La bicicletta nella Resistenza: 25 aprile a Cardano al Campo

Il 25 aprile a Milano è unico.
La prima volta che sono stata al corteo, sono rimasta folgorata da tanta umana partecipazione. C’era uno striscione enorme, largo quanto la strada, che per un po’ ho portato anch’io dando il cambio a una signora che era stanca. Era lo striscione arcobaleno, con la parola pace nel mezzo e i bambini che giocavano a passarci sotto correndo.

Da un po’ di anni però preferisco le celebrazioni di paese. È bello che una piccola comunità si stringa intorno ai propri caduti, persone che hanno ancora degli eredi, cognomi che tutti conoscono.

Anche stamattina la Festa della Liberazione è stata celebrata, con le istituzioni, l’ANPI e i ragazzi delle scuole. Nei discorsi del sindaco e dell’assessore alla cultura risuonavano altri discorsi, parole pronunciate tanti anni fa che bisogna continuare a ripetere perché non sono scontate, perché non siano state pronunciate invano, perché vengano rinnovate nelle lotte di oggi. Oggi che molti esponenti delle istituzioni – a vari livelli – non hanno celebrato, hanno fatto a gara per non esserci, per sminuire il sacrificio di chi ha consegnato anche a loro la libertà.

Poi il corteo è sceso dalla scalinata del palazzo comunale, accompagnato dalla banda, e si è avviato prima al cimitero a portare i fiori ai partigiani e infine a scuola. Questo ha di unico il nostro 25 aprile a Cardano, che protagonisti insieme ai partigiani sono i ragazzi, che ogni anno lavorano con l’ANPI per approfondire un aspetto, per ricostruire un tassello perduto della Resistenza. L’anno scorso avevano invitato un partigiano, “Cin”, che, dopo avere parlato loro della Resistenza a scuola, ha accettato l’invito ed è venuto a parlare a tutti.

Quest’anno, dopo il discorso di rito del sindaco del CCRR (il Consiglio Comunale dei Ragazzi e delle Ragazze), tanti piccoli “ciceroni” ci hanno illustrato la mostra “La bicicletta nella Resistenza”.

La bicicletta, che un tempo non tutti avevano, fu la fidata compagna di tante staffette, dei portaordini, di chi con molto coraggio ha contribuito alla causa. I ragazzi (Luca e Alessandro per il mio gruppo) ci hanno raccontato di come gli ordini e le informazioni venissero nascosti nel telaio, le armi nei cestini, mimetizzate in nascondigli improbabili come dentro un cavolfiore!

Poi ci hanno parlato dei ciclisti, di professione, che come Seghezzi e Bartali hanno dato il loro contributo alla lotta. Ed è proprio la storia di Bartali, a fumetti, che chiude la mostra.

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Sono queste immagini di vita piena l’eredità dei partigiani e delle partigiane:
una bicicletta e tanti ragazzi che raccontano…

W il 25 aprile! Continua a leggere

Pioggia di novembre

…e venga la pioggia a novembre
a lavarmi i pensieri dal fango e dal mal.

E se, e ma…
mi pare sarà…
eppure non piove e nuvole
non ne vedo di qua…
è una striscia di cielo
non diversa da prima,
solo freddo d’autunno
e bianco color di farina.

Guardo sopra al sesto piano
una goccia e poi l’altra si spiaccica in faccia,
fa un rumore di sveglia
che tintinna sul ferro
di una gronda lontana…

e viene la pioggia a lavare
le macchine in fila,
gli allarmi strillare…
e bagna le aiuole spellate,
le multe stracciate,
il cielo dei bar…

sulla strada di pietra segnata
come panforte di tagli e binari,
piove sulle varesine e gira gira
la giostra senza fine…

Cade sopra i tram che passano lenti,
di ferro e di legno pazienti,
con un occhio solo,
buoni da guardare,
dinosauri in fila ad asciugare…
piove sui pensieri dietro ai fanali
delle tangenziali…

e bagna nei cortili i gerani,
le nere ringhiere,
le lingue straniere,
i viados di Gioia,
la casbah di Buenos Aires,
le edicole accese,
le borse e le spese…

Piove sulle campane
delle pievi romane,
sulle grazie, sui ceri,
sui voti e sui desideri.

Cade sopra i piedi dei bambini
che ci sono ma non li vedi,
sugli ortomercati
dentro i fabbricati,
sopra le collette di spicci e sigarette,
su uomini e su cani
e piove sulle urla dei villani…

sul cimitero monumentale,
sugli attacchini, sugli spazzini,
sulle chiese dei filippini,
sui tavolini dei baracchini,
sui gatti tristi dentro i cortili,
sulle collane degli abusivi,
sul padiglione degli infettivi,
sopra i germani dentro i navigli…

sui treni caldi dei pendolari,
sopra i silenzi dei tassinari,
sulle africane per mezzo ai viali,
sopra i parenti negli ospedali
e piove stasera anche sul chiuso della galera…

e venga la pioggia a novembre
a lavarmi i pensieri dal fango e dal mal.

(V. Capossela, Il ballo di San Vito, 1996)

Il mondo

Vengo da un piccolo mondo, il mondo chiuso dentro il triangolo che univa la mia casa alla scuola all’oratorio. Un mondo di persone piccole, dai pensieri ancora più piccoli. Un mondo di gente che “mica ti chiedono la vita di Leopardi al colloquio di lavoro” e di brave bambine sedute al loro posto, a fare in fretta tutti i compiti per prepararsi al matrimonio. Un mondo in cui si pregava Dio la domenica mattina e al pomeriggio si guardava di traverso chi si avvicinava. Un mondo dentro il quale mi sentivo autentica solo quando mi ritrovavo fuori. In cui la mia vita vera era quella immaginata, fatta di concerti sognati da lontano, di persone che non frequentavo, di lunghe camminate intorno al tavolo a fantasticare intorno a chi avrei voluto essere.

