata raccontata dalle loro voci cinquant’anni dopo. Uno di questi, Claudio Barone, lanciò un appello tramite un quotidiano per ritrovare gli altri. Così venne costruito Il paese del pane bianco. Testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della “Repubblica dell’Ossola” (Grossi editore). Il libro che porto a casa dalle vacanze, che mi ha tenuto compagnia nelle mie sere in Valgrande.
45 sono le storie riportate. Ben più di 45 i bambini coinvolti e le famiglie svizzere che li hanno ospitati, accolti come figli e fratelli e sorelle. Storie tutte diverse: alcune brevi, ma la maggior parte è un racconto accurato e dettagliato, rimasto a lungo nella memoria che i bambini hanno cresciuto dentro di sé.
Il paese del pane bianco offre inoltre un altro punto di vista sulla guerra e sui rapporti internazionali. I bambini dell’Ossola sono i bambini della Repubblica partigiana: sanno cos’è, come e perché sia nata, grazie a chi. Sanno riconoscere in mezzo al male dove sta il bene. Nei partigiani loro eroi, ma anche nella gente comune che, senza problemi grazie alla neutralità del proprio paese, non rimane indifferente ma decide di offrire una mano a chi è in difficoltà.

Siamo abituati a pensare alla Svizzera come al paese neutrale per eccellenza, che non si schiera, non partecipa perché non conviene. In questo caso la Svizzera e la sua gente hanno dimostrato di saper scegliere una parte, quella giusta.

«…fui avvolta in una coperta e presa in spalla da mio padre che a turno con altri partigiani mi portarono fin lassù. Dissero anche che ero la più piccola bambina partigiana del suo gruppo».
(Osvalda Vignadocchio)

«Albeggiava appena, quando – garantiti dal silenzio calato sulla zona –qualcuno degli abitanti e noi ragazzi più grandicelli ci spingemmo fin su la strada deserta.
E qui – voglio ricordarlo quasi con la stessa emozione che provai allora – vidi per la prima volta, in carne e ossa, un partigiano. Era un giovane con la barba, giubba e calzoni corti, scarponi ai piedi. Imbracciava un’arma – uno “sten” apprenderò più tardi – ed era diretto a villa Tibaldi
per una prima ricognizione».
(Ezio Rondolini)

«Si è messo con noi un partigiano che andava in Svizzera, era ferito e perdeva sangue dalla testa, aveva attraversato il fiume per salvarsi. I partigiani stavano facendo saltare il ponte napoleonico e quello della ferrovia. Questo partigiano ferito ha preso in spalla il piccolo Virgilio e l’ha portato così fino a Varzo.
Non abbiamo mai saputo chi era…».
(Primo Falcaro)

La storia

Elsa Morante tra i suoi libri.

La prima volta che sentii parlare de La storia di Elsa Morante avevo 16 anni. Il professore di lettere ci aveva assegnato la lettura di un passo. Ricordo solo che c’era un bambino che si chiamava Useppe e che mi aveva annoiata. Mortalmente.
Allora ero un’adolescente egocentrica, nel senso letterale del termine: il mio unico centro ero io e anche i libri dovevano parlare di me.
Mi avvicinai a Elsa Morante più tardi, all’università. Il professore di latino, con cui poi mi sarei laureata, propose un suo racconto nell’ambito di un corso dedicato al dialogo tra antichi e moderni: Prima della classe. La prima della classe ero io: un mostro mai visto che agli occhi degli altri doveva apparire quasi inumano.
Comprai la raccolta da cui il racconto era tratto e la diedi da leggere anche a mia nonna, perché i Racconti dimenticati sanno parlare a tutti, anche a chi ha una dignitosa quinta elementare.
Ci fu poi L’isola di Arturo, mentre La storia continuava a rimanere in libreria, a farmi paura. Quell’unico episodio letto troppo presto pesava e pesava anche il mio tardivo amore per la storia. Mi vergogno quasi a dirlo, La storia finì tra le mie mani per una promozione Einaudi. Servivano due libri e per la prima volta, di fronte al volume bianchissimo tra gli altri Einaudi, considerai l’idea di comprarlo e di leggerlo.
Lo divorai. Non riuscivo a staccarmene come raramente mi era successo. Ero dentro le pagine, non sentivo nulla di ciò che accadeva intorno, nulla mi disturbava perché non c’ero. Ero altrove.
Una settimana dopo averlo finito, a ripensarci, piangevo ancora.
La storia di Elsa Morante oggi è sullo scaffale dei libri che maggiormente hanno in-ciso su di me, mi hanno tagliata e scavata nel profondo.
Ultima piccola nota: i due professori che di fatto sono stati i miei Maestri hanno entrambi messo Elsa Morante sulla mia strada. Ma quant’è bello il modo in cui una persona ci avvicina a un libro? Alle parole degli altri?

