(Continua da qui)
Il tempo passa e lentamente arriva il momento di ricucire trame, fili e destini che si sono incrociati.
Mentre i signori Biassoni preparano il viaggio per Milano, a Santa Caterina madre e figlia vivono separate. Nel Comparto la ricoverata 292 attende impaziente di uscire e non fare ritorno mai più. Dovrà rimanere ancora una settimana, per riprendersi dal parto e verificare le condizioni di salute, ma questo tempo le sembra infinito. Come tutte infatti anche lei conosce i rischi che si corrono in un luogo simile: fino al parto Santa Caterina rappresenta la salvezza; dopo il parto diventa la paura. La struttura è sovraffollata e la possibilità di contrarre infezioni e malattie contagiose è altissima. Una in particolare semina timori e preoccupazioni tra le degenti: la sifilide. Le madri nubili, in cambio dell’assistenza ricevuta, devono fermarsi qualche mese come nutrici, rischiando di essere infettate dai bambini malati. Così cercano con qualunque scusa di andarsene, ma esimersi dall’obbligo non è facile: bisognerebbe ritirare il proprio bambino dopo averlo riconosciuto o pagare una tassa di 20 lire. Naturalmente, se queste donne si trovavano qui, è perché entrambe le vie non sono percorribili e così possono solo augurarsi qualche malattia o disturbo che impedisca l’allattamento, com’è capitato alla numero 292: dalle visite di controllo la donna è risultata anemica e l’anemia è stata, forse, la sua salvezza.
Nell’Ospizio, a pochi passi dalla madre, Natalina corre inconsapevole gli stessi rischi. Anche gli infanti sono esposti alle malattie, sensibili alle infezioni intestinali che in esseri tanto fragili e minuti possono divenire causa di morte. Il contagio si diffonde rapido, attraverso l’aria umida e malsana che si respira nella zona, a ridosso dei bastioni dove incominciano i prati a marcita.
Milano alla fine dell’Ottocento era un’altra città, una città d’acqua, suggestiva e umida come Venezia. La fossa interna dei navigli fiancheggiava le strade principali, seguendo il lungo perimetro del centro storico. Un sistema di conche e ponticelli consentiva il passaggio a persone, merci e animali, e le vie d’acqua si incrociavano continuamente con quelle di terra. Nel quartiere di S. Eustorgio, dove c’è ancora la vecchia darsena, in via S. Marco e in altri luoghi della città i canali si allargavano in pittoreschi laghetti. Il Naviglio era protagonista attivo della vita quotidiana: le donne si trovavano al lavatoio, gli uomini pescavano. Tutti lo percorrevano, affiancandolo o navigando. La leggenda narra che ancora oggi una rete invisibile di canali scorra sotto la città, una sorta di doppio sotterraneo, o di retromondo raggiungibile attraverso passaggi segreti e proibiti… Come spesso accade, la poesia svanisce non appena ci si avvicina un po’ e si osserva con più attenzione: le pigre acque dei canali scorrono lente, non hanno un bell’aspetto, non appaiono limpide, e si infiltrano nel suolo inquinando i pozzi delle case e dei palazzi confinanti.
Questo slideshow richiede JavaScript.
Natalina è nel comparto inferiore, nella balieria interna insieme ai bambini sani, ma nemmeno qui è al sicuro: per la scarsità di posti deve dividere la culla con un altro neonato. Alcune malattie per loro natura non si manifestano subito e non si può essere certi che tutti i bambini della balieria siano realmente sani. Per impedire che il ricovero nel brefotrofio si tramuti in pericolo, gli esposti vengono affidati il prima possibile alle balie esterne, che arrivano numerose dalla campagna. Se Milano ha avuto un ruolo determinante nell’assistenza alla nascita, anche la campagna ha fatto la sua parte nella storia di tanti “trovatelli”.