Sarebbe stato facile scappare da quel mondo. Mi sarebbero bastati quei libri che non leggevo mai, pensando, stupidamente, che le persone fossero meglio. Quei libri muti rinchiusi dentro l’unica libreria del paese, tanto piccola e insignificante che ci si andava giusto a settembre a prenotare i testi per la scuola.

La provincia. Nell’Italia delle differenze culturali l’unico luogo in cui tutti ci somigliamo almeno un po’.

In provincia c’è tutto: scuole, circoli sportivi, negozi di ogni genere, fabbriche e fabbrichette, stadi… e in questo modo, tra queste (pre)moderne comodità, il provinciale medio nemmeno si accorge di essere provinciale.

A 20 km dal mio insulso e cancellabile paese stava Milano, la Città; e noi eravamo talmente provinciali che Milano era buona solo per le bigiate, per le rimpatriate con gli amici del mare, che la metropolitana ci sembrava una giostra del luna park. “La grazia o il tedio a morte del vivere in provincia”, cantava qualcuno che naturalmente non conoscevo. Magari ci fossimo annoiati! Ci saremmo accorti che a uno sputo da noi c’era qualcos’altro. E invece siamo rimasti lì: a guardarci in faccia su qualche vecchia altalena, a raccontarci avventure da gita scolastica, a inventare amici del mare fedeli come cani… ad ammuffire in oratorio.

Il mio mondo ha incominciato ad allargarsi piano piano quando dalla scuola mi sono spostata all’università e Milano e i libri hanno fatto il loro ingresso, rallentato, nella mia vita. A un certo punto mi sono resa conto, e non è così ovvio: le mie amiche di un tempo forse sono ancora all’oratorio e anziché far giocare i bambini, anziché fare le educatrici, fanno le mamme del bar.

Vivo in un piccolo mondo, il mondo messo insieme lungo la strada che da casa mi porta al lavoro. Un mondo che, nonostante internet e i libri, mi impedisce di incontrare la realtà. La realtà arrabattata in qualche modo dalle persone diverse da me, quelle che, quando hanno male ai denti, vanno al pronto soccorso, o se lo tengono. Le persone che vivono in televisione, o in una sala d’attesa; le persone di cui sento parlare senza vederle da vicino, o che sfioro appena attraverso i loro figli. Quei ragazzi il cui nome compare a settembre sul registro di classe e non sempre riappare a giugno perché si sono ritirati. Sono i figli del degrado, eterni migranti da una casa all’altra, lungo il sentiero dissestato dei sussidi comunali.

Io il mondo una volta l’ho attraversato tutto intero, sulla strada che mi portava al lavoro: giovani uomini con giacche molto più grandi della loro taglia, camminavano in fila a piccoli gruppi, senza parlare. Avevano le facce dei miei alunni… Fuggiti dalla guerra, rifiutati dall’Europa, sgraditi ai piccoli comuni di provincia che li ospitano. Oggi stazionano stanchi e sfibrati sugli scogli, a sognare di varcare la frontiera, di rientrare e vivere e perdersi nella marea delle vite; di lasciare il piccolo recinto che invece noi abitiamo, convinti che sia immenso e tutto qui il mondo.

La ruota dei nascosti (8)

(Continua da qui)

Il tempo passa e lentamente arriva il momento di ricucire trame, fili e destini che si sono incrociati.
         Mentre i signori Biassoni preparano il viaggio per Milano, a Santa Caterina madre e figlia vivono separate. Nel Comparto la ricoverata 292 attende impaziente di uscire e non fare ritorno mai più. Dovrà rimanere ancora una settimana, per riprendersi dal parto e verificare le condizioni di salute, ma questo tempo le sembra infinito. Come tutte infatti anche lei conosce i rischi che si corrono in un luogo simile: fino al parto Santa Caterina rappresenta la salvezza; dopo il parto diventa la paura. La struttura è sovraffollata e la possibilità di contrarre infezioni e malattie contagiose è altissima. Una in particolare semina timori e preoccupazioni tra le degenti: la sifilide. Le madri nubili, in cambio dell’assistenza ricevuta, devono fermarsi qualche mese come nutrici, rischiando di essere infettate dai bambini malati. Così cercano con qualunque scusa di andarsene, ma esimersi dall’obbligo non è facile: bisognerebbe ritirare il proprio bambino dopo averlo riconosciuto o pagare una tassa di 20 lire. Naturalmente, se queste donne si trovavano qui, è perché entrambe le vie non sono percorribili e così possono solo augurarsi qualche malattia o disturbo che impedisca l’allattamento, com’è capitato alla numero 292: dalle visite di controllo la donna è risultata anemica e l’anemia è stata, forse, la sua salvezza.
         Nell’Ospizio, a pochi passi dalla madre, Natalina corre inconsapevole gli stessi rischi. Anche gli infanti sono esposti alle malattie, sensibili alle infezioni intestinali che in esseri tanto fragili e minuti possono divenire causa di morte. Il contagio si diffonde rapido, attraverso l’aria umida e malsana che si respira nella zona, a ridosso dei bastioni dove incominciano i prati a marcita.

Milano alla fine dell’Ottocento era un’altra città, una città d’acqua, suggestiva e umida come Venezia. La fossa interna dei navigli fiancheggiava le strade principali, seguendo il lungo perimetro del centro storico. Un sistema di conche e ponticelli consentiva il passaggio a persone, merci e animali, e le vie d’acqua si incrociavano continuamente con quelle di terra. Nel quartiere di S. Eustorgio, dove c’è ancora la vecchia darsena, in via S. Marco e in altri luoghi della città i canali si allargavano in pittoreschi laghetti. Il Naviglio era protagonista attivo della vita quotidiana: le donne si trovavano al lavatoio, gli uomini pescavano. Tutti lo percorrevano, affiancandolo o navigando. La leggenda narra che ancora oggi una rete invisibile di canali scorra sotto la città, una sorta di doppio sotterraneo, o di retromondo raggiungibile attraverso passaggi segreti e proibiti… Come spesso accade, la poesia svanisce non appena ci si avvicina un po’ e si osserva con più attenzione: le pigre acque dei canali scorrono lente, non hanno un bell’aspetto, non appaiono limpide, e si infiltrano nel suolo inquinando i pozzi delle case e dei palazzi confinanti.