Per Alda Merini

“…a me sembrava strano vederla subito in faccia quella donna, la poetessa. Ero abituata a conoscere gli autori attraverso le opere, incontrandone lo sguardo soltanto dopo, magari con anni di ritardo. I loro volti me li trovavo di fronte solo per caso e mi apparivano sempre diversi da come li avevo immaginati, lontani dai pensieri che nascondevano e io conoscevo per averli letti e sviscerati. Non erano loro gli autori delle poesie, gli autori non avevano volto.
Alda Merini invece era lì, davanti a me, e non mi guardava. Il suo sguardo era diretto da un’altra parte, oltrepassava l’osservatore e chissà quanto poteva arrivare lontano… La sigaretta accesa e appena iniziata tra le dita, un anello vistoso e un grosso braccialetto in primo piano e una collana, semplice, forse di perle, forse finte. Non si capiva se fosse truccata, ma le labbra erano molto scure, magari con un po’ di rossetto. Non sorrideva, non era in posa, non viveva per gli altri. Eppure era presente, apparteneva a questa terra, la stessa in cui, prosaicamente, vivevo anch’io. Nemmeno l’effetto del bianco e nero riusciva a relegarla nell’eternità in cui vivono i poeti: era viva, si vedeva. E aveva sofferto”.

Alessandra Scurati, La porta accanto, Pentagora.

Avevo circa vent’anni quando mi trovai per la prima volta un tuo libro tra le mani. Non sapevo chi fossi, abituata soltanto ai poeti morti, quelli della scuola. Tu invece eri viva. E scrivevi. Non lontana da me e da quella libreria vicino al Duomo. Era il 1997.
Il tuo libro quel giorno ‒ te lo dico con franchezza, come piace a te ‒ non mi convinse: preferii rifugiarmi tra versi già noti, di Emily Dickinson o Emily Brontë, non ricordo. Ricordo però quel primo ‘non incontro’ con te. Mai avrei potuto immaginare che molti anni dopo ti avrei messa nel
mio libro.
Sono passati tanti anni da allora e anche da quel primo di novembre che ti portò via da questa terra. E ora, che non ci sei più, ti ho finalmente incontrata.

Lo stesso articolo è pubblicato sul blog della casa editrice: qui.
Il libro è acquistabile sul sito della casa editrice senza pagare le spese di spedizione: qui.

L’immagine è una foto di G. Grittini, fotografo ufficiale di Alda Merini, per la copertina del libro.

Chiara cantante e altre capraie: la poesia che completa la Storia

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«Ogni giorno ripetevano quella stessa vita, sulle stesse vie, con le stesse preoccupazioni delle schiere di antenati che li avevano preceduti, e così credevano sarebbe stato per sempre».

È un libro prezioso quello di Doris Femminis, al confine tra saga familiare e romanzo storico.
Insegno storia da diversi anni e da un po’ mi dedico alle ricerche genealogiche sulla mia famiglia. Incontro nomi e date, eventi che sono sempre gli stessi: nascite, battesimi, matrimoni e morti. A ogni generazione, a ogni ramo la catena ricomincia: si nasce, si ottiene un nome (non sempre), ci si sposa, si partorisce se si è donne, e infine si muore.
È quanto accade alle mie antenate e alle donne di Chiara cantante. Fiera di tutti i nomi scritti sui rami del mio albero, spesso mi sono domandata chi fossero davvero quelle persone, se avessero un’anima, qualcosa che le rendesse uniche, diverse dalle altre: come si può essere qualcuno quando si vive tutti ciclicamente la stessa vita?
Chiara cantante mi ha accompagnata tra le sue pagine seguendo le mie domande. Conoscendo la storia di una mia antenata di metà Settecento, morta a circa quarant’anni, di parto, dopo avere dato alla luce l’ennesima creatura, morta anch’essa prima ancora di ricevere un nome, mi sono chiesta se la sorte della donne un tempo non fosse questa per tutte: «Come da Eva e per il lungo srotolarsi di razze, stirpi e provenienze, le donne avevano partorito figli provvisori, uccisi dall’aria, dalla fame o dalla storia, sacrificati sugli altari, trivellati dalle guerre […] strappati alla vita dalla vita, nel dissanguarsi del parto, morenti con l’orfano ancora nudo e bagnato quale ultimo miraggio e, contro ogni buonsenso, li avevano amati e rimpianti, così le madri della Bavona…».