Il mattino del 23 novembre dalla campagna è in partenza il nuovissimo “Gamba de legn’”, il tram a vapore che ha rivoluzionato i trasporti verso la città. I signori Biassoni sono già a bordo ed attendono, con un po’ di trepidazione, di partire. In casa si sono alzati tutti prestissimo, i bambini per primi, eccitati anche se scontenti di non poter andare anche loro. In attesa alla fermata percorrono il tram avanti e indietro, guardando e toccando tutto. Per fortuna c’è la Rachele, che li tiene d’occhio e penserà a loro per l’intera giornata. Qualche minuto, il fischio del macchinista e si parte.
– Adess ghè temp un’ora e a sem a Milan, – commenta il signor Giuseppe.
La mattinata è fredda, grigia e brumosa, come tutte le mattine di fine novembre. Sul tram si sta al caldo, avvolti nei cappotti e dai compagni di viaggio. Alcuni sono già i primi pendolari per lavoro, riconoscibili dall’aria assonnata e silenziosa. Altri sono viaggiatori d’occasione e sono quelli con gli occhi e la mente ben aperti, attenti a captare le novità e le stramberie da raccontare al ritorno. Il signor Giuseppe è tra questi; si diverte a commentare tutto ciò che vede come un bambino capace ancora di stupirsi. Fino ad ora il tram l’aveva sempre visto passare dal paese, fermandosi, ogni volta, ad ammirarlo; ma non aveva mai avuto occasione di salirci. Tutto gli appare nuovo, moderno, incredibile. E un po’ magico.
– Al dì d’incœu sa fa svelt a mœuves. Alter che birocc!
La signora Teresa gli sorride con bonaria condiscendenza, ma non partecipa all’entusiasmo. Non parlerà per tutto il viaggio, chiusa in chissà quali pensieri mentre osserva i campi e le case svanire lungo la corsa. Dai finestrini il paesaggio è molto diverso da quello che vedevo io percorrendo lo stesso tragitto qualche anno fa, prima che il Gamba de legn’ venisse messo a riposo.
Il “Gamba de legn'” a Milano nel 1951.
Ad ogni fermata il convoglio si arresta e lascia scendere e salire i passeggeri. Da viaggiatore inesperto il signor Giuseppe teme di perdere la sua fermata e chiede continuamente a chi sale e chi scende dove ci si trovi. All’improvviso vede che molti intorno a lui iniziano a prepararsi e ad alzarsi e capisce che manca poco. Le porte si aprono, c’è un po’ di ressa, di “pigia pigia”. Qualche passo ancora guardando bene in basso per non mancare il predellino. Poi a terra lo sguardo si alza e a sorprenderlo c’è Milano. La signora Teresa è incantata, imbarazzata quasi. Si sente piccola, tanto piccola, molto di più della creatura che la attende. Ferma immobile sul marciapiede, viene risvegliata dal marito:
– Su, Teresa, a ghè un olter tram da ciappaa!
La donna si riscuote e segue il Giuseppe che ha già chiesto indicazioni per Porta Romana: bisogna attraversare la strada e attendere alla fermata di fronte, il biglietto si farà a bordo. La Teresa si lascia travolgere, dalla folla e dallo spettacolo della città che scorre dai finestrini. Non riesce a vedere molto, per la verità, non ha trovato posto a sedere e deve tenersi alla maniglia per non perdere l’equilibrio; ma ogni tanto cerca di sporgere la testa per guardare. Il signor Giuseppe non può badarle, deve controllare la fermata lui. Questa volta non c’è la sicurezza del capolinea, bisogna sapere dove scendere. Per fortuna ci sono gli altri, i milanesi, e basta chiedere: dove sta Santa Caterina lo sanno tutti.
Il naviglio di fronte alla Pia Casa in un dipinto di G. Grossi.
Una volta di fronte all’edificio nuovi timori si presentano. Qui nessuno sa mai dove andare, quale porta scegliere. Ma loro sono in due e insieme c’è più coraggio. Entrano e per mano attraversano il cortile dove tutta la storia è cominciata. Una giovane donna vestita di bianco va loro incontro e li accompagna al parlatorio. Il Giuseppe e la Teresa si guardano intorno e poi tra loro, pensando, forse, le stesse cose. La sala è stretta, sporca. I muri sono scrostati, umidi; ammuffiti. C’è poca luce, e meno aria.