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Natalina è nel comparto inferiore, nella balieria interna insieme ai bambini sani, ma nemmeno qui è al sicuro: per la scarsità di posti deve dividere la culla con un altro neonato. Alcune  malattie per loro natura non si manifestano subito e non si può essere certi che tutti i bambini della balieria siano realmente sani. Per impedire che il ricovero nel brefotrofio si tramuti in pericolo, gli esposti vengono affidati il prima possibile alle balie esterne, che arrivano numerose dalla campagna. Se Milano ha avuto un ruolo determinante nell’assistenza alla nascita, anche la campagna ha fatto la sua parte nella storia di tanti “trovatelli”.
           Il mattino del 23 novembre dalla campagna è in partenza il nuovissimo “Gamba de legn’”, il tram a vapore che ha rivoluzionato i trasporti verso la città. I signori Biassoni sono già a bordo ed attendono, con un po’ di trepidazione, di partire. In casa si sono alzati tutti prestissimo, i bambini per primi, eccitati anche se scontenti di non poter andare anche loro. In attesa alla fermata percorrono il tram avanti e indietro, guardando e toccando tutto. Per fortuna c’è la Rachele, che li tiene d’occhio e penserà a loro per l’intera giornata. Qualche minuto, il fischio del macchinista e si parte.
         Adess ghè temp un’ora e a sem a Milan, – commenta il signor Giuseppe.
La mattinata è fredda, grigia e brumosa, come tutte le mattine di fine novembre. Sul tram si sta al caldo, avvolti nei cappotti e dai compagni di viaggio. Alcuni sono già i primi pendolari per lavoro, riconoscibili dall’aria assonnata e silenziosa. Altri sono viaggiatori d’occasione e sono quelli con gli occhi e la mente ben aperti, attenti a captare le novità e le stramberie da raccontare al ritorno. Il signor Giuseppe è tra questi; si diverte a commentare tutto ciò che vede come un bambino capace ancora di stupirsi. Fino ad ora il tram l’aveva sempre visto passare dal paese, fermandosi, ogni volta, ad ammirarlo; ma non aveva mai avuto occasione di salirci. Tutto gli appare nuovo, moderno, incredibile. E un po’ magico.
            Al dì d’incœu sa fa svelt a mœuves. Alter che birocc!
La signora Teresa gli sorride con bonaria condiscendenza, ma non partecipa all’entusiasmo. Non parlerà per tutto il viaggio, chiusa in chissà quali pensieri mentre osserva i campi e le case svanire lungo la corsa. Dai finestrini il paesaggio è molto diverso da quello che vedevo io percorrendo lo stesso tragitto qualche anno fa, prima che il Gamba de legn’ venisse messo a riposo.

Il "Gamba de legn'" a Milano nel 1951.

Il “Gamba de legn'” a Milano nel 1951.

Ad ogni fermata il convoglio si arresta e lascia scendere e salire i passeggeri. Da viaggiatore inesperto il signor Giuseppe teme di perdere la sua fermata e chiede continuamente a chi sale e chi scende dove ci si trovi. All’improvviso vede che molti intorno a lui iniziano a prepararsi e ad alzarsi e capisce che manca poco. Le porte si aprono, c’è un po’ di ressa, di “pigia pigia”. Qualche passo ancora guardando bene in basso per non mancare il predellino. Poi a terra lo sguardo si alza e a sorprenderlo c’è Milano. La signora Teresa è incantata, imbarazzata quasi. Si sente piccola, tanto piccola, molto di più della creatura che la attende. Ferma immobile sul marciapiede, viene risvegliata dal marito:
           Su, Teresa, a ghè un olter tram da ciappaa!
La donna si riscuote e segue il Giuseppe che ha già chiesto indicazioni per Porta Romana: bisogna attraversare la strada e attendere alla fermata di fronte, il biglietto si farà a bordo. La Teresa si lascia travolgere, dalla folla e dallo spettacolo della città che scorre dai finestrini. Non riesce a vedere molto, per la verità, non ha trovato posto a sedere e deve tenersi alla maniglia per non perdere l’equilibrio; ma ogni tanto cerca di sporgere la testa per guardare. Il signor Giuseppe non può badarle, deve controllare la fermata lui. Questa volta non c’è la sicurezza del capolinea, bisogna sapere dove scendere. Per fortuna ci sono gli altri, i milanesi, e basta chiedere: dove sta Santa Caterina lo sanno tutti.

Il naviglio di fronte alla Pia Casa in un dipinto di G. Grossi (1889-1969).

Il naviglio di fronte alla Pia Casa in un dipinto di G. Grossi.

