Cosimo?

– Cosimo? Cosimo? Dove sei?
– Cosimo?

Io chiamavo, chiamavo, ma Cosimo non usciva.
Lo sapevo che era lì, sopra di me, ben nascosto tra il fogliame fitto e intricato, che lasciava intravedere soltanto a sprazzi qua e là lampi azzurri di cielo.
Ma Cosimo non rispondeva.
Troppo intento alle scoperte quotidiane, o troppo incline oramai alla distanza, frapposta un giorno tra sé e il mondo.
Lo sentivo muoversi sopra la mia testa; se stavo sul balcone, sembrava a un passo e mi illudevo di poterlo scorgere lì, accanto a me, magari con un libro.
Eppure ogni volta che mi sporgevo per vederlo, che mi alzavo in punta di piedi, lui era già fuggito via… troppo rapido e leggero per lasciarsi afferrare.
Allora lo chiamavo; ma mai una volta mi ha risposto. Lo immaginavo, ché oramai non potevo fare altro, incredula quasi della sua presenza. Eppure i segnali del suo passaggio erano sparsi ovunque: un’incisione sulla corteccia, una tana per gli amici dell’aria, una conchiglia caduta a terra dopo un viaggio fino al mare.
Lo so, potevano non essere opera sua: forse del professor Mario o – chissà? – di Adamo. Ma oggi è solo Cosimo ad abitare il parco della villa. Nessun altro è rimasto a occuparsene.
Quest’estate sono passata a cercarlo, a vedere con i miei occhi il luogo dove è nato. Ho vissuto con lui qualche giorno, nell’intrico di linfa che lentamente ha dato forma alla mente del suo autore.
Ho visto Sanremo e il mare dall’alto; ho guardato “in giù”, dove il mondo comincia. Ho atteso la sera e le notti dell’UNPA.
Nel parco della villa Meridiana, dove mondo scritto e non scritto si incontrano e intersecano, e non si distinguono più…


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Le rose del nonno

1Rose

Anche quest’anno sono fiorite le rose del nonno.
Era il 25 aprile, quando abbiamo colto l’unica rosa da portare al partigiano che dà il nome alla strada.
Oggi le rose non si contano più.
Sono rose selvatiche, piantate dal nonno tanti anni fa. Sono rosse ma leggermente rosate. Si appoggiano al muro che le sostiene paziente.
Il nonno non le piantò nel suo guardino, ma lungo la strada.
E oggi le rose del nonno sono le rose di tutti.

 

 

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Tutte le piante si chiamano in latino

«La creazione di un giardino è come la creazione di un’opera letteraria», scriveva il vecchio Libereso.

Il legame tra poesia e piante, tra giardino e letteratura, è già nelle parole. Chi studia lettere lo scopre fin da subito: la prima opera di Virgilio, le sue Bucoliche, è dedicata alla natura, alla terra, alle piante, che proteggono nella felicità. Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi / silvestrem tenui musam meditaris avena. Il pastore Titiro è al riparo di un faggio, mentre compone musica su un flauto d’avena. Nos patriae finis et dulcia linquimus arva. / Nos patriam fugimus. Tu, Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas. Il pastore Melibeo è costretto ad abbandonare i dolci campi che gli sono stati espropriati.
Sono versi che tutti abbiamo mandato a memoria, che abbiamo letto in metrica assorbendo anche la musica dalle parole. In poche frasi le parole della natura sono già molte, compreso il nome della bella Amarilli, che è il nome di un fiore. È stato il latino a insegnarci che le piante sono femmine (e i frutti sono neutri). Con quest’opera il giovane Virgilio ha cantato l’ingiustizia delle espropriazioni seguite alla battaglia di Filippi, il dolore e il brutto che vengono dalla guerra. Mentre Titiro può riposare e comporre poesia protetto dalla natura, Melibeo viene esiliato da essa, che è tutto il suo mondo. Chi ama coltivare le piante non chiede il troppo: ai poeti-pastori delle Bucoliche bastano le humilesque myricae, a Libereso dieci vasi, che «possono fare un giardino e dare felicità».