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Gli atti di morte della mia antenata Teresa (sotto) e quello del suo bambino (sopra). Nova Milanese, ottobre 1790.

Dal 1910 al dopoguerra Elisa, Emma, Chiara e le altre capraie di questa saga a metà tra la Svizzera e l’Italia, fra le montagne e il Cielo, si susseguono sullo stesso scenario, compiendo gli stessi gesti, tentando ognuna di «accogliere con umiltà il destino che era stato di sua madre e della sfilza di donne che l’avevano preceduta», ma soffrendo ognuna il proprio dolore.
Cronache, manuali, archivi sono una miniera di informazioni, ma non possono restituire le voci di chi ha vissuto. I fatti che percorrono le pagine di Chiara cantante sono gli stessi che hanno percorso le pagine di molti: lavoro, emigrazione, miseria, due guerre mondiali…. ma i sentimenti li può restituire solo la letteratura.
Il dolore ha una voce diversa per ogni donna e rende diversa ogni storia. Tra le storie di Chiara cantante si distingue quella di Marta: sfiorata dalla grande Storia, che le ha portato un uomo, le ha lasciato un bambino; e quella di Agata, così affezionata alle sue capre da lasciarle soltanto in previsione di crescere dei figli.
Tra le voci si distingue quella di Chiara, l’unica voce che si fa canto, l’unica storia che non si farà destino…
Qui, dove la poesia completa la storia, le capraie di Doris Femminis incontrano le mie antenate e restituiscono loro una voce che, sebbene io non possa sentire, so che in qualche modo ha risuonato.

Sul sito di Pentagora è possibile acquistare il libro approfittando della promozione “Zero spese”: acquistando due libri dal catalogo e inserendo il codice ZEROSPESE al momento dell’acquisto, le spese di spedizione sono a carico dell’editore. I libri vengono inviati tramite piego di libri raccomandato e tracciabile e arrivano entro pochi giorni. Qui il link al catalogo, provare per credere:

CATALOGO PENTAGORA

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Cercavo Virginia Woolf

Ci sono tanti modi per scegliere un libro aggirandosi tra gli scaffali gremiti di un libreria. Si ascoltano i suggerimenti che vibrano nell’aria, i consigli dei librai; si seguono le ispirazioni peregrine che ci hanno condotti fuori casa. O forse no.

Io, quando esco, so già cosa voglio, ho in mente una lista di almeno quattro o cinque titoli che mi chiamano da un po’. Quello che sarà presente all’appello tornerà a casa con me. Tuttavia è facile che qualcun altro si aggiunga furtivo nel sacchetto… come resistere ai cromatismi di alcune copertine? O alle quarte di copertina, che con poche, calibrate parole sanno catturare tipi come me? Sono vulnerabile ai richiami delle parole e non voglio guarire. Penso di sapere come scegliere, ma alla fine sono i libri che scelgono me. Si fanno trovare al posto giusto, sotto il raggio del mio sguardo fuggitivo che si ferma.

Da un po’ mi sono innamorata dei libri usati; mi piace tornare a casa con un libro che ha una storia alle spalle, una vita precedente a quella che sta iniziando insieme a me. Un libro che non posso avere in mente prima di incontrarlo, perché non so nemmeno che esiste. Un libro che non saranno la trama o l’autore o un’amica a farmelo scoprire. Un libro che sa raccontare qualcosa di unico prima ancora di lasciarsi leggere.