Una volta di fronte all’edificio nuovi timori si presentano. Qui nessuno sa mai dove andare, quale porta scegliere. Ma loro sono in due e insieme c’è più coraggio. Entrano e per mano attraversano il cortile dove tutta la storia è cominciata. Una giovane donna vestita di bianco va loro incontro e li accompagna al parlatorio. Il Giuseppe e la Teresa si guardano intorno e poi tra loro, pensando, forse, le stesse cose. La sala è stretta, sporca. I muri sono scrostati, umidi; ammuffiti. C’è poca luce, e meno aria.
             La levatrice arriva subito, accompagnata dal signor Vignali dell’ufficio di consegna. Tutto avviene in grande fretta e senza cerimonie. Si presenta il certificato medico, si danno i propri dati anagrafici da segnare sul registro e ci si rimette in paziente attesa. Dopo circa mezzora la levatrice è di ritorno, seguita da una servente con un’infante in braccio: è una bambina.
            – Come si chiama? – chiede la signora Teresa.
            – Natalina. Natalina Nascondi. Questo è il suo libretto di scorta, dove segnerete tutte le spese sostenute per ricevere il baliatico a fine mese. Siate precisa, per favore.
           – Sì.
           – E questo è il resto del corredo –, aggiunge la levatrice porgendo una busta al signor Giuseppe – Ora seguite la signorina per la richiesta del viatico.
           È passato mezzogiorno quando i signori Biassoni escono dallo stesso portone da dov’erano entrati. Natalina dorme, non si è accorta di nulla. Non sa di trovarsi tra le braccia dei suoi genitori. La signora Teresa si ferma e si volta a guardare quel posto che non le piace:
           Pepin…
           ’Sa gh’è?
           Mi chì a la porti indree pù.
E così è deciso. Natalina ha trovato una famiglia. Una mamma che la crescerà e la manderà a scuola e un papà che le vuole già bene. Tra poco la Rachele si sposerà e andrà a stare in un’altra casa, ma papà Giuseppe tiene tra le braccia la sua nuova preferita… e guai a toccaaghela!, mi dice oggi il signor Sergio, discendente dei Biassoni.
           La mia bisnonna è stata amata e cresciuta come una vera figlia. Ha studiato e guadagnato il “premio di istruzione e buon allevamento” indetto dal brefotrofio; ha lavorato come tessitrice in un noto setificio; si è sposata ed ha partorito sette figli. Ha sofferto, come tutti nella vita. Ha perso due gemellini appena nati ed è stata anni in attesa di mio nonno, catturato dopo l’8 settembre 1943. Ha trepidato ogni volta che il marito e il figlio maggiore non rientravano dall’osteria. Era buona. Questa è la prima cosa che di lei mi hanno detto tutte le persone che l’hanno conosciuta.

La mia bisnonna nel 1942 (album di famiglia).

La mia bisnonna nel 1942 (album di famiglia).

Milano, 20 novembre 1884. Una donna esce dal portone della Pia Casa in Santa Caterina alla Ruota. Ha la stessa aria furtiva del giorno che è entrata. Si muove piano, con circospezione; un’occhiata intorno e rapida si avvia lungo la strada costeggiata dal Naviglio. All’improvviso qualcosa la ferma e si gira indietro, a guardare per l’ultima volta quel luogo. Poi, però, riprende il suo cammino, volta l’angolo dietro l’edificio e scompare per sempre. Non può sapere che tornerà.
           Tornerà tante volte nei pensieri di Natalina, che non potrà evitare di domandarsi – ogni tanto – chi fosse quella donna che la portò in grembo così a lungo per abbandonarla tanto in fretta. E tornerà ancora, molto tempo dopo, nei miei pensieri: questa trisavola senza nome, operaia o sarta o domestica che fosse. Avrei voluto riuscire a darle un’identità, a scoprire di più di quei pochi dati recuperati dal fascicolo della mia bisnonna, custodito ancora oggi dall’Archivio Storico del vecchio brefotrofio di Milano. Invece so solo che era povera e milanese; di sicuro una lavoratrice, come molte donne che si trovarono nella medesima, triste situazione. Ma la sua memoria non è andata persa. Si è mischiata con le storie di tante altre come lei che hanno avuto, forse, una vita sfortunata, ma hanno lasciato qualcosa nel mondo: un bambino, un’altra vita tutta da scrivere.

Fine

La ruota dei nascosti (7)

(Continua da qui)

Gli eventi a Santa Caterina si succedono serrati. In giornata il battesimo; poi la notifica dei nuovi nati al Comune ed infine, entro pochi giorni, il passaggio agli Esposti.
    Verso sera serventi e  “comarine” si avviano alla stanza dei neonati, per far da madrine. Sono tutte giovani esposte, figlie della Pia Casa, come si legge sul registro dei battesimi accanto al nome. Compiuti i quindici anni sono state riportate al brefotrofio dagli “allevatori”, che non avevano più il dovere, o talvolta la possibilità, di tenerle. Entrare alla “Regia Scuola di Ostetricia” per queste ragazze rappresenta un’occasione, una delle poche che una giovane orfana possa incontrare a Milano a fine Ottocento. Tra queste c’è anche Maria.
    I bambini nati nel comparto il giorno 12 sono tre: tre situazioni e tre sorti del tutto diverse. Come sempre sono i documenti, custoditi gelosamente per oltre un secolo dall’Archivio Storico Diocesano, a consentirmi di ricostruirle.
    ‒ Ce n’è di legittimi? ‒ chiede don Carlo alla levatrice.
    ‒ Una.
La prima a ricevere il battesimo è Maria Rosa, figlia legittima di una coppia sposata, che ha chiesto il ricovero a S. Caterina non potendo pagare né balia, né levatrice. La madre resterà a fare da nutrice per qualche tempo, in cambio dell’assistenza ricevuta, e poi finalmente potrà tornare a casa, nel quartiere di San Vittore, con il marito e la bambina.
    Don Carlo procede spedito, sembra abbia fretta: al comparto il rito del battesimo si riduce alla formula e ad una rapidissima unzione con l’aspersorio. Dopo il segno della croce è già il turno del secondo neonato. La madre, illegittima numero 269, chiede che gli venga messo il nome di Angelo. Forse vuole lasciare un segno, un indizio della paternità. Chissà se immagina, o sogna, che un giorno il padre lo riconoscerà come suo. Sul registro, alla voce “cognome e nome del padre”, don Carlo trascrive Ignoto; ma le annotazioni aggiunte a margine mi daranno ragione, restituendo un’identità ad entrambi i genitori.
    Quando è il momento Maria si avvicina all’ultima creatura, la bambina nata dalla ricoverata illegittima numero 292. Sorride, Maria; Maria che non si abitua mai a questo momento. Prende la piccola tra le braccia e la stringe a sé, con un gesto di delicatezza e pietà che forse un’altra giovane donna ha avuto verso di lei il giorno che è nata. Vorrei sapere come è fatta, conoscere che pensieri nasconde, quale animo custodisca la ragazza che per pochi istanti ha tenuto tra le braccia la mia bisnonna. Ma da qui, da dove osservo di nascosto una scena che, studiando questa storia, ho tante volte immaginato, non riesco a vedere nemmeno la madre, non so se sia presente oppure no. So solo che la bambina non ha ancora un nome e forse senza nome viene battezzata. Come prescrive la legge, sarà l’ufficiale dello Stato Civile a sceglierlo.