Virgilio racconta una storia anche sua, celebra l’amore per la terra e per la sua terra natale, il Mantovano, dov’erano i campi che forse aveva perduto. Canta la pace della natura contrapposta ai rischi del mondo esterno, della città, che al di qua della siepe può apparire lontano e innocuo. La siepe fa da limite al campo, è ciò che chiude l’orizzonte di Melibeo. Come le piante le parole hanno una radice e la radice indoeuropea di saepes indica un recinto, che era fatto delle nostre siepi. Per Melibeo oltre la siepe finisce la felicità. Ma presso la siepe, davanti al recinto, è la mangiatoia. Altri pastori arrivano qui, altre parole vengono cantate: Adeste, fideles, laeti triumphantes; venite, venite in Bethlehem… Quand’ero piccola mi sembravano magiche. Alla Messa di mezzanotte attendevo questa canzone e le sue note solenni. Il presepe e le parole mi proteggevano.

Come Virgilio aveva i suoi campi, Libereso scriveva versi. Non è un caso che chi sappia amare la natura sappia amare anche le parole e nutra il desiderio di sceglierle con cura. Nei disegni del suo erbario le piante sono accompagnate dal loro nome latino, scritto sempre con precisione. Gli alberi e i fiori del giardino dov’è cresciuto hanno nomi propri, di grandi personaggi dell’arte, della letteratura e delle scienze sociali. Fiori dedicati a Dante, ad Einstein, a Sacco e Vanzetti. E poi il «Cristo proletario, un profumatissimo garofano di colore rosso cremisi scuro vellutato, che era il simbolo del plebeo libertario di Nazaret».

Libereso era un anarchico, come De Andrè. Per il cantautore solo la musica risveglia la libertà, che dorme nei campi coltivati. Nel giardino di Libereso le piante crescevano (e credo crescano ancora) libere e felici: non legate e addirittura non potate se non necessario al loro sviluppo naturale. Appaiono disordinate a chi le osserva, ma in realtà seguono le regole della natura, il ciclo delle stagioni. Nel regno chiuso, recintato, del giardino l’anarchico trova l’unica società capace di crescere in armonia, trova «l’utopia che rappresenta l’ossigeno per un futuro migliore».
Sembra un’utopia la letteratura, eppure è un mondo abitabile, più del mondo reale che abbiamo ricevuto in dono e trascurato.

Libereso Guglielmi ha preso forma nel giardino del Professor Calvino, muovendosi tra i personaggi che il figlio Italo stava abbozzando ed entrando di sfuggita in qualche storia. Comporre – mettere insieme – le piante e comporre le parole non è tanto diverso.

Anch’io sono cresciuta in un giardino, creato con amore dalle mani sapienti di mio padre, ma i nomi delle piante li ho imparati soprattutto dalla poesia. Ho visto l’agave sullo scoglio, ho respirato l’odore dei limoni. Il prunalbo aveva un nome così dolce che bastava ad essere felice, senza bisogno di vederlo. Ho pianto con Lisabetta sul testo di basilico.
Provo a chiudere i libri per spostarmi nel mondo concreto, ma la poesia mi segue: eccola, è sull’autostrada. Tra grigio e cemento, tra i colori spenti, una macchia gialla piano piano prende forma. È lei, la lenta ginestra: il fior gentile che consola il deserto circostante con il suo profumo…

Le citazioni da Libereso sono tratte da: L. Guglielmi, Diario di un giardiniere anarchico, Pentagora, 2019, il libro che mi ha fatto conoscere Pentagora.
Il titolo è una frase di Libereso, il ragazzo-giardiniere nel racconto Un pomeriggio, Adamo, in I. Calvino, Ultimo viene il corvo, 1949.

L’albero e il bambino

L’insegnante scrive un racconto. Parla di alberi e di infanzia.

L’alunno lo legge e si ricorda di quando era bambino, di un libro che amava; e ne parla all’insegnante. L’insegnante cerca il libro, lo trova e scopre che è una storia famosa, conosciuta e tradotta in tutto il mondo. Il libro è L’albero. Allora lo compra, lo legge e lo regala a un bambino. Il bambino a sua volta legge il libro, tutto d’un fiato.

È sera, è tardi e nel buio della stanza entra la mamma. Si avvicina piano, in punta di piedi, ma il bambino non c’è. La mamma si volta, lo cerca. Ma non lo trova. Poi alza lo sguardo: e incredula vede il bambino che piange, abbracciato all’albero.

Dedicato a mio nipote Simone (il bambino) e a Gabriele (l’alunno), che mi ha fatto conoscere L’albero, di Shel Silverstein.

