Quote rosa

Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé (1929) individua nella dipendenza economica le ragioni dell’insuccesso femminile nella scrittura (restringendo il campo, come è ovvio, al mondo occidentale). Di pari passo però la scrittrice britannica avanza l’ipotesi che anche la mancanza di un modello in fieri di scrittura al femminile abbia fatto la sua, non irrilevante, parte.

Il mondo della letteratura, di proprietà maschile come qualsiasi attività che necessita di istruzione, si è costruito, da Dante in poi, ma prima ancora da Virgilio o ancora prima da Omero, lungo una tradizione che andava ampliandosi nei secoli con l’aggiunta di nuovi classici sempre di mano virile, che, a loro volta, rinnovavano il modello di riferimento per i nuovi scrittori. Il confronto obbligato con questa tradizione si è prolungato fino a quando anche le donne hanno lentamente iniziato ad affacciarsi all’universo della scrittura. Di conseguenza anche per le donne il modello di riferimento era lo stesso: un modello tutto maschile che, sebbene desse voce a personaggi femminili autentici, lo faceva partendo da un modo di pensare e di “restituire sulla carta” connaturato all’essere maschio.

La scrittura femminile non ha alle spalle una tradizione secolare, ed è questo il suo limite. Lo studioso di letteratura non può non sentire uno scarto profondo tra il modo di scrivere delle donne e la tradizione codificata e accettata. Non a caso, diverse scrittrici che hanno raggiunto vertici di notevole interesse anche per gli addetti al mestiere – ed insieme la possibilità (o l’onore?) di essere pubblicate sui manuali per le scuole – sono donne che scrivono come uomini: Simone de Beauvoir, la stessa Virginia Woolf, in Italia Elsa Morante.

Analogamente si può analizzare l’insuccesso delle donne nel mondo politico. La mancanza di un modello femminile con cui confrontarsi appare qui addirittura più evidente, essendo sotto gli occhi di tutti e non solo di una ristretta elite di interessati. Le donne che provano a fare politica sono donne che hanno lavorato e che continuano a lavorare per salvaguardare la loro posizione in modo virile.

La histoire evenementielle è povera di personaggi femminili di rilievo, i quali (ma le femministe più “pure” preferirebbero le quali) sono di solito relegati sui manuali scolastici in isolate schede di approfondimento, che spesso vengono “saltate” dalle stesse insegnanti donne. L’approfondimento, si sa, non è più una pratica della nostra società italiana, che lentamente ha disimparato a parlare, a pensare e insieme ad interessarsi a sé. Dal Novecento la politica al femminile ha perso anche l’evidenza della sua anomala presenza in un mondo di proprietà degli uomini. Mancano le “schede di approfondimento” sulle donne in posizione di potere. Scriverle significherebbe forse continuare a leggere la presenza femminile nel contesto politico come qualcosa di eccezionale, di stra-ordinario; ma forse significherebbe anche creare uno spazio per la lenta delineazione di un modello altro. Le donne al potere hanno bisogno di un loro modello di riferimento, di un archetipo connaturato alla femminilità, per dare l’occasione non solo a loro stesse ma soprattutto alla politica di svincolarsi dal suo modus operandi  a senso unico, quello maschile.

Il problema delle cosiddette “quote rosa” non è la soluzione immediata ed efficace, ma può essere una fase di transizione verso il nuovo. Le quote potrebbero divenire il luogo di creazione, l’officina del modello femminile. È un passaggio obbligato perché l’archetipo di riferimento si costruisce sui numeri. Costringere le donne a partecipare ha senso se le donne impareranno a partecipare a modo loro, senza doversi formare sul modello maschile, unico termine di confronto. Aumentare il numero delle donne significa allora aumentare la possibilità che le donne portino la propria identità nel mondo della politica.

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