Dopo il 1825 la consuetudine di dare a tutti i figli dell’Ospedale Maggiore il cognome Colombo, a richiamare la colomba simbolo dell’ospedale, è caduta in disuso e le nuove norme richiedono un cognome inventato, che abbia la stessa iniziale del nome. Non è difficile immaginare che in un’epoca in cui essere “trovatelli” non era affatto raro, nome e cognome inizianti con la stessa lettera dell’alfabeto fossero un segno di riconoscimento e talvolta un marchio incancellabile. In alcuni comuni, di piccole dimensioni, veniva usata la stessa lettera per tutto l’anno, o per tutto il mese. Ma nelle grandi città come Milano, l’elevata quantità dei nati illegittimi richiedeva di cambiare continuamente, ogni giorno, oltre che un grande esercizio di fantasia. Talvolta l’ufficiale delegato apriva il calendario e prendeva il nome del santo del giorno; altre volte era l’umore a decidere e ad imporre un cognome di cui il possessore si sarebbe vergognato per tutta la vita. Tuttavia molto spesso non è possibile ricostruire le ragioni di una scelta dettata, con molte probabilità, dal caso o dal momento.

Quando vede arrivare il signor Vignali del brefotrofio, l’ufficiale dello Stato Civile mette da parte le pratiche su cui sta lavorando e con un gesto della mano gli fa cenno di venire avanti. Il signor Vignali già lo sa, è abituato: da anni, ogni tre o quattro giorni, si presenta qui con il registro delle nascite sotto braccio. Un breve scambio di battute, qualche osservazione sull’inverno alle porte e si procede. L’ufficiale si augura sempre che i nuovi nati abbiano almeno il nome, così da dover inventare solo il cognome, ricalcando e leggermente modificando l’ultimo assegnato con una certa iniziale.
    Per una volta tant te se stà fortunaa, tè vist? ‒ commenta il signor Vignali.
I bambini nati o lasciati al brefotrofio tra il 12 e il 13 novembre hanno quasi tutti un nome, tranne due. Per questi due ci sarà da pensare…
    Che dì a l’è incoeu? ‒ chiede l’ufficiale.
    El tredes, ‒ risponde pronto il signor Vignali che si aspettava la domanda.
    La “o”… la “o” a l’è dificil!
    Ciappa el calendari…
    Ma no!
    Ciappa el calendari, damm atrà.
L’ufficiale si alza, stacca il calendario dal muro e si risiede. Legge il nome in corrispondenza del giorno… e ride! Ironia della sorte il santo di oggi ha il nome che inizia per “o”: Omobono, patrono di Cremona. Sistemato il piccolo Omobono, viene il turno dell’altra creatura senza nome.
    La tosetta a l’è nassuda in ier? ‒ chiede l’ufficiale.
    In ier, ‒ conferma il Vignali.
    In ier a l’era ul dodes… a pödi ciammala Natalina, come la mè mamma.
    E da cognomm?
Per il cognome l’ufficiale non ha niente di pronto e così prende a sfogliare il registro all’indietro. Ci vuole un po’ di pazienza e il signor Vignali, che lo sa, si mette comodo sulla sedia. Dopo una manciata di pagine l’ufficiale trova quello che cercava:
    A l’ultim cont la “n” a ghem metuu Nascendi… questa la ciammi Nascondi.
E così è deciso: la mia bisnonna si chiamerà Natalina Nascondi.

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A lungo ho pensato che qualcuno avesse voluto nascondere la sorte della bambina dentro il nome. Ma in fondo cos’ha di diverso la sorte di una “trovatella” da quella delle altre migliaia che il secolo diciannovesimo ha partorito a Milano? Oggi so che è stato il caso a scegliere. E ha scelto bene: un nome parlante, un nome trasparente… Il nome giusto per raccontare questa storia: la storia di una bambina, figlia della ruota dei nascosti…

Tre giorni dopo la nascita, sbrigata tutta la burocrazia necessaria, Natalina è pronta per il passaggio agli Esposti. Non posso sapere se in questi tre giorni ci sia stato un momento, un augurio, un bacio con cui la madre naturale abbia voluto salutare per sempre la sua bambina, ma voglio pensare di sì. E voglio pensare che sia accaduto di nascosto, all’alba, quando le altre degenti ancora dormono e nessuno può sentire…
    Sono le nove e mezzo del mattino e la levatrice di turno, la signora Beatrice, si presenta all’ufficio di consegna dell’Ospizio con l’infante in braccio. I bambini nati nel comparto vengono censiti in una sezione apposita del registro, prestampata per inserire i dati della levatrice e della ricoverata. Come per nascita e battesimo non c’è niente di celebrativo, di solenne. Tutto si riduce all’assegnazione di un numero: a metà novembre la quota è arrivata a 1343. Questo numero accompagnerà Natalina per tutta la vita. Verrà scritto sul suo libretto di scorta, da consegnare alla balia al momento dell’affido, ed inciso su una medaglietta di riconoscimento. Anche Natalina, come tutti i trovatelli, dovrà poter essere identificata in qualunque momento e così, una volta entrata all’Ospizio, viene subito munita del suo “bulino”, inamovibile, da tenere al collo fino all’abdicazione definitiva dal brefotrofio, al compimento del quindicesimo anno di età. Su un lato della medaglia sono riportati il numero di riconoscimento e l’anno di nascita, sull’altro lato la legenda “Brefotrofio di Milano”. Per la verità molte balie evitavano di seguire questa pratica, ritenendola infamante per la creatura, la quale, sebbene non fosse figlia loro e fosse stata cercata come occasione di guadagno, cresceva nella loro casa ed aveva diritto ad un po’ di dignità. Chissà se è stato così anche per la mia bisnonna…
    Finita la trafila dell’accettazione, ha inizio quella medica. Nel giro di due giorni Natalina passa tra le braccia di serventi, balie, medici, semplici impiegati; viene visitata, vaccinata ed infine assegnata ad una nutrice: la numero 27. Anche questi eventi vengono prontamente registrati, sul “Bollettone di primitivo ingresso”. Nonostante una storia fatta di numeri e dati e tanta miseria, Natalina è una bambina fortunata, perché è sana: il giorno 16, finite tutte le visite, il medico dell’Ospizio, con una firma, lascia l’infante disponibile. Questa bambina di pochissimi giorni non può saperlo, ma tra una settimana soltanto troverà finalmente una casa ed una famiglia (continua…).