Grandi alberi in una giornata di luce

Avevo un albero, quando ero piccola. Un albero grande, immenso. Un gigante di anni di fronte a me bambina. Era un albicocco e mi attirava. Mi piacevano il suo nome dolce, le dolci albicocche e mi piaceva ogni tanto arrampicarmi per osservare il mondo con distacco. Per fortuna era facile, ché io somigliavo poco al Barone Rampante ed ero al contrario un po’ imbranata e fifona. Il tronco solido, largo, e una biforcazione a un metro e mezzo da terra, perfetta per incoraggiare un paio di slanci ed essere già in alto, seduta tra due rami fatti su misura per il mio corpo minutino.

Con me portavo i compiti, la merenda, a volte un libro. Ma soprattutto portavo me stessa. Mi piaceva sedermi sull’albero a pensare, a guardarmi da fuori, a vedermi vivere. Ho una vecchia fotografia scattata dal papà nel giorno della prima comunione di mio fratello, in cui, liberata dal vestito tanto buono quanto scomodo delle ricorrenze, sono in posa per i posteri.

Di fronte all’albero c’era la casa di un vicino, il signor Giulio, che rilegava libri ed ha rilegato la tesi di mia madre e i vecchi dizionari di greco e latino. Con lui abitava un’anziana signora (non so se la madre o la suocera), la chiamavano “la Zigada”, storpiando in dialetto il suo cognome; ed io pensavo si chiamasse davvero così. Con il bel tempo la Zigada usciva alla finestra e le piaceva rimanere a chiacchierare con me o con mio fratello, che ad arrampicarsi lassù era più bravo. Non ricordo di cosa parlassimo, ricordo solo le raccomandazioni, di stare attenti, ché salire così in alto era pericoloso!

Passato il tempo non sono più salita sul mio albero, con gli adulti sempre intorno a ricordarmi la fine dell’infanzia. L’albero però non li ascoltava, restava al suo posto ed io sapevo che c’era: era l’albero del giardino, come se fosse l’unico. Quando poco dopo iniziai il liceo, divenne il protagonista del mio primo tema: “Grandi alberi in una giornata di luce”, una traccia che da sola fa sognare, fa capire quanto possa essere prezioso un insegnante, e che prima o poi mi deciderò a proporre anch’io a qualche classe.

L’albero oggi non c’è più ed io mi domando per la prima volta da quanto tempo fosse nel giardino, chi l’avesse piantato… forse mio padre. Non ricordo nemmeno perché sia stato sradicato. Ricordo che ne soffrii, come soffrii quando venne abbattuto l’abete con cui facevamo l’albero di Natale. Già quando ero piccola, era cresciuto così tanto che le palline luminose non bastavano più e il papà rimediava mettendole solo davanti, sul lato che dava sulla strada. È stato tolto quando anche le radici erano cresciute troppo e ci mancava poco che arrivassero fino al mio letto, che nella nuova stanza al piano terra stava solo a un passo.

Così del mio albero mi restano pochi ricordi, attaccati al cuore come le foglie d’autunno, luminose, cangianti e pronte, un giorno, a scivolare via…

IoSulMioAlbero

Ringrazio la mia amica Miss Fletcher che, con il suo post di oggi, mi ha ricordato la Giornata Nazionale dell’Albero.

Sulla riva

     ‒ Ti piace quando piove?
     ‒ No.
     ‒ Perché?
     ‒ Sono più triste.
     ‒ E non ti piace essere triste?
     ‒ Non più.
     …
     ‒ Mi piaceva una volta, quando non era vera tristezza. Quand’era una posa. Ora anche essere tristi è diventato triste.

Si era alzata. Aveva fatto qualche passo verso la riva e si era accucciata a cercare sassolini. La guardavo e vedevo che non era più bella come un tempo. Era invecchiata. Non era più la ragazza che collezionava attimi, che era scappata un giorno dall’università e si era fatta tre ore di treno solo per vedere il mare. Il mare ce l’aveva lì davanti, ma nemmeno quello le importava.
     Pensavo queste cose accendendo una sigaretta, e pensavo che una volta si sarebbe arrabbiata. Mi sarebbe piaciuto che si arrabbiasse ancora, che mi dicesse “Andiamo via ché c’è il vento e prendo freddo”.

Ci eravamo incontrati sulla riva, un giorno di febbraio. Io leggevo, mentre lei raccoglieva la sabbia da portare a casa. Deve averla ancora in qualche vecchia scatola; io il libro non lo trovo più. Era inverno e c’era il sole, mentre lei avrebbe voluto che piovesse. Diceva qualcosa che somigliava a una vecchia canzone. Diceva tante cose che una volta dicevo anch’io, ma poi ho smesso di pensare. Finché ha smesso di sentirle anche lei.

