Le preghiere in latino

Cause anagrafiche trascurabili mi collocano tra coloro che hanno sentito i vecchi recitare le preghiere in latino.
La vecchia nella fattispecie era mia nonna.

Quando ero piccola, con una cadenza quindicinale rigorosamente rispettata, si andava al cimitero. Eravamo in quattro: io, mio fratello, la mamma e la nonna. Il papà non veniva. Il cimitero non era affar suo, era cosa da donne, e se non fosse stato che non lo si poteva lasciare a casa incustodito non avremmo portato nemmeno mio fratello.
Fatto il segno della croce, il giro era sempre lo stesso, e guai a cambiarlo: prima dalla bisnonna Natalina e dallo zio Aldo, poi dal nonno Felice e infine da altri morti imprecisati che, a pensarci oggi, forse degnavamo di una visita solo perché di passaggio (non più su questa terra, evidentemente).
Anche il mansionario era rigidamente fissato: faceva tutto la nonna e sempre nello stesso ordine: cambiare il lumino, cambiare e/o annaffiare i fiori – quando non erano finti -, pulire, pregare. Il tutto con fare estremamente pratico, senza alcuna solennità esibita né tramandata. Un massimo di dieci minuti a tomba.
Io le preghiere le dicevo a mente, ché avevo imparato così, e anche la mamma e persino mio fratello (se le diceva). La nonna no. La nonna pregava parlando, mentre puliva senza neanche fermarsi. E le diceva in latino, le preghiere, perché aveva imparato così. A me faceva una grande impressione che la nonna sapesse il latino e la ascoltavo ammirata ripetere velocissima parole arcane e inintelligibili… La mamma, che il latino avrebbe potuto insegnarlo, non diceva niente, quindi andava tutto bene.
I primi dubbi sono arrivati con il liceo, quando le desinenze della lingua latina non erano più un mistero e soprattutto non combaciavano affatto con i suoni gutturali emessi dalla nonna, che al posto di “requiem” la diseva “recüm”, con la “ü” alla lombarda. E sulla tomba degli avi, pulendo, recitava: “Recüm eternum le da mes dom, recüm eternum le da mes dom, tre tigri contro tre tigri…”, che più o meno sarebbe stato lo stesso.

Oggi anche la nonna si trova al cimitero, e le preghiere in latino non le dice più nessuno…

Così nascono gli amori (a volte)

Cartolina del borgo di Apricale, nell’estremo ponente ligure.

Era stato un capriccio. Il meraviglioso capriccio di una bimba che non voleva rinunciare al suo giocattolo.
Uscita dal negozio, ferma davanti alla vetrina, non volevo tornare a casa. Non senza un libro, senza il mio libro.
Così rientrai e mi precipitai fulminea dov’era collocato l’unico volume che in qualche modo mi aveva attirata, senza troppa forza in verità.
Dopo cena, mi sedetti sul letto, la schiena appoggiata al cuscino, ignara dell’avventura che stava per coinvolgermi… delle città incredibili dove mi sarei persa, delle parole magiche che avrei smesso presto di sottolineare incapace di scegliere la meraviglia tra la meraviglia. Mai mi era successo prima.
Quel libro fu il primo di tutti gli altri che oggi hanno un ripiano dedicato solo a loro.
Quel libro erano Le città invisibili di Italo Calvino.
Così nascono gli amori, a volte.

Una cosa bella

– È una cosa bella, disse C., con lo sguardo luminoso.
– Sì, è una cosa bella.
Lei intanto si asciugava gli occhi per proseguire.
– Se vuoi, continua la tua compagna, ho proposto.
– No no, ce la faccio: mancano due righe.

Così S. finì la lettura del suo tema.
Le proteste delle donne, delle ragazze, iraniane; il gesto di tagliarsi i capelli o di raccoglierli per sfida in una coda di cavallo. Alcune giovanissime, della stessa età delle mie alunne. Da pronunciare ad alta voce, in mezzo alla classe, sentendolo in modo amplificato. Una cassa di risonanza spaventosa, quasi.
Può succedere questo quando si hanno sedici anni e un compito diventa luogo di riflessione.

– È una cosa bella, disse C.
Sarà una cosa ancora più bella, quando sarai tu, o un altro ragazzo, a ritrovarti con il viso da asciugare; quando soffrirai con le tue compagne sparse per il mondo.
Stasera non siamo molto lontani…

Lo scoiattolo della penna

Avevo sette anni, quasi e mezzo, quando lo scoiattolo della penna si arrampicava per l’ultima volta sopra un albero e sgusciava via, dalla vita.