La ruota dei nascosti (3)

(Continua da qui)

Difficilmente le storie delle persone comuni scorrono parallele ai grandi eventi senza esserne toccate. Sebbene non ce ne accorgiamo, la vita di ciascuno è legata e influenzata dai movimenti della Storia, che tutti ci spinge e ci governa.          Quando nel 1740 Maria Teresa d’Asburgo, alla morte del padre, eredita la corona d’Austria, molte cose cambiano anche per il Ducato di Milano e per i suoi abitanti. Diverse e tangibili furono le riforme che la nuova sovrana propose, come l’istruzione primaria pubblica ed obbligatoria, che consentì a tutti, uomini e donne, di imparare a leggere e scrivere. L’ultima riforma, realizzata dall’imperatrice nell’anno della morte, riguarda molto da vicino la nostra storia, che forse, senza questa donna “illuminata”, non sarebbe mai stata scritta…

Fu proprio Maria Teresa d’Austria a fondare nel 1780 la “Pia Casa degli Esposti e delle Partorienti in Santa Caterina alla Ruota”. Il governo di Vienna osservava da tempo e con preoccupazione l’elevata mortalità dei neonati assistiti presso l’Ospedale Maggiore di Milano, che dal 1456 si occupava dell’infanzia abbandonata e delle madri nubili. La struttura, sovraffollata per il numero dei ricoverati che cresceva senza sosta, non poteva garantire condizioni igienico-sanitarie adeguate. Per questa ragione, in accordo con l’arcivescovo, Maria Teresa dispose il trasferimento delle poche monache che abitavano nel grande monastero di S. Caterina e fece restaurare l’intero edificio che sorgeva lungo il Naviglio. Il 28 dicembre 1780 qui trovarono una casa le gravide, le balie e tutti i neonati della città, legittimi ed illegittimi.

Così la nostra storia si inserisce nella storia di Milano, di una città che iniziò a dedicarsi all’infanzia abbandonata fin dal Medioevo, quando l’arciprete Dateo aprì lo “xenodochio”, primo esempio di brefotrofio in Italia. Nel suo testamento, datato 787, si legge un profondo rammarico per tutte quelle creature nate fuori dal matrimonio che ogni giorno trovano la morte per mano delle stesse madri, le quali non hanno un luogo in cui far crescere questi figli della colpa. L’arciprete decide così di raccogliere i fanciulli presso la chiesa cattedrale e di stipendiare delle nutrici che li allattino e li battezzino. L’opera di assistenza viene portata avanti nei ricoveri per gestanti sole allestiti dall’Ospedale, dove si pensa anche al futuro dei neonati, affidandoli a nutrici esterne e a famiglie di “allevatori” salariati. La tradizione prosegue con le novità portate dall’imperatrice d’Austria, che presso la Pia Casa dispone l’apertura del “torno”, nome con cui a Milano veniva chiamata la “ruota degli esposti”. Maria Teresa, madre di sedici figli, conosce le difficoltà che una donna povera ed incinta deve affrontare, pertanto decide che qualunque donna può essere accolta ed accompagnata al parto, garantendo a tutte, legittime ed illegittime, l’anonimato.

Maria Teresa d’Asburgo con i figli in un dipinto di Martin van Meytens (1695-1770).

Maria Teresa d’Asburgo con i figli in un dipinto di Martin van Meytens (1695-1770).

La Storia però va avanti e prima dell’ingresso delle tre donne al comparto a Milano è arrivato Napoleone. Per la verità, nel 1884, l’imperatore se n’è andato da tempo, ma non senza lasciare un’impronta… Le nuove leggi sulla famiglia non lasciano scampo ai neonati illegittimi. Senza il riconoscimento del padre i figli restano figli d’ignoti e non hanno diritto a cercare le proprie origini, a sapere da dove vengono. Con Maria Teresa d’Austria l’anonimato era garantito per tutela delle donne; dopo Napoleone l’anonimato è un obbligo. Le madri illegittime non abbiano nome ed i loro bambini devono rimanere nascosti (continua…).

La ruota dei nascosti (1)

Milano, 2 ottobre 1884. Una donna varca il portone del comparto partorienti della Pia Casa di S. Caterina alla Ruota. Ha l’aria furtiva, come se dovesse compiere qualcosa di losco. Eppure sa che lì l’aiuteranno. Mentre si guarda intorno rimanendo sulla soglia, le si fa incontro un’altra donna, molto più giovane di lei ma molto più decisa. La invita a seguirla e la fa accomodare in una saletta angusta e disadorna dove le dice di aspettare, ché arriverà la levatrice di turno. La donna, umile domestica nella casa di un signore, si siede e guarda la giovane donna vestita di bianco andare via, lasciandola sola.

Un’altra donna si aggira con la stessa aria furtiva nei dintorni dell’ospedale. Non sa bene dove andare, quale porta scegliere. È stanca; ha fatto tutta la strada a piedi, da via del Torchio, il quartiere dove vive e lavora come sarta, fino a lì. Ora vuole solo sedersi, e appena vede una coppia di campagnoli uscire con una creatura in braccio dal grande portone sulla sinistra, capisce che è lì che deve recarsi e allora entra con tutta la determinazione che riesce a recuperare. Ad accoglierla non c’è nessuno, ma si fa coraggio ed attraversa il cortile fino ad incontrare la giovane donna vestita di bianco che le indica la saletta dove, finalmente, mettersi in attesa.