Cercavo Virginia Woolf tra gli scaffali di un Libraccio, dove i libri nuovi si mischiano agli usati senza distinzioni di classe. Cercavo Virginia Woolf e la immaginavo al faro, in compagnia della Signora Dalloway; o chiusa nella sua stanza tutta per sé. Non immaginavo che l’avrei trovata insieme al cane di Madamigella Barrett. Non sapevo che aveva delle parole scritte solo per me e per nessun altro lettore. Come potevo deluderle? Lei, Elizabeth e Flush e Lukino e Lucone e soprattutto quelle parole?

Flush conosceva ciò che agli uomini non è mai dato conoscere –
l’amore puro, l’amore semplice, l’amore assoluto;
l’amore che nella sua gioia non conosce angustie; che non ha pudori; né rimorsi;
che ora è qui, e ora è scomparso, come l’ape sul fiore è qui e subito dopo è sparita…

(V. Woolf, Flush. Biografia di un cane, 1933)

L’albero e il bambino

L’insegnante scrive un racconto. Parla di alberi e di infanzia.

L’alunno lo legge e si ricorda di quando era bambino, di un libro che amava; e ne parla all’insegnante. L’insegnante cerca il libro, lo trova e scopre che è una storia famosa, conosciuta e tradotta in tutto il mondo. Il libro è L’albero. Allora lo compra, lo legge e lo regala a un bambino. Il bambino a sua volta legge il libro, tutto d’un fiato.

È sera, è tardi e nel buio della stanza entra la mamma. Si avvicina piano, in punta di piedi, ma il bambino non c’è. La mamma si volta, lo cerca. Ma non lo trova. Poi alza lo sguardo: e incredula vede il bambino che piange, abbracciato all’albero.

Dedicato a mio nipote Simone (il bambino) e a Gabriele (l’alunno), che mi ha fatto conoscere L’albero, di Shel Silverstein.

Memorie di una ragazza perbene

Quel giorno, dopo la scuola, mi andava di starmene un po’ in giro per i fatti miei e così ero arrivata fino alla libreria del centro. Dopo varie peregrinazioni sconsolate tra gli scaffali, avevo optato per un paio di letture filosofiche: il Candido di Voltaire e le Memorie di una ragazza perbene di Simone de Beauvoir, intravisto e considerato più volte, ma forse allora era il momento giusto, il suo momento (ogni libro ha un suo momento per essere letto…).           

Le Memorie della Beauvoir mi riportano al primo anno di liceo, quando il professore di religione, don Angelo, aveva aperto l’anno scolastico con un argomento da lui intitolato “L’avventura spirituale di Simone de Beauvoir”. Noi, dietro i banchi, avevamo solo quattordici anni e lui era troppo per dei ragazzini acerbi, decisamente troppo. Non potevamo capire nulla della profondità del suo pensiero, né di quello di Simone, la ragazza meravigliosa della quale lui ci parlava per un’ora intera, con gli occhi che brillavano.

All’università ho poi scoperto con stupore la vicinanza della Beauvoir a Sartre e all’esistenzialismo ed ho rimpianto la possibilità, ormai svanita, di prendere quello che don Angelo avrebbe potuto darmi. Non ricordo che ci avesse mai parlato di qualcosa di cattolico o di strettamente religioso. Ci dettava i suoi versi, di una cantica che stava scrivendo da tempo e di cui noi non capivamo nulla e lo prendevamo in giro.

Una volta invece ci aveva raccontato del suo coinvolgimento in un’indagine di polizia. Nel mio paese si era verificata un paio d’anni prima una morte sospetta, che stava per essere archiviata come suicidio. Don Angelo aveva ricevuto la confessione dell’omicida e così andò dai carabinieri dicendo di continuare ad indagare, perché non si trattava di suicidio. Ricordo di non avere pensato che avesse tradito il segreto della confessione, in fondo non aveva detto il nome del colpevole. Aveva invece lavorato a favore della verità. E della giustizia.

Ora che ho letto le Memorie di Simone, pur non ricordando quasi nulla di quelle lezioni ormai dissolte, credo di avere intuito perché don Angelo ci avesse proposto la sua figura come prima questione da cui aprire un varco, da cui gettare lo scandaglio: Simone era alla ricerca della Verità. Nonostante l’educazione cattolica ricevuta e con la sincerità della sua ricerca di fede, Simone sarebbe diventata atea a quattordici anni, l’età che avevamo noi in prima liceo.