La prima volta che sentii il tuo nome, Italo, facevo le scuole elementari. Ero in salotto, seduta per terra vicino alla poltrona di pelle tipicamente anni Ottanta. Sulla poltrona la mamma cercava di leggermi “Il visconte dimezzato”. Ricordo le sue impressioni, come le sembrasse incredibile l’idea che aveva avuto lo scrittore, l’immagine di un uomo tagliato a metà. Invece a me del povero Visconte diviso in due non importava un fico secco! Non avevo voglia di stare lì, ad ascoltare. Volevo andare a giocare, io!
Chissà dove si trovava Calvino quel giorno, se era ancora vivo; chissà cosa disse la mamma quando sentì al telegiornale la notizia della sua improvvisa e tanto ingiusta scomparsa.

Ero troppo piccola per ricordarlo, ero troppo piccola per incontrarlo.

Eppure oggi so che per quasi sette anni e mezzo ho abitato la stessa terra in cui Pin giocava a fare il grande, la stessa terra che il Barone rampante scrutava dall’alto. Per quasi sette anni e mezzo ho vissuto nella città invisibile dove Marcovaldo gironzolava a caccia di natura; ho camminato sotto lo stesso cielo che il signor Palomar guardava con nostalgia… E forse, mentre Qfwfq giocava ad atomi insieme a Pfwpf nello spazio cosmico, io giocavo a biglie sulla spiaggia con gli amici del mare…
Ma solo oggi che non ci sei più, caro Italo, finalmente possiamo giocare insieme: con le parole. Tu, però, rimani sempre il più bravo…

Il paese del pane bianco

«Avevo sette anni e di quel lontano 1944 ricordo l’urlo delle sirene nelle incursioni aeree, i morsi della fame e il buio delle notti di coprifuoco. Noi bambini eravamo amici dei partigiani, i giovani eroi coi fazzoletti rossi al collo che cantavano le canzoni patriottiche per le vie cittadine. Era il periodo della resistenza in Ossola e della nostra sofferta “Repubblica”» (Irene Pagani).

Ottobre 1944: la Repubblica partigiana dell’Ossola resiste da quasi 40 giorni, ma ormai è chiaro che la fine si avvicina. La popolazione non è più al sicuro e si teme una rappresaglia durissima da parte dei nazifascisti. Basterebbe poco per salvarsi, basterebbe raggiungere il confine e valicarlo; e il confine non è lontano. La Croce Rossa lo sa e lo sa Gisella Floreanini, membro del governo della Repubblica con delega all’assistenza. Saranno loro insieme alla Croce Rossa Svizzera a mettere in salvo migliaia di bambini, e anche molte donne e uomini.
La storia di quei bambini è stata raccontata dalle loro voci cinquant’anni dopo. Uno di questi, Claudio Barone, lanciò un appello tramite un quotidiano per ritrovare gli altri. Così venne costruito Il paese del pane bianco. Testimonianze sull’ospitalità svizzera ai bambini della “Repubblica dell’Ossola” (Grossi editore). Il libro che porto a casa dalle vacanze, che mi ha tenuto compagnia nelle mie sere in Valgrande.
45 sono le storie riportate. Ben più di 45 i bambini coinvolti e le famiglie svizzere che li hanno ospitati, accolti come figli e fratelli e sorelle. Storie tutte diverse: alcune brevi, ma la maggior parte è un racconto accurato e dettagliato, rimasto a lungo nella memoria che i bambini hanno cresciuto dentro di sé.
Il paese del pane bianco offre inoltre un altro punto di vista sulla guerra e sui rapporti internazionali. I bambini dell’Ossola sono i bambini della Repubblica partigiana: sanno cos’è, come e perché sia nata, grazie a chi. Sanno riconoscere in mezzo al male dove sta il bene. Nei partigiani loro eroi, ma anche nella gente comune che, senza problemi grazie alla neutralità del proprio paese, non rimane indifferente ma decide di offrire una mano a chi è in difficoltà.

Siamo abituati a pensare alla Svizzera come al paese neutrale per eccellenza, che non si schiera, non partecipa perché non conviene. In questo caso la Svizzera e la sua gente hanno dimostrato di saper scegliere una parte, quella giusta.