Poco dopo il copione si ripete, per la terza volta. Un’altra donna ‒ giovane, incinta, smarrita ‒ davanti alla porta della Pia Casa. Un altro volto timido ed impaurito, un’altra nubile da accogliere e depositare con la massima delicatezza nella saletta dove presto arriverà la levatrice con il registro. Questa volta è un’operaia.

Se non mi spostassi da qui, da quest’angolo nascosto di via Sforza, dietro l’università che mia madre prima e poi io abbiamo frequentato, probabilmente vedrei arrivare altre donne: tutte dall’aria furtiva, tutte agli ultimi mesi di gravidanza, tutte con la stessa storia viva dentro di sé, che non vedono l’ora di far uscire e dimenticare magari per sempre (continua…).

La Pia Casa degli Esposti e delle Partorienti in Milano in un dipinto di G. Grossi (1889-1969).

La Pia Casa degli Esposti e delle Partorienti in Milano in un dipinto di G. Grossi (1889-1969).

Innamorarsi da lontano

Mi innamoravo spesso. Ogni giorno. Uscivo di casa e accadeva. Andando a scuola, durante le lezioni, all’uscita. E poi nel pomeriggio. Quante volte nel pomeriggio! Poteva bastarmi un niente, un dettaglio, un particolare collocato bene (o male); e ci cascavo. Ci ero dentro, insomma.

Una volta era a scuola, un’altra in vacanza, un’altra ancora per la strada o in metropolitana. Era così facile. Una volta accadde per un vicolo, me lo ricordo ancora. Milano, zona Navigli. Tardo pomeriggio in giro per gli ateliers degli artisti. Sarebbe stato più logico che capitasse lì, dentro un atelier, e invece no: accadde dopo, fuori. Quel vicolo ben curato, in disparte, lontano dalla Città. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo, nelle vecchie corti dove sono nati e cresciuti tutti i miei antenati. Fu proprio quella sensazione di sospensione a farmici cadere. Se poi aggiungiamo che era novembre e il tramonto stava affrettandosi e all’improvviso, sulla via del ritorno, un suono di pianoforte mi chiamò da qualche finestra nascosta… gli ingredienti c’erano tutti.

Con la musica è accaduto spesso, troppe volte forse. Bastavano poche note ed era fatta. Soprattutto se erano note di pianoforte. Chopin, Tori Amos, la colonna sonora di un film francese. A volte era una sola battuta a farmi precipitare. Sono state le volte più belle.

Ricordo tutte le volte che mi è successo a scuola, durante una lezione. In quel caso era una parola, languida, musicale. Spesso latina, o inglese: complice l’esotismo della lontananza. Una volta mi accadde con tears (lacrime): suonava così dolce… Ma poteva succedere anche con parole italiane, consuete. Ricordo un’ora di Dante in quarta liceo. L’insegnante spiegava uno dei primi canti del Purgatorio e ripeteva continuamente tre parole, tre verbi: velare, svelare, rivelare. Dal mio banco li presi in mano, e poco dopo erano una poesia. D’amore.

Un’altra volta invece fu un colore. Viaggiavo in macchina, verso la Val di Fiemme. Certe cose possono accadere solo al crepuscolo e solo in condizioni particolari, come quella volta. Me n’ero accorta subito, ancora a casa, guardando dalla finestra. Poi, una volta fuori, fu tutto chiaro. Le montagne erano rosa, completamente rosa. Ma quella volta viaggiavo in direzione contraria, le montagne alle spalle. Continuavo a girarmi indietro e gradualmente lo vedevo allontanarsi e mutare. E soffrivo. Pur sapendo che quel suo mutare era inevitabile e parte della sua bellezza.

La volta che fu per sempre accadde qui, tra le mura di casa. E fu un libro, anzi una frase. Certi amori hanno bisogno di così poco… ma durano a lungo, tutta una vita. Ero sola e intorno a me c’era il silenzio. Si avvicinava l’ora di cena, ma nessuno era tornato. Forse fu la circostanza ‒ il fatto di ritrovarmi con me, attenta ad ogni pulsazione interiore ‒ che aiutò la frase ad entrarmi dentro e a non andarsene più. Quante volte l’ho trascritta su un diario o alla fine di una lettera d’amore…

Anche oggi, a dispetto dell’età, continuo a innamorarmi. Mi basta sempre meno. Qualche giorno fa erano le pannocchie non ancora raccolte che mi accompagnavano al lavoro. Ieri la giornata grigia. Oggi è Lisbona. Mi innamoro persino da lontano… di quello che non c’è e che non conosco. Dopo tanti anni non ho ancora capito come accade, ma accade e non voglio smettere

Aule

«Il cielo della Lombardia è il cielo più triste del mondo».

Così le si era avvicinato un pomeriggio nell’aula semivuota. Lei non aveva saputo rispondere, farfugliando qualcosa di inintelligibile, ma comunque confermando quella inaspettata e laconica confidenza. Era rimasta disorientata, ma anche catturata da quello strano inizio. Avrebbe potuto capirlo che sarebbe stato l’inizio di qualcosa.

In realtà già si conoscevano, ma lei, votata all’anonimato, temeva che lui non la ricordasse e allora, da quando si incontravano a lezione, non l’aveva mai salutato, evitando opportunamente il suo sguardo per non apparire maleducata. Quel pomeriggio, arrivata in anticipo, si era ritrovata sola proprio con lui e gli si era seduta dietro, pensando che il ragazzo non sarebbe stato così sfacciato da girarsi. Ma lui, voltandosi lentamente verso la grande finestra su Milano, aveva pronunciato quella frase a voce alta, coinvolgendola. Durante il breve scambio di battute per fortuna l’aula si era riempita e lei non fu costretta a proseguire in una conversazione a cui si sentiva del tutto impreparata. Trovava più rassicurante scambiare poche parole, pezzi di frase durante la lezione, piuttosto che trovarsi quasi nuda di fronte a lui. Se fosse stata veramente nuda si sarebbe sentita meno a disagio che in quella imbarazzata circostanza.