Un sacerdote che apre le sue lezioni di religione, rivolte a studenti ancora in erba, con l’avventura spirituale di una ragazzina diventata atea: non riesco a immaginare una proposta di ricerca più libera e sincera…

Libri che parlano di libri

Ho un debole particolare per i libri che parlano di libri o, per dirla con Umberto Eco, è come se parlassero tra loro…

Quando, leggendo, mi imbatto in un altro libro – raccontato, citato, evocato – si apre un’altra, inaspettata lettura, un altro, più profondo evento narrativo. A volte l’occasione per una nuova scoperta. Così è stato per Due di due, letto perché punto di svolta nella vita del protagonista di Jack Frusciante è uscito dal gruppo, o per il Don Carlos di Schiller: il giovane Tonio Kröger non smetteva di stupirsi che il re Filippo avesse pianto. Altre volte, invece, sono piacevoli e vanitose conferme.

Amo i personaggi che leggono, come Cosimo, il barone rampante che salta da un libro all’altro sulle cime alte degli alberi, o Jacopo Ortis, che non si separa mai dalle Vite parallele di Plutarco; e i personaggi che, a modo loro, ascoltano, come Pamela, che sembra emozionarsi di più per le pagine che volano che per le storie di intrepidi paladini: “La lama della falce incontrò il libro e lo tagliò di netto in due metà per il lungo. La parte della costola restò in mano al Buono, e la parte del taglio si sparse in mille mezze pagine per l’aria […] Le pagine del Tasso con i margini bianchi e i versi dimezzati volarono sul vento e si posarono sui rami dei pini, sulle erbe e sull’acqua dei torrenti. Dal ciglio d’un poggio Pamela guardava quel bianco svolare e diceva: – Che bello!”.

Solo ieri un altro incontro inaspettato, un altro momento che si è aperto durante la lettura portandomi da un’altra parte. Lo lascio qui, chissà che qualcuno – un ragazzo, un anziano, un amico – raccolga questi libri e si metta a leggere…

“Poco lontano del finto tedesco c’era la bancarella dei librai pontremolesi; padre, madre e figlia. Erano i Tarantola e arrivavano la vigilia della fiera con il carretto coperto da un telone. A tirare fin quassù il pesante carico era un cavallino bianco che nella lunga salita era necessario aiutare.
    Giacomo e Mario si erano visti tra la folla e si chiamarono da lontano […]
   Girarono per i banchi, chiedevano i prezzi e non sapevano decidere. Infine Mario lo convinse per uno scialle di lana sull’azzurro con le frange bianche.
   – Le terrà calde le spalle e si ricorderà di me, – disse Giacomo.
   – Io ho due lire per comperare libri. Andiamo.
   Spingendo, perdendosi tra la calca dove la gente si fermava ad ascoltare i venditori che meglio sapevano incantare, giunsero davanti alla bancarella dei Tarantola. I libri erano esposti in bell’ordine: favole, avventure e viaggi, romanzi d’amore, romanzi storici, poemi cavallereschi, polizieschi, occasioni e, persino, vocabolari di lingue straniere.
   Dopo averli passati in rassegna tutti, si fermarono davanti ai libri d’avventura. Mario era molto indeciso tra Michele Strogoff e Robinson Crusoè ma costavano qualcosa di più di due lire l’uno, avrebbe dovuto chiedere ancora trenta cen­tesimi a sua madre. C’era invece una serie di libri «Scrittori italiani e stranieri a cura di Gian Dàuli» e, con lo sconto del cinquanta per cento, se ne potevano comperare due. Forse era difficile scegliere quelli giusti. Mario li prendeva in mano, li sfogliava, leggeva la copertina, li riponeva. I Tarantola lo lasciavano fare, anche perché lo conoscevano ancora dalle fiere precedenti.
   – Dài sbrigati, – a un certo punto gli disse Giacomo, – che devo incontrarmi con Irene e con mio padre dove vendono i maiali.
   Mario infine si decise per Il libro della Jungla e Il richiamo della foresta: – Quando li avrò letti li presterò anche a te. Dovrebbero essere belli.
   La signora Tarantola gli restituì anche venti centesimi:
   – Vai a comperarti un grappolo d’uva -. Comperarono due grappoli d’uva americana dalla Betta del Toi” (M. Rigoni Stern, Le stagioni di Giacomo, 1995).