La sigaretta lentamente finiva e la spegnevo sulla sabbia. Poi la chiamavo, ché ero stanco e volevo rientrare. Di rimanere un altro po’ non me l’avrebbe chiesto più. Forse avrei dovuto chiederglielo io, ma avevo disimparato. Così la presi per mano e andammo via.

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Aule

«Il cielo della Lombardia è il cielo più triste del mondo».

Così le si era avvicinato un pomeriggio nell’aula semivuota. Lei non aveva saputo rispondere, farfugliando qualcosa di inintelligibile, ma comunque confermando quella inaspettata e laconica confidenza. Era rimasta disorientata, ma anche catturata da quello strano inizio. Avrebbe potuto capirlo che sarebbe stato l’inizio di qualcosa.

In realtà già si conoscevano, ma lei, votata all’anonimato, temeva che lui non la ricordasse e allora, da quando si incontravano a lezione, non l’aveva mai salutato, evitando opportunamente il suo sguardo per non apparire maleducata. Quel pomeriggio, arrivata in anticipo, si era ritrovata sola proprio con lui e gli si era seduta dietro, pensando che il ragazzo non sarebbe stato così sfacciato da girarsi. Ma lui, voltandosi lentamente verso la grande finestra su Milano, aveva pronunciato quella frase a voce alta, coinvolgendola. Durante il breve scambio di battute per fortuna l’aula si era riempita e lei non fu costretta a proseguire in una conversazione a cui si sentiva del tutto impreparata. Trovava più rassicurante scambiare poche parole, pezzi di frase durante la lezione, piuttosto che trovarsi quasi nuda di fronte a lui. Se fosse stata veramente nuda si sarebbe sentita meno a disagio che in quella imbarazzata circostanza.

Quando, un mese dopo, si ritrovò davvero nuda davanti a lui, non ebbe più paura e tornò finalmente se stessa.

A questo ripensava seduta nel corridoio di fronte all’aula un anno dopo. Il corso ormai finito, l’esame dato e le occasioni per rivederlo lentamente diminuite fino a scomparire quasi del tutto. Se lui, per puro caso, passando vicino a quell’aula solo per caso, l’avesse intravista con la coda dell’occhio seduta lì, avrebbe pensato che era tornata a cercare nel passato, come non era capace di non fare, preda eterna della nostalgia. Allora prese la borsa e il libro che teneva sulle gambe ed entrò nell’aula accanto, sebbene la lezione prima della sua non fosse ancora finita. Si sedette in fondo, all’ultima fila, e di sfuggita gettò uno sguardo verso sinistra, cercando Milano oltre le teste chine degli studenti. Milano non c’era, non si vedeva. Nel riflesso del vetro distingueva solo lui, chino come gli altri sul quaderno degli appunti, perso dentro la lezione e lontanissimo davanti a lei.

Nuovi voli

Con pochi e leggerissimi ritocchi, dal quaderno degli appunti dell’università…

Nina era innamorata. Guardava fuori dalla finestra con deboli sospiri. L’alone dileguava dal vetro con rapidità preoccupante.

Lui non si curava di lei: con la curiosità di un bambino che impara l’alfabeto seguiva la lezione intorno a Carlo Emilio Gadda. Lei non si curava di lui: scrittore dall’aura intellettuale, inadeguato alle sue letture ingenue. Cercava di stuzzicarlo con scherzi e scarabocchi, ma lui si indispettiva, disturbato, distaccato, distolto dalla sua attenzione irritante! Allora lo scostava, con noncuranza calcolata, sicura di attirarlo e di perderlo nuovamente per un po’…

Si erano conosciuti per caso, una notte, senza aspettarsi quel destino improvvisamente così dolce. Il lunario volgeva ad aprile, mentre loro stavano per amarsi. Lei lo sapeva, ma lo teneva nascosto; mentre lui si stupiva e la stupiva, citando Mozart ed Ovidio. Poi finalmente la invadeva per non lasciarla mai più.

Questi ed altri lievi pensieri la importunavano durante la lezione. Era sempre così languida che sul banco si distendeva, si disperdeva e galleggiava impalpabile in uno stato semireale. Tutto appariva felice allora, tutto scompariva e sembrava essere stato solo per non annoiarla prima di condurla a lui. Ora finalmente il mondo ritornava, ed era pronto per essere scoperto.

Intanto il cielo si alzava per lasciare spazio a nuovi voli.