«…fui avvolta in una coperta e presa in spalla da mio padre che a turno con altri partigiani mi portarono fin lassù. Dissero anche che ero la più piccola bambina partigiana del suo gruppo».
(Osvalda Vignadocchio)

«Albeggiava appena, quando – garantiti dal silenzio calato sulla zona –qualcuno degli abitanti e noi ragazzi più grandicelli ci spingemmo fin su la strada deserta.
E qui – voglio ricordarlo quasi con la stessa emozione che provai allora – vidi per la prima volta, in carne e ossa, un partigiano. Era un giovane con la barba, giubba e calzoni corti, scarponi ai piedi. Imbracciava un’arma – uno “sten” apprenderò più tardi – ed era diretto a villa Tibaldi
per una prima ricognizione».
(Ezio Rondolini)

«Si è messo con noi un partigiano che andava in Svizzera, era ferito e perdeva sangue dalla testa, aveva attraversato il fiume per salvarsi. I partigiani stavano facendo saltare il ponte napoleonico e quello della ferrovia. Questo partigiano ferito ha preso in spalla il piccolo Virgilio e l’ha portato così fino a Varzo.
Non abbiamo mai saputo chi era…».
(Primo Falcaro)

La storia

Elsa Morante tra i suoi libri.

La prima volta che sentii parlare de La storia di Elsa Morante avevo 16 anni. Il professore di lettere ci aveva assegnato la lettura di un passo. Ricordo solo che c’era un bambino che si chiamava Useppe e che mi aveva annoiata. Mortalmente.
Allora ero un’adolescente egocentrica, nel senso letterale del termine: il mio unico centro ero io e anche i libri dovevano parlare di me.
Mi avvicinai a Elsa Morante più tardi, all’università. Il professore di latino, con cui poi mi sarei laureata, propose un suo racconto nell’ambito di un corso dedicato al dialogo tra antichi e moderni: Prima della classe. La prima della classe ero io: un mostro mai visto che agli occhi degli altri doveva apparire quasi inumano.
Comprai la raccolta da cui il racconto era tratto e la diedi da leggere anche a mia nonna, perché i Racconti dimenticati sanno parlare a tutti, anche a chi ha una dignitosa quinta elementare.
Ci fu poi L’isola di Arturo, mentre La storia continuava a rimanere in libreria, a farmi paura. Quell’unico episodio letto troppo presto pesava e pesava anche il mio tardivo amore per la storia. Mi vergogno quasi a dirlo, La storia finì tra le mie mani per una promozione Einaudi. Servivano due libri e per la prima volta, di fronte al volume bianchissimo tra gli altri Einaudi, considerai l’idea di comprarlo e di leggerlo.
Lo divorai. Non riuscivo a staccarmene come raramente mi era successo. Ero dentro le pagine, non sentivo nulla di ciò che accadeva intorno, nulla mi disturbava perché non c’ero. Ero altrove.
Una settimana dopo averlo finito, a ripensarci, piangevo ancora.
La storia di Elsa Morante oggi è sullo scaffale dei libri che maggiormente hanno in-ciso su di me, mi hanno tagliata e scavata nel profondo.
Ultima piccola nota: i due professori che di fatto sono stati i miei Maestri hanno entrambi messo Elsa Morante sulla mia strada. Ma quant’è bello il modo in cui una persona ci avvicina a un libro? Alle parole degli altri?

Taccuino delle vacanze #7

Giorno 7: sulla via del ritorno

…e anche quest’anno la vacanza volge al termine.
In valigia c’è posto per tutto: luoghi visitati, storie lette, treni presi, torte mangiate. Libri comprati e cartoline spedite, cieli azzurri e grigi, gelati e mirtilli, rumore d’acqua che scorre… e sul fondo anche un’ultima foto, dalla strada del ritorno.

Il “Giardino di Montagna” è un gruppo scultoreo di sette opere. L’artista milanese Giancarlo Sangregorio ha voluto lasciare qui questi lavori, in un luogo a lui caro.
Formatosi all’Accademia di Brera, Sangregorio rimase affascinato dalle cave dell’Ossola, dove la pietra congiunge la montagna all’arte.
Il “Giardino di Montagna” si trova a Druogno, davanti all’oratorio sconsacrato di San Giulio, lungo la strada che collega Domodossola alla Svizzera attraverso la Val Vigezzo. L’ho visto ogni volta che sono passata di qua durante la vacanza. L’ho scelto come ultimo ricordo di questa estate in Val Grande…

Taccuino delle vacanze #6 – parte seconda

Giorno 6: giornata partigiana. 
Parte seconda: pomeriggio piovoso a cercar caduti.