La levatrice arriva subito, accompagnata dal signor Vignali dell’ufficio di consegna. Tutto avviene in grande fretta e senza cerimonie. Si presenta il certificato medico, si danno i propri dati anagrafici da segnare sul registro e ci si rimette in paziente attesa. Dopo circa mezzora la levatrice è di ritorno, seguita da una servente con un’infante in braccio: è una bambina.
– Come si chiama? – chiede la signora Teresa.
– Natalina. Natalina Nascondi. Questo è il suo libretto di scorta, dove segnerete tutte le spese sostenute per ricevere il baliatico a fine mese. Siate precisa, per favore.
– Sì.
– E questo è il resto del corredo –, aggiunge la levatrice porgendo una busta al signor Giuseppe – Ora seguite la signorina per la richiesta del viatico.
È passato mezzogiorno quando i signori Biassoni escono dallo stesso portone da dov’erano entrati. Natalina dorme, non si è accorta di nulla. Non sa di trovarsi tra le braccia dei suoi genitori. La signora Teresa si ferma e si volta a guardare quel posto che non le piace:
– Pepin…
– ’Sa gh’è?
– Mi chì a la porti indree pù.
E così è deciso. Natalina ha trovato una famiglia. Una mamma che la crescerà e la manderà a scuola e un papà che le vuole già bene. Tra poco la Rachele si sposerà e andrà a stare in un’altra casa, ma papà Giuseppe tiene tra le braccia la sua nuova preferita… e guai a toccaaghela!, mi dice oggi il signor Sergio, discendente dei Biassoni.
La mia bisnonna è stata amata e cresciuta come una vera figlia. Ha studiato e guadagnato il “premio di istruzione e buon allevamento” indetto dal brefotrofio; ha lavorato come tessitrice in un noto setificio; si è sposata ed ha partorito sette figli. Ha sofferto, come tutti nella vita. Ha perso due gemellini appena nati ed è stata anni in attesa di mio nonno, catturato dopo l’8 settembre 1943. Ha trepidato ogni volta che il marito e il figlio maggiore non rientravano dall’osteria. Era buona. Questa è la prima cosa che di lei mi hanno detto tutte le persone che l’hanno conosciuta.
La mia bisnonna nel 1942 (album di famiglia).
Milano, 20 novembre 1884. Una donna esce dal portone della Pia Casa in Santa Caterina alla Ruota. Ha la stessa aria furtiva del giorno che è entrata. Si muove piano, con circospezione; un’occhiata intorno e rapida si avvia lungo la strada costeggiata dal Naviglio. All’improvviso qualcosa la ferma e si gira indietro, a guardare per l’ultima volta quel luogo. Poi, però, riprende il suo cammino, volta l’angolo dietro l’edificio e scompare per sempre. Non può sapere che tornerà.
Tornerà tante volte nei pensieri di Natalina, che non potrà evitare di domandarsi – ogni tanto – chi fosse quella donna che la portò in grembo così a lungo per abbandonarla tanto in fretta. E tornerà ancora, molto tempo dopo, nei miei pensieri: questa trisavola senza nome, operaia o sarta o domestica che fosse. Avrei voluto riuscire a darle un’identità, a scoprire di più di quei pochi dati recuperati dal fascicolo della mia bisnonna, custodito ancora oggi dall’Archivio Storico del vecchio brefotrofio di Milano. Invece so solo che era povera e milanese; di sicuro una lavoratrice, come molte donne che si trovarono nella medesima, triste situazione. Ma la sua memoria non è andata persa. Si è mischiata con le storie di tante altre come lei che hanno avuto, forse, una vita sfortunata, ma hanno lasciato qualcosa nel mondo: un bambino, un’altra vita tutta da scrivere.
Fine