Sguardi dall’infanzia 12: l’uovo di Pasqua.

Quando ero piccola per Pasqua ricevevo un solo uovo. Non mi sembrava poco, e non mi sembrava neanche strano: visto che si chiamava “uovo” di Pasqua, al singolare, era normale, anzi ovvio, che fosse uno e non di più. I miei compagni di classe, invece, ne ricevevano ben più di uno e magari anche di quelli giganteschi, di qualche chilo, mentre il mio sarà pesato un paio d’etti a dir tanto. La cosa non mi infastidiva, non li invidiavo per questo; mi sembrava solo molto strano…

La prima sorpresa che ricordo di aver trovato (e che naturalmente ho ancora, nella mia scatola dei ricordi di bambina) era una lente d’ingrandimento, con cui negli anni a venire avrei giocato tantissimo. La più bella, invece, la trovai che avevo già diciassette anni, nell’uovo regalatomi dalla mamma del mio fidanzato di allora: una borsettina minuscola, gialla, di plastica, che si chiudeva con un bel sole di legno. La cosa più bella è che io quella borsetta la usavo davvero, e ci ho passato intere estati, durante le quali uscivo giusto con le chiavi di casa e “il soldo” per il gelato (o la birra a seconda dei casi, ma questo è un post sull’infanzia e la birra è meglio lasciarla tra parentesi)

Gli anni migliori, però, sono stati quelli dominati dalla Kinder. Sebbene adorassi come una divinità il cioccolato fondente, anche il cioccolato Kinder non mi dispiaceva, grazie a quel rivestimento interno di cioccolato bianco che mitigava e correggeva il sapore di quello al latte (il latte nel cioccolato è un po’ come l’acqua nel vino: un’eresia). L’uovo di Pasqua Kinder era diventato tanto desiderabile da attenderlo per tutto l’anno, quando la produzione aveva iniziato ad impacchettarlo non con i soliti carta e fiocco, ma in scatole di cartone. Sugli scaffali del supermercato stavano allineate tutte le uova di cioccolato, distinguibili solo per il colore della carta; e tra queste spiccavano (o si nascondevano, visto che non sembravano tali) le uova Kinder. Ma perché io volevo quell’uovo? Perché volevo la scatola. La scatola era a forma di casetta, o di castello, o ancora di camper. Io volevo quell’uovo per avere la scatola. A Pasqua, finito il pranzo, quando tutti i miei cari compagni di scuola stavano probabilmente attendendo di scartare e rompere l’uovo per trovare la sorpresa, io cercavo di togliere l’uovo dalla confezione senza romperla, perché poi avrei aggiunto la nuova casetta a quelle degli anni precedenti, andando ad ingrandire il mio piccolo villaggio.

Purtroppo non ho conservato nessuna di quelle scatole magiche; forse, con gli anni, si saranno anche rovinate e saranno state gettate via. Conservo però tantissimi ricordi dei pomeriggi passati a giocarci, soprattutto con i puffi, anzi: con le puffette, visto che, da piccola femminista, mi facevo regalare solo puffette. La mia prediletta era la scatola a forma di camper, nella quale abitavano le mie puffette preferite, quella vestita da indiana e quella che faceva ginnastica.

Ieri sera ho raccontato questa storia ai miei nipotini, uno dei quali quest’anno, invece dell’uovo di Pasqua, riceverà un videogioco o qualcosa di simile. Sentirglielo dire ‒ e con entusiasmo, per giunta ‒ mi è sembrata una cosa molto triste, lontanissima dalla poesia e dal piccolo universo che io riuscivo a creare con una semplice scatola di cartone.

Buona Pasqua a tutti.

Creazione del mio papà.

Creazione del mio papà.