Cosimo?

– Cosimo? Cosimo? Dove sei?
– Cosimo?

Io chiamavo, chiamavo, ma Cosimo non usciva.
Lo sapevo che era lì, sopra di me, ben nascosto tra il fogliame fitto e intricato, che lasciava intravedere soltanto a sprazzi qua e là lampi azzurri di cielo.
Ma Cosimo non rispondeva.
Troppo intento alle scoperte quotidiane, o troppo incline oramai alla distanza, frapposta un giorno tra sé e il mondo.
Lo sentivo muoversi sopra la mia testa; se stavo sul balcone, sembrava a un passo e mi illudevo di poterlo scorgere lì, accanto a me, magari con un libro.
Eppure ogni volta che mi sporgevo per vederlo, che mi alzavo in punta di piedi, lui era già fuggito via… troppo rapido e leggero per lasciarsi afferrare.
Allora lo chiamavo; ma mai una volta mi ha risposto. Lo immaginavo, ché oramai non potevo fare altro, incredula quasi della sua presenza. Eppure i segnali del suo passaggio erano sparsi ovunque: un’incisione sulla corteccia, una tana per gli amici dell’aria, una conchiglia caduta a terra dopo un viaggio fino al mare.
Lo so, potevano non essere opera sua: forse del professor Mario o – chissà? – di Adamo. Ma oggi è solo Cosimo ad abitare il parco della villa. Nessun altro è rimasto a occuparsene.
Quest’estate sono passata a cercarlo, a vedere con i miei occhi il luogo dove è nato. Ho vissuto con lui qualche giorno, nell’intrico di linfa che lentamente ha dato forma alla mente del suo autore.
Ho visto Sanremo e il mare dall’alto; ho guardato “in giù”, dove il mondo comincia. Ho atteso la sera e le notti dell’UNPA.
Nel parco della villa Meridiana, dove mondo scritto e non scritto si incontrano e intersecano, e non si distinguono più…


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Grandi alberi in una giornata di luce

Avevo un albero, quando ero piccola. Un albero grande, immenso. Un gigante di anni di fronte a me bambina. Era un albicocco e mi attirava. Mi piacevano il suo nome dolce, le dolci albicocche e mi piaceva ogni tanto arrampicarmi per osservare il mondo con distacco. Per fortuna era facile, ché io somigliavo poco al Barone Rampante ed ero al contrario un po’ imbranata e fifona. Il tronco solido, largo, e una biforcazione a un metro e mezzo da terra, perfetta per incoraggiare un paio di slanci ed essere già in alto, seduta tra due rami fatti su misura per il mio corpo minutino.

Con me portavo i compiti, la merenda, a volte un libro. Ma soprattutto portavo me stessa. Mi piaceva sedermi sull’albero a pensare, a guardarmi da fuori, a vedermi vivere. Ho una vecchia fotografia scattata dal papà nel giorno della prima comunione di mio fratello, in cui, liberata dal vestito tanto buono quanto scomodo delle ricorrenze, sono in posa per i posteri.

Di fronte all’albero c’era la casa di un vicino, il signor Giulio, che rilegava libri ed ha rilegato la tesi di mia madre e i vecchi dizionari di greco e latino. Con lui abitava un’anziana signora (non so se la madre o la suocera), la chiamavano “la Zigada”, storpiando in dialetto il suo cognome; ed io pensavo si chiamasse davvero così. Con il bel tempo la Zigada usciva alla finestra e le piaceva rimanere a chiacchierare con me o con mio fratello, che ad arrampicarsi lassù era più bravo. Non ricordo di cosa parlassimo, ricordo solo le raccomandazioni, di stare attenti, ché salire così in alto era pericoloso!

Passato il tempo non sono più salita sul mio albero, con gli adulti sempre intorno a ricordarmi la fine dell’infanzia. L’albero però non li ascoltava, restava al suo posto ed io sapevo che c’era: era l’albero del giardino, come se fosse l’unico. Quando poco dopo iniziai il liceo, divenne il protagonista del mio primo tema: “Grandi alberi in una giornata di luce”, una traccia che da sola fa sognare, fa capire quanto possa essere prezioso un insegnante, e che prima o poi mi deciderò a proporre anch’io a qualche classe.

L’albero oggi non c’è più ed io mi domando per la prima volta da quanto tempo fosse nel giardino, chi l’avesse piantato… forse mio padre. Non ricordo nemmeno perché sia stato sradicato. Ricordo che ne soffrii, come soffrii quando venne abbattuto l’abete con cui facevamo l’albero di Natale. Già quando ero piccola, era cresciuto così tanto che le palline luminose non bastavano più e il papà rimediava mettendole solo davanti, sul lato che dava sulla strada. È stato tolto quando anche le radici erano cresciute troppo e ci mancava poco che arrivassero fino al mio letto, che nella nuova stanza al piano terra stava solo a un passo.

Così del mio albero mi restano pochi ricordi, attaccati al cuore come le foglie d’autunno, luminose, cangianti e pronte, un giorno, a scivolare via…

IoSulMioAlbero

Ringrazio la mia amica Miss Fletcher che, con il suo post di oggi, mi ha ricordato la Giornata Nazionale dell’Albero.