Il mondo

Vengo da un piccolo mondo, il mondo chiuso dentro il triangolo che univa la mia casa alla scuola all’oratorio. Un mondo di persone piccole, dai pensieri ancora più piccoli. Un mondo di gente che “mica ti chiedono la vita di Leopardi al colloquio di lavoro” e di brave bambine sedute al loro posto, a fare in fretta tutti i compiti per prepararsi al matrimonio. Un mondo in cui si pregava Dio la domenica mattina e al pomeriggio si guardava di traverso chi si avvicinava. Un mondo dentro il quale mi sentivo autentica solo quando mi ritrovavo fuori. In cui la mia vita vera era quella immaginata, fatta di concerti sognati da lontano, di persone che non frequentavo, di lunghe camminate intorno al tavolo a fantasticare intorno a chi avrei voluto essere.

Sarebbe stato facile scappare da quel mondo. Mi sarebbero bastati quei libri che non leggevo mai, pensando, stupidamente, che le persone fossero meglio. Quei libri muti rinchiusi dentro l’unica libreria del paese, tanto piccola e insignificante che ci si andava giusto a settembre a prenotare i testi per la scuola.

La provincia. Nell’Italia delle differenze culturali l’unico luogo in cui tutti ci somigliamo almeno un po’.

In provincia c’è tutto: scuole, circoli sportivi, negozi di ogni genere, fabbriche e fabbrichette, stadi… e in questo modo, tra queste (pre)moderne comodità, il provinciale medio nemmeno si accorge di essere provinciale.

A 20 km dal mio insulso e cancellabile paese stava Milano, la Città; e noi eravamo talmente provinciali che Milano era buona solo per le bigiate, per le rimpatriate con gli amici del mare, che la metropolitana ci sembrava una giostra del luna park. “La grazia o il tedio a morte del vivere in provincia”, cantava qualcuno che naturalmente non conoscevo. Magari ci fossimo annoiati! Ci saremmo accorti che a uno sputo da noi c’era qualcos’altro. E invece siamo rimasti lì: a guardarci in faccia su qualche vecchia altalena, a raccontarci avventure da gita scolastica, a inventare amici del mare fedeli come cani… ad ammuffire in oratorio.

Il mio mondo ha incominciato ad allargarsi piano piano quando dalla scuola mi sono spostata all’università e Milano e i libri hanno fatto il loro ingresso, rallentato, nella mia vita. A un certo punto mi sono resa conto, e non è così ovvio: le mie amiche di un tempo forse sono ancora all’oratorio e anziché far giocare i bambini, anziché fare le educatrici, fanno le mamme del bar.

Vivo in un piccolo mondo, il mondo messo insieme lungo la strada che da casa mi porta al lavoro. Un mondo che, nonostante internet e i libri, mi impedisce di incontrare la realtà. La realtà arrabattata in qualche modo dalle persone diverse da me, quelle che, quando hanno male ai denti, vanno al pronto soccorso, o se lo tengono. Le persone che vivono in televisione, o in una sala d’attesa; le persone di cui sento parlare senza vederle da vicino, o che sfioro appena attraverso i loro figli. Quei ragazzi il cui nome compare a settembre sul registro di classe e non sempre riappare a giugno perché si sono ritirati. Sono i figli del degrado, eterni migranti da una casa all’altra, lungo il sentiero dissestato dei sussidi comunali.

Io il mondo una volta l’ho attraversato tutto intero, sulla strada che mi portava al lavoro: giovani uomini con giacche molto più grandi della loro taglia, camminavano in fila a piccoli gruppi, senza parlare. Avevano le facce dei miei alunni… Fuggiti dalla guerra, rifiutati dall’Europa, sgraditi ai piccoli comuni di provincia che li ospitano. Oggi stazionano stanchi e sfibrati sugli scogli, a sognare di varcare la frontiera, di rientrare e vivere e perdersi nella marea delle vite; di lasciare il piccolo recinto che invece noi abitiamo, convinti che sia immenso e tutto qui il mondo.