La Repubblica dell’Ossola deve ancora nascere, ma in tutta la valle si resiste da tempo.
La frazione di Finero, nel territorio di Malesco, sarà teatro di alcuni fatti di sangue oggi ricordati da diversi monumenti. La giornata grigia ci accompagna a cercarli.

Finero dall’alto (agosto 2022)

Da Zornasco, frazione in cui alloggiamo, ci spostiamo a Finero, dove il 23 giugno 1944 un comando infame di nazifascisti mette fine alla vita di un gruppo di partigiani. Sono i 15 martiri della fontana di Malesco.
Senza motivo di rappresaglia 15 partigiani catturati durante un rastrellamento vengono prelevati dall’asilo di Malesco, adibito a carcere, e fucilati contro il muro del cimitero di Finero. Ben visibile lungo la strada un grande monumento ricorda tutti i caduti della guerra di Liberazione. Due cartelli invece raccontano l’eccidio e il sentiero “Teresa Binda”, madre barbaramente uccisa per avere seguito il figlio partigiano.

Finero: monumento ai caduti per la libertà (agosto 2022)

Spostando lo sguardo verso il paese, una targa sulle mura che oggi circondano il cimitero indica il luogo dell’eccidio.

Finero: cimitero (agosto 2022)

Il cancelletto sembra chiuso, ma basta spostare il chiavistello e si può entrare: sulla sinistra due lapidi, una bianca e una nera, riportano il ricordo degli eventi e i nomi di 12 partigiani (3 sono rimasti ignoti).

Non sono passati neanche quattro mesi. È la mattina del 12 ottobre 1944 e al Sasso di Finero si prepara un’imboscata: i comandanti partigiani Alfredo Di Dio e Attilio Moneta resteranno uccisi.
Passato il borgo di Finero, in direzione Cursolo-Orasso un cartello posto all’imbocco di una galleria segnala l’area monumenti caduti partigiani ottobre 1944. Lasciamo la macchina in uno slargo e proseguiamo a piedi lungo la strada, ora dismessa, che affianca la galleria. 

In lontananza compare prima la lapide bianca sul dorso della montagna; poi di fronte l’area monumentale con le lapidi, i busti dei comandanti e il cartello che ricorda gli eventi.

“E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime… Vivo, sono partigiano.
Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
(Antonio Gramsci, Scritti giovanili)

Taccuino delle vacanze #6 – parte prima

Giorno 6: giornata partigiana. 
Parte prima: mattino.

Non potevamo tornare a casa senza una giornata dedicata alla memoria.
In Val Grande lapidi, monumenti, musei, sentieri che ricordano la Resistenza sono dappertutto. Tra questi c’era un posto che più di altri volevo vedere: la Sala Storica in cui si riuniva la Giunta provvisoria di Governo (G.P.G.) della Repubblica dell’Ossola.

Nel periodo della guerra partigiana alcuni territori liberati dall’occupazione nazifascista hanno realizzato i primi esperimenti di democrazia nel Paese. Tra questi la Repubblica dell’Ossola, che aveva sede nella città di Domodossola. Durante i 40 giorni della sua durata la G.P.G. si è riunita dove oggi si riunisce il consiglio comunale. Ci è bastato chiedere il permesso di visitarla e una dipendente del Comune ci ha accompagnati. Gentilissima, ci ha chiesto il motivo della nostra visita e ci ha regalato due pubblicazioni sull’argomento.

La sala è circondata di pannelli che illustrano la Storia che lì dentro si è compiuta, e il tavolo al quale siedono i consiglieri comunali è interamente ricoperto delle copie di volantini e provvedimenti della G.P.G. Non c’è che dire… si era pensato proprio a tutto! Campagna di raccolta delle eccedenze alimentari per sfamare la popolazione, campagna di raccolta armi e arruolamento per difendere la zona liberata, emanazione leggi, francobolli e marche da bollo, divieto di caccia, campagna vaccinale… A quel tavolo ben prima del 2 giugno 1946 sedeva anche Gisella Floreanini, con delega all’assistenza, in rappresentanza del PCI. Il suo lavoro fu determinante per la salvezza di migliaia di bambini e la rete di solidarietà da lei creata insieme ai Gruppi di difesa della donna sopravvisse alla caduta della Repubblica dell’Ossola il 23 ottobre 1944.

Girando intorno al tavolo, guardando e leggendo, mi veniva da pensare come si senta chi oggi siede lì…