Quando, un mese dopo, si ritrovò davvero nuda davanti a lui, non ebbe più paura e tornò finalmente se stessa.

A questo ripensava seduta nel corridoio di fronte all’aula un anno dopo. Il corso ormai finito, l’esame dato e le occasioni per rivederlo lentamente diminuite fino a scomparire quasi del tutto. Se lui, per puro caso, passando vicino a quell’aula solo per caso, l’avesse intravista con la coda dell’occhio seduta lì, avrebbe pensato che era tornata a cercare nel passato, come non era capace di non fare, preda eterna della nostalgia. Allora prese la borsa e il libro che teneva sulle gambe ed entrò nell’aula accanto, sebbene la lezione prima della sua non fosse ancora finita. Si sedette in fondo, all’ultima fila, e di sfuggita gettò uno sguardo verso sinistra, cercando Milano oltre le teste chine degli studenti. Milano non c’era, non si vedeva. Nel riflesso del vetro distingueva solo lui, chino come gli altri sul quaderno degli appunti, perso dentro la lezione e lontanissimo davanti a lei.

Pianoforte e voce

Ho iniziato a rendermene conto intorno alle cinque del pomeriggio, quando era già ora di prepararsi. Scegliere cosa mettermi non era facile, dovendo mediare tra l’esigenza di essere comoda e la voglia di essere alla sua altezza, o per lo meno di rasentarla. Da tempo non mi capitava un’occasione simile – dico di avere un motivo per essere magnifica – e mi scoprivo del tutto inadeguata. Disperata, ho addirittura pensato di chiedere qualcosa a mia suocera, avete capito benissimo: a mia suocera, ci rendiamo conto?! Ma ho resistito e piuttosto ero pronta ad infilarmi la mia maglietta nera di Olivia, con l’immancabile commento ironico del mio compagno: “Molto femminista…”. L’unica certezza era che dovevo scegliere tra stivali o tacchi a spillo, mica potevo andare a sentire Tori Amos con le scarpe da ginnastica! Eh già… erano le cinque del pomeriggio e mancavano solo quattro ore al grande evento: stavo finalmente per sentire Tori Amos dal vivo. Non ci potevo credere!

Non ci potevo credere ma gli avvenimenti dell’ultimo periodo mi avevano impedito di gustarmi l’attesa spasmodica del momento e così mi sono ritrovata nel giusto e doveroso stato di eccitazione solo quattro ore prima del concerto, cosa che mi è sembrata alquanto irriverente. La bambina prodigio, l’adolescente geniale, la dea della musica si stava avvicinando a me ed io non me ne curavo! In ogni caso oramai me ne rendevo finalmente conto ed anche, come ogni donna, di non avere niente da mettermi. Poco importa, jeans, stivali di camoscio verdoni e la maglietta nera di Olivia: non sarà femminista ma almeno ha un po’ di paillettes e di cose sbarluccicanti. Quello che conta è lo stato interiore, anche se una donna come la Amos mette voglia di non trascurare mai la propria femminilità.

In teatro si è presentata in rosso, come mi aspettavo, con i suoi capelli bellissimi, i pantaloni di pelle e un tacco dodici che mi faceva traballare solo a vederlo. Si è seduta al suo pianoforte Bösendorfer ed ha attaccato subito, senza smettere più se non per una pausa di pochissimi minuti. Alcune canzoni le conoscevo poco, ma scoprirle dal vivo è stato magico. Mi è spiaciuto che non abbia fatto Icicle, la mia preferita in assoluto, e niente da American Doll Posse e soprattutto da Night Of Hunters, l’album del 2011 interamente costruito su brani di musica classica, da Schubert a Debussy, da Bach a Chopin, di cui ha reinventato il mio notturno preferito, in Si bemolle minore. In compenso ho sentito una magnifica Black Dove ed ho riscoperto un brano degli esordi: Silent All These Years, uno dei tanti testi drammatici della Amos fatti danzare su una melodia leggera e delicata.

Ero seduta sulla mia poltroncina in galleria e pensavo che stavo sentendo Tori Amos, che quella a pochi metri in linea d’aria da me era Tori Amos, con il suo pianoforte e la sua voce. Quasi due ore di concerto solo pianoforte e voce, ma non mancava niente. Non si sentiva l’assenza degli strumenti o della band con cui registra in sala d’incisione. La sua voce – profonda nei toni gravi, delicata e dolce negli acuti – e la voce del pianoforte dicevano tutto. Per un’autrice come la Amos la parola è innanzitutto puro suono e la sua voce un altro strumento da sovrapporre al pianoforte, creando timbri sempre diversi.

Lo spettacolo era accresciuto dal fatto che, seduta tra pianoforte e tastiera, Tori suonava sia l’uno sia l’altra, anche insieme. Non era esibizione virtuosistica, era riscoprire la voce del piano dopo qualche passaggio sulle tastiere.

La cover di Time di Tom Waits è stata splendida, anche quando Tori ha sbagliato le parole e si è messa a improvvisare cantando che ormai ha cinquant’anni e queste cose a venti non le succedevano. Ma questa signora di cinquant’anni ha la stessa carica di quand’era ragazza: in Take To The Sky con una mano batteva sulla cassa del pianoforte per scandire il tempo e con l’altra continuava ad accompagnare il pezzo; la strepitosa coda finale è stata da brividi.

Tra le meravigliose scoperte propongo due video tra quelli meglio riusciti che ho trovato su YouTube: In The Springtime Of His Voodoo e Concertina, rispettivamente da Boys For Pele (1995) e To Venus And Back (1999). La prima è un continuo cambio di ritmi e di timbri nell’uso della voce, di grande emozione ed energia; la seconda un pezzo decisamente delicato e ben eseguito, con grande intensità e partecipazione emotiva.